Rio Dulce è il nome del fiume che sfocia a
Livingston, un villaggio garifuna sul versante caraibico del Guatemala. È anche
il nome della cittadina omonima trenta chilometri più a monte, un tempo
chiamata Fronteras. Rio Dulce
identifica generalmente anche un vasto complesso di fiumi e laghi, baie e
baiette, isole e isolotti, lagune e paludi con una vegetazione prevalentemente
di mangrovie.
Queste ultime, estendendo dovunque il loro manto continuo sulle
rive, rappresentano l’elemento unificatore del fragile ecosistema, contribuendo
col loro colore verde tenue meno invasivo a un’atmosfera rilassante tipicamente
tropicale. Questo bacino fluviale, di variegata bellezza e forti attrattive,
sembra fatto su misura per un’evasione di qualche giorno dai ritmi impossibili
di lavoro dei Paesi industrializzati.
I nostri volantini pubblicitari promettevano un
tour tutto compreso di due giorni in barca a vela, attraente e avventuroso, e
luoghi unici da esplorare. Inoltre: pane e lasagne al forno fatti in casa, anzi
in barca, gamberoni freschi tra i piatti forti, alcune varietà di vino,
cocktails del tramonto, ecc.
In piedi sul pontile dell’Hotel Backpackers,
situato sulla riva del fiume opposta alla cittadina, c’erano ad aspettarci i
nostri ospiti: una giovane coppia danese.
Li conducemmo a bordo con il dinghy e lì cominciò
il nostro charter: proprio da sotto lo spettacolare ponte a schiena d’asino del
Rio Dulce, il più lungo ponte a un’arcata del Centro America.
Non si erano ancora seduti nel pozzetto che le
loro macchine fotografiche erano già in azione sulle lavandaie locali, le
quali, sulla riva, all’ombra di un enorme pilone del ponte, battevano i panni
sulle rocce piatte e levigate, immerse nella corrente fino ai fianchi,
completamente vestite con i loro colorati huipiles
maya. Proseguimmo a motore per ancorarci al largo del pittoresco Castello
(Forte) di San Felipe a un chilometro dalla partenza, per consentire ai nostri
ospiti una breve visita.
Dopo una mezz’oretta riprendemmo la navigazione
oltre l’angusto imbuto d’acqua all’altezza del forte, il quale, strategicamente
situato nel punto più stretto del fiume, fu costruito e utilizzato in epoca coloniale dagli spagnoli
nel corso di molti secoli, durante i quali fu distrutto e saccheggiato più
volte dai pirati.
Sia gli spagnoli, che si stabilirono in quest’area fluviale
situata a una trentina di chilometri dalla foce, sia i loro rivali, i pirati,
che occuparono di tanto in tanto il forte, impiegavano lo stratagemma di
sbarrare sistematicamente l’accesso alle imbarcazioni nemiche che risalivano il
fiume, sistemando pesanti catene sotto la superficie, da una riva all’altra,
per poi attaccare e affondare quelle navi intrappolate con i cannoni situati
sui bastioni del castello, i cui originali si possono tuttora osservare. Le
mura, invece, sono state ricostruite.
Una brezza leggera, ma sufficiente a riempire le
vele, ci spinse lungo il lago Izabal, che inizia subito dopo lo stretto,
consentendoci di raggiungere la nostra seconda destinazione circa un miglio
prima del villaggio minerario di El Estor.
Mentre Patrizia preparava le lasagne, condussi a
terra col dinghy i nostri ospiti, per far loro da guida in due posti di interesse
che li avrebbero tenuti occupati il resto della mattinata.
Il primo si trovava alla fine di un idillico
sentiero ombreggiato, che serpeggiava nel bosco e a tratti si avvicinava a un
piccolo corso d’acqua fiancheggiandolo lungo le basse sponde.
Quando le rive e il fondo del ruscello si
mutarono in un terreno irregolare disseminato di rocce, ci trovammo davanti un
monticello che sbarrava sia il sentiero sia la vista, nascondendo fino all’ultimo
momento il gioiello che stavamo cercando.
