venerdì 28 febbraio 2020

PENSIERI-3: Di quanto spazio abbiamo bisogno?

L'interno della barca di Fabrizio e Patrizia

Una delle domande più frequenti che ci sono state fatte nel corso dei nostri viaggi è la seguente: “Come potete vivere per tanto tempo in uno spazio così ristretto?”

Questa è una domanda a cui spesso bisogna rispondere con cautela. Infatti, la domanda stessa denota la filosofia di vita e le priorità di chi la pone e non è saggio né pratico interferire con le filosofie individuali o la loro mancanza.


Di solito incominciamo con l’osservare che il comportamento dell’uomo e il suo approccio alla vita e al suo godimento, hanno una notevole componente di soggettività. E poi aggiungiamo, in tono scherzoso, che per noi lo spazio in barca è il prodotto finale di un lungo processo di ampliamento dello spazio, non del contrario. Perché, da quando siamo partiti dall’Italia, con l’eccezione dell’Australia, non abbiamo mai avuto una casa. Abbiamo cominciato timidamente con piccoli camper, abbiamo ampliato la superficie abitabile con l’autocaravan, e ora viaggiamo con una barca a vela di undici metri, in cui, a paragone, lo spazio disponibile ci appare smisuratamente grande. Tanto grande che, per sette anni, ci siamo permessi il lusso di avere tre cani a bordo. E, negli ultimi due, anche un bel gattone. La gente, normalmente, sorride divertita. Contenti noi...


Studiando la rotta
Per ampliare le informazioni su noi stessi e la nostra barca a vela a chi aveva posto la domanda, informavamo che adesso avevamo una grande area interna, libera dalla solita ingombrante dinette, con un tavolo che, ripiegandosi contro una parete trasversale, lasciava libero molto spazio; che avevamo inoltre un grande pozzetto all’aria aperta, coperto da un tendalino e un dodger, assolutamente necessari nei tropici. Quest’ultimo locale semiaperto, mentre da un lato funge da naturale armonica continuazione visiva dell’area interna – perché il pozzetto, molto profondo, ne è appena al di sopra, consentendo di scendere in cucina attraverso quattro normali scalini – dall’altro permette una libera vista verso l’esterno. C’è anche un altro piano, costituito dalla tolda, poco meno di un belvedere panoramico. Si potrebbe chiedere di più in termini di spazio? Di fronte a tanto entusiasmo, la gente torna a sorridere divertita!

La preoccupazione di coloro che fanno la domanda, dal loro punto di vista, è comprensibile. Anche se non lo esprimono apertamente, quando dicono “io non potrei vivere in uno spazio così ristretto”, in verità vogliono dire “io non potrei vivere in uno spazio così ristretto con un’altra persona.” Ed è generalmente vero che, per molti, è difficile vivere gomito a gomito
perfino con il partner.
Vicini momentanei
 Consapevoli di questo dato di fatto generalizzato, prima di partire dall’Italia per l’India, decidemmo di mettere alla prova la nostra compatibilità vivendo quindici giorni nello spazio più ristretto possibile, il nostro furgone, che sarebbe stato anche lo spazio normale durante la prima parte del viaggio, come ho già spiegato nella storia # 1 de Il nostro canto libero. Superata la prova dell’adattamento al minimo spazio possibile, da allora in avanti le cose non avrebbero potuto che migliorare! Ma in effetti, “adattamento”, in questo caso, è un concetto fuorviante. Infatti quando si ama quello che si fa o si vuol bene a un’altra persona, la transizione avviene senza sforzo, l’intensità del principio del piacere ha la forza di trasformare in positivo qualsiasi potenziale inconveniente.
Visita inaspettata

Recentemente, tra coloro che hanno chiesto sul problema dello spazio, c’è stata un’importante eccezione. Una turista che prendeva il sole su un pontile di Caye Caulker, in Belize, dopo che noi scendemmo nel dinghy ormeggiato al pontile per scaricarvi la spesa del giorno, ci chiese, come fa molta gente, dove eravamo diretti.

