martedì 21 luglio 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 20: UNA LINEA SOTTILE FRA AVVENTURA E DISASTRO - Rio Dulce, Guatemala



Rio Dulce è il nome del fiume che sfocia a Livingston, un villaggio garifuna sul versante caraibico del Guatemala. È anche il nome della cittadina omonima trenta chilometri più a monte, un tempo chiamata Fronteras. Rio Dulce identifica generalmente anche un vasto complesso di fiumi e laghi, baie e baiette, isole e isolotti, lagune e paludi con una vegetazione prevalentemente di mangrovie.
Queste ultime, estendendo dovunque il loro manto continuo sulle rive, rappresentano l’elemento unificatore del fragile ecosistema, contribuendo col loro colore verde tenue meno invasivo a un’atmosfera rilassante tipicamente tropicale. Questo bacino fluviale, di variegata bellezza e forti attrattive, sembra fatto su misura per un’evasione di qualche giorno dai ritmi impossibili di lavoro dei Paesi industrializzati.

I nostri volantini pubblicitari promettevano un tour tutto compreso di due giorni in barca a vela, attraente e avventuroso, e luoghi unici da esplorare. Inoltre: pane e lasagne al forno fatti in casa, anzi in barca, gamberoni freschi tra i piatti forti, alcune varietà di vino, cocktails del tramonto, ecc.

In piedi sul pontile dell’Hotel Backpackers, situato sulla riva del fiume opposta alla cittadina, c’erano ad aspettarci i nostri ospiti: una giovane coppia danese.

 

Li conducemmo a bordo con il dinghy e lì cominciò il nostro charter: proprio da sotto lo spettacolare ponte a schiena d’asino del Rio Dulce, il più lungo ponte a un’arcata del Centro America.


Non si erano ancora seduti nel pozzetto che le loro macchine fotografiche erano già in azione sulle lavandaie locali, le quali, sulla riva, all’ombra di un enorme pilone del ponte, battevano i panni sulle rocce piatte e levigate, immerse nella corrente fino ai fianchi, completamente vestite con i loro colorati huipiles maya. Proseguimmo a motore per ancorarci al largo del pittoresco Castello (Forte) di San Felipe a un chilometro dalla partenza, per consentire ai nostri ospiti una breve visita.

Dopo una mezz’oretta riprendemmo la navigazione oltre l’angusto imbuto d’acqua all’altezza del forte, il quale, strategicamente situato nel punto più stretto del fiume, fu costruito e utilizzato in epoca coloniale dagli spagnoli nel corso di molti secoli, durante i quali fu distrutto e saccheggiato più volte dai pirati.

 
 Sia gli spagnoli, che si stabilirono in quest’area fluviale situata a una trentina di chilometri dalla foce, sia i loro rivali, i pirati, che occuparono di tanto in tanto il forte, impiegavano lo stratagemma di sbarrare sistematicamente l’accesso alle imbarcazioni nemiche che risalivano il fiume, sistemando pesanti catene sotto la superficie, da una riva all’altra, per poi attaccare e affondare quelle navi intrappolate con i cannoni situati sui bastioni del castello, i cui originali si possono tuttora osservare. Le mura, invece, sono state ricostruite.

 

Una brezza leggera, ma sufficiente a riempire le vele, ci spinse lungo il lago Izabal, che inizia subito dopo lo stretto, consentendoci di raggiungere la nostra seconda destinazione circa un miglio prima del villaggio minerario di El Estor.

Mentre Patrizia preparava le lasagne, condussi a terra col dinghy i nostri ospiti, per far loro da guida in due posti di interesse che li avrebbero tenuti occupati il resto della mattinata.

Il primo si trovava alla fine di un idillico sentiero ombreggiato, che serpeggiava nel bosco e a tratti si avvicinava a un piccolo corso d’acqua fiancheggiandolo lungo le basse sponde.