Pochi passi ci portarono sull’altura: la vista
dall’alto era spettacolare. Al di là di una pozza incassata tra pareti
rocciose, due cascate, l’una accanto all’altra, divise soltanto da una sottile
soglia granitica, sfioravano lo strapiombo precipitando nell’acqua sottostante
con un salto bianco e fragoroso che creava l’illusione di un gettito solido.
Tale schiuma si dileguava più in basso, trasformandosi in rivoletti e meandri
in miniatura che lambivano pietre e massi verdi di muschio, alimentando lo
stesso corso d’acqua che avevamo risalito, le cui placide acque solo qualche
decina di metri più a valle non facevano presagire la loro origine da due fiotti
d’acqua tanto impetuosi.
Rami di alberi secolari sporgevano sulla pozza
formando una tettoia di fogliame impenetrabile al sole. La prima volta che
c’ero andato con Patrizia non avevo creduto ai miei sensi: una cascata fredda e
una bollente quasi si toccavano! Certo, una combinazione rara. La risultante
acqua tiepida che scorreva nella pozza invitava a un bel idromassaggio, in un
ambiente tipicamente tropicale.
Io e Patrizia ci eravamo immersi prima nelle
acque più miti in un angolo della piscina, per poi spostarci sempre più vicino alla
cascata calda, abituandoci progressivamente allo sbalzo termico. Era stato
delizioso: le temperature diverse assecondavano il piacere di ogni corpo e
gusto. Gli altri pochi turisti che si godevano una breve nuotata o restavano
semplicemente immersi fino al collo nei punti più disparati della pozza, suggerivano
l’idea di ninfe e fauni usciti da un contesto mitologico atemporale. Non c’è da
stupirsi che la piantagione di banane in cui si trovano queste cascate porti un
nome speciale: Azienda Paradiso. Difficile credere che, in un remoto passato,
l’idillico boschetto non fosse stato consacrato a qualche divinità silvestre.
Ingaggiai sul posto una guida locale, la quale,
per un sentiero attraverso il bosco ci condusse all’entrata di una caverna. Le acque molto rapide di un torrente, uscendo fragorose dalla penombra dell’entrata
della grotta, si precipitavano verso il basso, schiaffeggiando i
tronchi sradicati dalla corrente
e ora intrappolati tra le rocce, per poi gettarsi nel letto
sottostante del corso d’acqua principale. Quest’ultimo era lo stesso torrente
che, più a valle, dava origine alle cascate della Finca Paraiso (Azienda
Paradiso). Congedai la guida.
L’unico modo di esplorare la grotta era quello di
nuotare. Ma, per questo, mi ero organizzato in anticipo: all’entrata ci
infilammo maschera e pinne, poi cominciammo a nuotare controcorrente assistiti
da una torcia elettrica che avevo posto su un cuscino galleggiante.
Avevo consigliato ai nostri ospiti di nuotarmi accanto,
cosa che fecero puntualmente. La ragazza, però, cominciò a trovarsi un po’ a
disagio mentre avanzava al buio lungo la grotta, il cui soffitto diventava sempre
più basso e alcuni pipistrelli volavano in picchiata ogni volta più vicino,
fino a sfiorarle la testa. La sentii bisbigliare: “Mi danno i brividi!
Sinistro!” come se stesse parlando a se stessa.
Tutto intorno l’oscurità era completa, ma i
guizzi di luce della torcia elettrica che si riflettevano a tratti nell’acqua
lasciavano intravvedere, di tanto in tanto, su entrambi i lati, le rassicuranti
caratteristiche delle anguste pareti: speroni rocciosi, nicchie e fenditure.
Un continuo fragore lontano, dapprima appena
percettibile e poi sempre più consistente, a mano a mano che si procedeva, mi
dava un’indicazione precisa di quanto mancava alla fine della nuotata. Ci
fermammo, con l’acqua al petto, dove non era più possibile procedere, tenendoci
aggrappati a un macigno, per non venire trascinati a valle dalla corrente che ormai
aveva raggiunto l’intensità massima. L’iniziale tenue rumore era diventato il
ben noto fragore di una cascata, che adesso ci trovavamo davanti, travolgente e
assordante, illuminata dalla sola torcia elettrica; dopo un po’, decisi di spegnere
anche quella e tutto piombò nel buio.