“In quella macchia turchese laggiù” le dicemmo, indicandole la nostra barca ancorata nella baia a cinquecento metri di distanza. Quando la informammo che vivevamo in barca da vent’anni spostandoci a vela nelle acque caraibiche, lei non ci pose nessuna domanda sulla ristrettezza dello spazio. Invece osservò: “Voi due dovete avere un rapporto molto speciale!”, mostrando un’onestà e una consapevolezza del problema reale molto superiore alla media. La sua osservazione sottintendeva la difficoltà di un prolungato rapporto di coppia in un luogo ristretto da cui non si può fuggire e dove ogni divergenza va affrontata con la comunicazione appena si presenta. Espresso con la saggezza antica: «I matrimoni sono tutti felici. È il fare colazione insieme che causa un sacco di guai!» (Proverbio irlandese).

I pensieri seguenti, dal libro di Laborit, Elogio della Fuga, danno un’idea ben precisa dei risvolti sociali e psicologici del problema dello spazio:

«L’angoscia era nata dall’impossibilità di agire. Finché le gambe mi permettono di fuggire, finché le braccia mi permettono di combattere, finché l’esperienza che ho del mondo mi permette di sapere che cosa devo fare e desiderare, niente paura: posso agire. Ma quando il mondo degli uomini mi costringe a osservare le sue leggi, quando il mio desiderio si scontra con il mondo dei divieti, quando mi trovo imprigionato, mani e piedi, dalle catene implacabili dei giudizi e delle culture, allora tremo, gemo e piango. Spazio, ti ho perduto, e mi rinchiudo in me stesso»[1]. Non sarà che, chi fa la domanda sulla ristrettezza dello spazio abbia da tempo perduto il suo spazio interiore? Difatti, se si affronta la questione dello spazio in termini pratici e razionali, ci si accorge che il problema non è lo spazio in sé. Infatti ci si può domandare: “Se si vive in una casa o in un appartamento, di che cosa si ha assolutamente bisogno?”
Servizio a domicilio
Certo di un tetto che ci protegga dalle intemperie. Certo di un posto per dormire, sufficientemente ampio da consentirci di rigirarci senza problemi in tutte le posizioni. Poi di un posto per riporre i vestiti: un armadio o qualcosa di simile. Un bagno con doccia e una cucina o un angolo cucina. Si può avere bisogno di un tavolo per mangiare, per appoggiare un quaderno, un libro, un computer. Certamente di acqua corrente e di elettricità. Si può anche sentire il bisogno di spazio all’aperto, come un giardino, che ci connetta all’ambiente naturale.
Ebbene, in una barca a vela, si trova tutto quello che ho elencato sopra, organizzato in modo pratico e funzionale, senza sprechi. C’è, inoltre, molto più di un giardino negli spazi aperti che si aprono alla vista dal pozzetto e perfino dal di dentro, in ogni ancoraggio, attraverso le numerose finestre. Se c’è una differenza significativa, questa risiede nel fatto che questo mutevole giardino naturale non lo possediamo: lo proteggiamo e curiamo con l’ausilio di coloro che sono disposti a collaborare, è vero, ma a differenza di molti investitori locali e stranieri, non ci passa per la mente di possederne neanche una piccola parte. Questo, lungi dal costituire uno svantaggio, risulta invece molto liberatorio. (seguirà presto un altro post su “adattamento e libertà”).





[1] Henri Laborit, Elogio della fuga, Oscar Saggi Mondadori, 1990, p. 95

Patrizia e il gattone di bordo
Fabrizio Accorsi

1 commento:

  1. tutto vero,é sempre questione di punti di vista.Io p.e. ho imparato a rivedere il concetto di "cose possedute"da cui gli spazi .Per patto con la mia metà divido l'anno tra 5 mesi in barca,e 7 a terra ,ma dividendoli tra due due o tre diversi paesi,quindi il problema é:cosa mi porto dietro,cosa mi serve veramente,visto che gli appartementini a terra vengono poi affittati quando noi non ci siamo.Ecco ,questo insegna molto a rifurre,ridurre,e.. star benissimo
    buin vento

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