Quando le rive e il fondo del ruscello si mutarono in un terreno irregolare disseminato di rocce, ci trovammo davanti un monticello che sbarrava sia il sentiero sia la vista, nascondendo fino all’ultimo momento il gioiello che stavamo cercando.

Pochi passi ci portarono sull’altura: la vista dall’alto era spettacolare. Al di là di una pozza incassata tra pareti rocciose, due cascate, l’una accanto all’altra, divise soltanto da una sottile soglia granitica, sfioravano lo strapiombo precipitando nell’acqua sottostante con un salto bianco e fragoroso che creava l’illusione di un gettito solido. Tale schiuma si dileguava più in basso, trasformandosi in rivoletti e meandri in miniatura che lambivano pietre e massi verdi di muschio, alimentando lo stesso corso d’acqua che avevamo risalito, le cui placide acque solo qualche decina di metri più a valle non facevano presagire la loro origine da due fiotti d’acqua tanto impetuosi.

 

Rami di alberi secolari sporgevano sulla pozza formando una tettoia di fogliame impenetrabile al sole. La prima volta che c’ero andato con Patrizia non avevo creduto ai miei sensi: una cascata fredda e una bollente quasi si toccavano! Certo, una combinazione rara. La risultante acqua tiepida che scorreva nella pozza invitava a un bel idromassaggio, in un ambiente tipicamente tropicale.

Io e Patrizia ci eravamo immersi prima nelle acque più miti in un angolo della piscina, per poi spostarci sempre più vicino alla cascata calda, abituandoci progressivamente allo sbalzo termico. Era stato delizioso: le temperature diverse assecondavano il piacere di ogni corpo e gusto. Gli altri pochi turisti che si godevano una breve nuotata o restavano semplicemente immersi fino al collo nei punti più disparati della pozza, suggerivano l’idea di ninfe e fauni usciti da un contesto mitologico atemporale. Non c’è da stupirsi che la piantagione di banane in cui si trovano queste cascate porti un nome speciale: Azienda Paradiso. Difficile credere che, in un remoto passato, l’idillico boschetto non fosse stato consacrato a qualche divinità silvestre.

Ingaggiai sul posto una guida locale, la quale, per un sentiero attraverso il bosco ci condusse all’entrata di una caverna. Le acque molto rapide di un torrente, uscendo fragorose dalla penombra dell’entrata della grotta, si precipitavano verso il basso, schiaffeggiando i tronchi sradicati dalla corrente e ora intrappolati tra le rocce, per poi gettarsi nel letto sottostante del corso d’acqua principale. Quest’ultimo era lo stesso torrente che, più a valle, dava origine alle cascate della Finca Paraiso (Azienda Paradiso). Congedai la guida.

L’unico modo di esplorare la grotta era quello di nuotare. Ma, per questo, mi ero organizzato in anticipo: all’entrata ci infilammo maschera e pinne, poi cominciammo a nuotare controcorrente assistiti da una torcia elettrica che avevo posto su un cuscino galleggiante.

Avevo consigliato ai nostri ospiti di nuotarmi accanto, cosa che fecero puntualmente. La ragazza, però, cominciò a trovarsi un po’ a disagio mentre avanzava al buio lungo la grotta, il cui soffitto diventava sempre più basso e alcuni pipistrelli volavano in picchiata ogni volta più vicino, fino a sfiorarle la testa. La sentii bisbigliare: “Mi danno i brividi! Sinistro!” come se stesse parlando a se stessa.


Tutto intorno l’oscurità era completa, ma i guizzi di luce della torcia elettrica che si riflettevano a tratti nell’acqua lasciavano intravvedere, di tanto in tanto, su entrambi i lati, le rassicuranti caratteristiche delle anguste pareti: speroni rocciosi, nicchie e fenditure.

Un continuo fragore lontano, dapprima appena percettibile e poi sempre più consistente, a mano a mano che si procedeva, mi dava un’indicazione precisa di quanto mancava alla fine della nuotata. Ci fermammo, con l’acqua al petto, dove non era più possibile procedere, tenendoci aggrappati a un macigno, per non venire trascinati a valle dalla corrente che ormai aveva raggiunto l’intensità massima. L’iniziale tenue rumore era diventato il ben noto fragore di una cascata, che adesso ci trovavamo davanti, travolgente e assordante, illuminata dalla sola torcia elettrica; dopo un po’, decisi di spegnere anche quella e tutto piombò nel buio.

“Tenetevi forte alla roccia. Voglio mostrarvi qualcosa” dissi mentre mi arrampicavo con cautela su per i macigni bagnati e scivolosi, levigati dall’azione millenaria delle piene, per raggiungere la base della cascata, alcuni metri più in alto. Poi, con un movimento lesto, per minimizzare l’impatto della pressione dell’acqua sulla testa e sulle spalle, mi introdussi dietro, appoggiando la schiena contro la parete rocciosa gocciolante. Intanto, la caverna era risprofondata nella totale oscurità.

All’improvviso accesi la torcia dietro la cascata, orchestrando un’estemporanea sinfonia di luci e ombre che i miei ospiti apprezzarono con urla e lunghe vocali di esclamazione. Dedussi che ne era valsa la pena!



Dopo aver passato la notte e la mattina seguente alla fonda in una piccola baia riparata dai venti nord-orientali all’estremità del lago, nel primo pomeriggio col dinghy risalimmo di un paio di miglia il fiume adiacente, il Polochic, per cercare le scimmie urlatrici e le oropendula.



Il dinghy, all’epoca, era una barca d’alluminio con le fiancate relativamente basse, spinta da un motore a quattro cavalli: un’imbarcazione pericolosa in mare aperto, ma adatta alle acque interne del Guatemala, generalmente calme.


I nostri ospiti sembravano contenti della presenza di Patrizia e anche di Pacal, uno dei nostri cani; il più giovane, Maya, l’avevamo lasciato a bordo. 



L’esplorazione lungo le rive del fiume fu molto gratificante. Sugli alberi scorgemmo numerose scimmie urlatrici, dall’impressionante ruggito a metà tra quello di un leone e un abbaiare amplificato, udibile da almeno un chilometro, e sull’acqua giganteschi iguana, dalla preistorica corazza,
e tartarughe secolari sonnecchiare immobili nel sole sulle basse rive o su tronchi d’albero a fior d’acqua; e, come previsto, molti oropendula, dal piumaggio marrone rossiccio, le quali, mentre volavano avanti e indietro dagli alberi di cecropia, delle cui tenere foglie si cibano, fino ai loro nidi penduli tubolari lunghi due metri, aprivano alla vista dei nostri ammirati ospiti la spettacolare coda giallo cadmio. 

 

Giunse quindi il tempo di tornare indietro. Quando arrivammo alla foce del fiume – nel punto in cui il Polochic improvvisamente si allarga mescolando le sue acque con quelle del lago, e a meno di duecento metri dalla baietta in cui era ancorata la barca a vela – una secca inaspettata fece sì che il piede del motore si incagliasse sul fondo e, prima che me ne rendessi conto, due onde provenienti dal lago allagarono il dinghy, che all’improvviso si capovolse.

Mi trovai in piedi con l’acqua fino al petto. Un’occhiata in giro mi tolse ogni preoccupazione: tutti toccavano il fondo, avvolti dalla luce rossastra del sole in procinto di scomparire dietro le basse colline.

Nel punto in cui la corrente del fiume incontrava le onde del lago, che era proprio dove ci trovavamo, si originavano confuse increspature, pericolosi gorghi e onde sempre più alte.

Cercando di evitare che il dinghy fosse trascinato in acque più profonde, cominciai a tirarlo verso riva con la corda che avevo in mano nel momento in cui ero stato scaraventato nell’acqua. Patrizia arrivò immediatamente ad aiutarmi; ma il dinghy, rovesciato, pieno d’acqua com’era, e con il motore sott’acqua che faceva resistenza, risultò troppo pesante da spostare contro la forza della marea uscente.

Intanto i nostri ospiti, presi dal panico, si erano diretti a terra senza esitazione. Invano gridai loro di tornare indietro a darci una mano. Perdemmo attimi preziosi, aspettando che cambiassero idea: l’indugio fu fatale. Insieme con il dinghy fummo trascinati dalla corrente e, mentre mi rendevo conto di non toccare più il fondo, vidi Pacal che cercava di salire sulla barca rovesciata.

Riuscii ad aggrapparmi all’albero del motore, attorno al quale strinsi le ginocchia. Con i piedi sulla testata del motore, mi mantenni in posizione verticale con il capo e le spalle fuori dall’acqua, e appena un attimo dopo Patrizia fece lo stesso, cingendomi forte la vita da dietro. Mi domandavo con terrore se i dispositivi che fissavano il motore allo specchio di poppa avrebbero retto al doppio peso. Rifiutai di pensare al peggio. D’altra parte, la situazione era già abbastanza drammatica di per sé, senza aggravarla con speculazioni negative.




Pacal, che era salito sopra il fondo convesso del tender rovesciato, barcollava sulle quattro zampe, riuscendo a malapena a mantenere l’equilibrio contro le onde in arrivo, adesso di notevoli dimensioni; il suo instabile passeggiare avanti e indietro faceva presagire un imminente nuovo capovolgimento o l’affondamento della piccola imbarcazione.

Gli ordinammo di nuotare verso riva, ma lui, fedele fino in fondo, rifiutava di abbandonarci là in mezzo. Eravamo ancora di fronte alla foce del fiume, ma mi accorsi con sgomento che stavamo andando inesorabilmente alla deriva.

Si erano formate adesso grosse onde regolari che ci colpivano da dietro, cioè dal lago, spesso sommergendosi e consentendoci di respirare soltanto nell’intervallo tra l’una e l’altra. Di nuotare a terra, con quella corrente di marea contraria, non se ne parlava nemmeno: sarebbe stato un suicidio. La strategia di minor pericolo era quella di rimanere aggrappati alla barca, che continuava a oscillare in modo preoccupante, a causa delle onde e dei movimenti del cane. Non c’era tempo da perdere. Bisognava gettare Pacal in acqua: per lui non sarebbe stato difficile raggiungere la riva.

Patrizia dimostrò, come in altre occasioni, un sangue freddo encomiabile: afferrata a una corda, per non perdere contatto con il dinghy, si spostò con cautela lungo una fiancata laterale, con molta difficoltà e pericolo, finché non riuscì a spingere Pacal bruscamente nell’acqua.

Questa era l’unica cosa sensata da fare se volevamo avere qualche speranza di sopravvivenza. Pacal continuò a nuotare per qualche tempo intorno al dinghy, disorientato. Un paio di volte ci fece correre i brividi lungo la schiena, quando tentò di mettere le zampe anteriori sul metallo scivoloso del suo fondo capovolto, con l’intenzione di risalirvi; con il prevedibile risultato di sbilanciarlo ancora di più. In preda alla disperazione e a un attacco di panico, gli urlammo più volte, all’unisono e sopra il rumore delle onde che si frangevano, di raggiungere la riva. Alla fine, lo seguimmo con lo sguardo nuotare nella direzione giusta. Non sembrava troppo convinto e dovemmo incoraggiarlo a proseguire nella stessa direzione, stavolta con parole suadenti, quando si voltò, esitando un paio di volte. Era del tutto consapevole dell’eccezionalità di un problema che non si era mai presentato prima di allora e di un vago pericolo che sovrastava le nostre vite.

Finalmente rimanemmo soli a far fronte alla situazione e questo contribuiva, già di per sé, a darci una piccola tregua dall’ansia.

Intanto l’oscurità stava guadagnando il braccio di ferro con la luce, che scemava inesorabilmente. Non c’era altro da fare. Dovevamo rimanere in quella posizione pericolosa e disagevole fino a quando non ci fosse stata un’inversione di marea, forse un lasso di tempo di parecchie ore. Preoccupati per la nostra incolumità, rifiutavamo anche solo di supporre che Pacal non ce l’avesse fatta.

Tra un’ondata e l’altra che si accavallava imbizzarrita sopra la testa, una violenta massa d’acqua che ci costringeva a mantenere bocca e naso ermeticamente chiusi, mi ero proposto di parlare in continuazione per mantenere sveglia Patrizia, per rendermi conto della sua condizione fisica, per sapere se sarebbe riuscita a mantenersi aggrappata, per capire se riusciva a respirare una volta passata l’onda. Il suo respiro tiepido, che mi sfiorava il lobo dell’orecchio e la nuca, mi rassicurava ogni volta, infondendomi forza e speranza.

Per passare il tempo formulavo delle ipotesi sulla nostra distanza dalla foce del fiume: in base all’apparente spostamento delle luci sull’altra sponda del lago, che si trovavano a qualche chilometro dalla nostra posizione, calcolai che eravamo andati alla deriva alcune centinaia di metri.

La situazione rimaneva critica. Da parte nostra era una questione di resistere fino all’alba, di continuare a respirare fra un’onda e l’altra senza farsi prendere dal panico, ma non tutto dipendeva da noi. Che cosa sarebbe successo se il motore su cui stavamo in piedi si fosse staccato dallo specchio di poppa? Dopo tutto, doveva sostenere il peso di entrambi, un compito per cui non era stato progettato.

Il tempo passava con snervante lentezza. La notte era fredda, ma non gelida. Ed erano già comparse le prime stelle. Com’erano familiari e al tempo stesso lontane! Di tanto in tanto alzavo lo sguardo verso quei puntolini di fuoco, che, a causa del nostro costante movimento, oscillavano in una folle danza da una parte all’altra di una volta celeste priva di luna, come in una pioggia di stelle cadenti. Mi potevo permettere soltanto un’occhiata fugace, perché ogni volta, subito dopo, mi coglieva un forte senso di vertigine.

A un certo punto, dalla posizione di alcune stelle calcolai che non mancava molto a mezzanotte. Continuavo a parlare e Patrizia mi rispondeva. A volte coglievo stanchezza nella sua voce, ma mi confortava il pensiero che era stanchezza causata da sfinimento fisico, non da rassegnazione.

Per un istante, sullo sfondo dell’illuminazione fissa sulla riva opposta del lago, scorsi alcune luci che si muovevano, a un paio di chilometri di distanza: dovevano essere le luci di navigazione di un’imbarcazione. A quell’ora della notte non poteva essere che la Marina Guatemalteca. Però, anche nel caso più fortunato in cui i nostri ospiti, raggiunta la barca a vela, avessero dato l’allarme chiedendo aiuto via radio, la nave della Marina non si sarebbe avvicinata alla foce del fiume di notte, per il giustificato timore di incagliarsi. Non c’era nessuna speranza di aiuto dall’esterno, dovevamo uscire di lì con le nostre forze.

Dopo un lasso di tempo che mi sembrò interminabile, all’improvviso, accadde. Uno scossone mi avvertì che la testata del motore aveva cozzato contro qualcosa di solido e un attimo dopo sentii il fondo sabbioso sotto i piedi. A considerevole velocità, eravamo stati trasportati in acque poco profonde dalla forza travolgente della marea. Sentii un brivido di eccitazione. Ci perdemmo in un abbraccio senza fine, che nessuno dei due aveva il coraggio di interrompere. La vita ritornava a sorridere.

Spingemmo il dinghy nell’acqua bassa, lo ribaltammo insieme e poi Patrizia si premurò di allacciarlo a un grosso tronco che giaceva semisommerso in posizione orizzontale. A tentoni infilai una mano dentro l’imbarcazione e ne toccai il pavimento, accorgendomi subito che mancava la pesante grata di legno che lo ricopriva. Era superfluo domandarsi se avremmo ritrovato i binocoli e il libro sugli uccelli. Lo abbandonammo lì, con l’intenzione di recuperarlo all’alba.

Patrizia aveva appena finito di legare il dinghy che Pacal arrivò di corsa. Anche lui ce l’aveva fatta: la sua gioia era incontenibile. La famiglia era salva. L’altro cane, Maya, che era rimasto in barca, doveva essere preoccupato per la nostra assenza, ma non poteva essergli successo nulla di male.

Nutrivamo buone speranze che i nostri ospiti, con la luce del tardo pomeriggio, avessero camminato lungo la riva della baia e poi raggiunto a nuoto la nostra imbarcazione: anche se non potevamo esserne del tutto sicuri.

La barca a vela era ancorata poco lontano, dietro una piccola lingua di mangrovie. Nel buio più completo, camminammo a tentoni in quella direzione. Dopo un po’, i nostri occhi cominciarono ad abituarsi e a distinguere alcuni dei contorni del paesaggio. Laggiù! Là c’era la foce del fiume! La prima cosa da fare era attraversarla a nuoto.

Sull’altra sponda, non avemmo altra scelta che proseguire nell’acqua lungo la riva. La sabbia, che cedeva sotto i piedi, in alcuni tratti era molto simile a sabbie mobili. Il buio rendeva difficile calcolare le distanze; adesso eravamo nell’acqua fino al petto e Pacal ci nuotava accanto.

No, era troppo pericoloso. Sarebbe stata una macabra ironia essere usciti indenni da un naufragio e poi perdere la vita per aver dato per scontato di essere in salvo. Decidemmo, pertanto, di ritornare sui nostri passi. 



Riattraversammo a nuoto il fiume, tenendo conto della forte corrente, anche se questa volta il flusso di marea entrante non presentava alcun rischio. Di lì provammo a raggiungere quella che ci era parsa la sagoma di una capanna. Imitando Pacal, procedemmo a quattro zampe nell’acqua bassa, ma le mani e i piedi continuavano a sprofondare nel fango troppo molle. Lo sfinimento fisico ci fece ben presto desistere.

Non ci rimaneva altro da fare se non cercare una piccola superficie di suolo asciutto per passarci il resto della notte. Cominciavamo anche a sentir freddo a causa delle magliette fradice, così ce le togliemmo e lavammo via dal corpo il fango appiccicoso che ci copriva braccia e gambe; anche se al buio non era facile indovinare esattamente dove si era depositato!

La nostra ricerca risultò infruttuosa, in quella palude non c’era terra asciutta. L’alta marea aveva ricoperto ogni piccola lingua di sabbia e portato con sé una leggera brezza: l’aria stava rinfrescando.

Alla fine ci coricammo schiena contro schiena su delle scaglie di legno vicino all’acqua. Patrizia si strinse al petto Pacal, che le avrebbe di certo procurato almeno un po’ di calore. Per quanto mi riguardava, avevo la pancia e il petto esposti al freddo della notte. In quelle condizioni, non sarei riuscito ad appisolarmi.

Nel buio scorsi, quasi sopra la testa, un paio di quelle enormi foglie – di almeno cinquanta centimetri di diametro – che crescono dovunque nei tropici vicino agli specchi d’acqua dolce. Allungai la mano, le sradicai e le disposi contro il petto. Adesso sì che il calore del corpo, in parte intrappolato dentro quella sottilissima parete vegetale, faceva la differenza. Riuscii finalmente ad assopirmi. Tuttavia il mio sonno leggero, ogni pochi minuti, veniva interrotto da qualcosa di appuntito che premeva sotto i fianchi, così cambiavo posizione risistemando di volta in volta le foglie. Nel silenzio più assoluto, mi svegliavano anche strani rumori, alcuni molto vicini. Forse granchi... Forse serpenti... E se fossero stati alligatori? Chi poteva dirlo? Ogni volta mi era più difficile riaddormentarmi.

Nel corso della notte, sollevai spesso la testa per sbirciare oltre gli arbusti e scrutare l’oscurità, nell’aspettativa dei primi segnali di luce nell’orizzonte orientale.

Finalmente da quella parte comparve un chiarore lattiginoso, che continuò in modo impercettibile a guadagnare terreno sulle tenebre. Dopo una breve attesa, un’alba gloriosa cominciò ad accarezzare con le sue lunghe dita di rosa un cielo di un pallido celeste. Il sole, che sarebbe presto risorto, avrebbe riportato la vita degli umani alla “normalità”. Che bellezza semplice e godibile era contenuta in quella sfuggevole “normalità” a cui spesso non diamo peso.

Mi strofinai gli occhi come se quel gesto automatico avesse il potere di alleviare anche la rigidità muscolare causata dall'immobilità fisica e dai disagi della notte. Poi mi rinfrescai il viso e quando sentii l’impatto dell’acqua sulla pelle, ebbi la sensazone  di un’esperienza nuova. Vidi altresì che ero ancora tutto imbrattato di fango, ma cosa importava? Ce l’avevamo fatta!

Raggiungemmo a nuoto la barca, per abbracciare due ospiti molto preoccupati. Maya ci fece feste interminabili e, quando ebbe finito con noi, annusò Pacal per sapere dove era stato.

Adesso, però, dovevamo tornare a recuperare il dinghy. Arrivammo dieci metri prima della barca ausiliaria della Marina. Purtroppo, ci avevano cercato nel posto sbagliato. Comunque furono molto gentili e ci rimorchiarono con il dinghy alla nostra barca. A un certo punto del tragitto, notai qualcosa che mi fece trasalire: la parte interna delle cosce di Patrizia, fino al ginocchio, si era trasformata in una superficie viola scuro, livida e spettrale, testimonianza evidente di ematomi e abrasioni che aveva subito durante la notte per aver stretto tra le gambe con troppa veemenza l’albero del motore. Era uno spettacolo orribile.

Quando si dice coincidenza! In quell’ancoraggio, di solito deserto per mesi, era arrivata un’altra barca a vela che si era ancorata poco lontano dalla nostra, proprio mentre noi stavamo ritornando verso la foce del Polochic, nel tardo pomeriggio del giorno prima. Avvertiti dai nostri ospiti, i proprietari si erano messi in contatto attraverso la loro radio di bordo con qualcuno che parlava lo spagnolo, il quale, a sua volta, aveva avvertito la Marina dell’incidente. A quanto pare ci avevano cercato per un paio d’ore, ma dentro il lago, a un chilometro di distanza. Avevamo indovinato: quelle luci durante la notte appartenevano proprio alla nave della Marina Guatemalteca.

I cruisers dell’altra barca a vela ci invitarono tutti a pranzo: le aragoste in salsa speciale che ci offrirono furono una sorpresa estremamente gradita, sia per noi sia per i nostri ospiti. Questa storia andò a finire addirittura sul loro blog.

“Tutto è bene quel che finisce bene” come dice l’autore. Il motore del dinghy, che era rimasto nell’acqua dolce tutta la notte, in seguito a una pulizia completa del serbatoio incorporato e delle linee esterne del carburatore, ripartì dopo soltanto una mezz’oretta di tentativi.

Sulla via del ritorno a Rio Dulce, uno dei nostri ospiti commentò: “Dicevate sicuramente il vero nel volantino pubblicitario del charter, promettendo un’autentica avventura!”


 
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