“Tenetevi forte alla roccia. Voglio mostrarvi
qualcosa” dissi mentre mi arrampicavo con cautela su per i macigni bagnati e
scivolosi, levigati dall’azione millenaria delle piene, per raggiungere la base
della cascata, alcuni metri più in alto. Poi, con un movimento lesto, per
minimizzare l’impatto della pressione dell’acqua sulla testa e sulle spalle, mi
introdussi dietro, appoggiando la schiena contro la parete rocciosa
gocciolante. Intanto, la caverna era risprofondata nella totale oscurità.
All’improvviso accesi la torcia dietro la
cascata, orchestrando un’estemporanea sinfonia di luci e ombre che i miei
ospiti apprezzarono con urla e lunghe vocali di esclamazione. Dedussi che ne
era valsa la pena!
Dopo aver passato la notte e la mattina seguente alla fonda in una piccola
baia riparata dai venti nord-orientali all’estremità del lago, nel primo
pomeriggio col dinghy risalimmo di un paio di miglia il fiume adiacente, il
Polochic, per cercare le scimmie urlatrici e le oropendula.
Il dinghy, all’epoca, era una barca d’alluminio
con le fiancate relativamente basse, spinta da un motore a quattro cavalli:
un’imbarcazione pericolosa in mare aperto, ma adatta alle acque interne del
Guatemala, generalmente calme.
I nostri ospiti sembravano contenti della
presenza di Patrizia e anche di Pacal, uno dei nostri cani; il più giovane,
Maya, l’avevamo lasciato a bordo.
L’esplorazione lungo le rive del fiume fu molto
gratificante. Sugli alberi scorgemmo numerose scimmie urlatrici, dall’impressionante ruggito a metà tra quello
di un leone e un abbaiare amplificato, udibile da almeno un chilometro, e
sull’acqua giganteschi iguana, dalla preistorica corazza,
Giunse quindi il tempo di tornare indietro.
Quando arrivammo alla foce del fiume – nel punto in cui il Polochic
improvvisamente si allarga mescolando le sue acque con quelle del lago, e a
meno di duecento metri dalla baietta in cui era ancorata la barca a vela – una
secca inaspettata fece sì che il piede del motore si incagliasse sul fondo e,
prima che me ne rendessi conto, due onde provenienti dal lago allagarono il
dinghy, che all’improvviso si capovolse.
Mi trovai in piedi con l’acqua fino al petto. Un’occhiata in giro mi tolse
ogni preoccupazione: tutti toccavano il fondo, avvolti dalla luce rossastra del
sole in procinto di scomparire dietro le basse colline.
Nel punto in cui
la corrente del fiume incontrava le onde del lago, che era proprio dove ci
trovavamo, si originavano confuse
increspature, pericolosi gorghi e onde sempre più alte.
Cercando di evitare che il dinghy fosse
trascinato in acque più profonde, cominciai a tirarlo verso riva con la corda
che avevo in mano nel momento in cui ero stato scaraventato nell’acqua.
Patrizia arrivò immediatamente ad aiutarmi; ma il dinghy, rovesciato, pieno
d’acqua com’era, e con il motore sott’acqua che faceva resistenza, risultò
troppo pesante da spostare contro la forza della marea uscente.
Intanto i nostri
ospiti, presi dal panico, si erano diretti a terra senza esitazione. Invano
gridai loro di tornare indietro a darci una mano. Perdemmo attimi preziosi,
aspettando che cambiassero idea: l’indugio fu fatale. Insieme con il dinghy
fummo trascinati dalla corrente e, mentre mi rendevo
conto di non toccare più il fondo, vidi Pacal che cercava di salire sulla barca
rovesciata.
Riuscii ad aggrapparmi all’albero del motore,
attorno al quale strinsi le ginocchia. Con i piedi sulla testata del motore, mi
mantenni in posizione verticale con il capo e le spalle fuori dall’acqua, e appena
un attimo dopo Patrizia fece lo stesso, cingendomi forte la vita da dietro. Mi
domandavo con terrore se i dispositivi che fissavano il motore allo specchio di
poppa avrebbero retto al doppio peso. Rifiutai di pensare al peggio. D’altra
parte, la situazione era già abbastanza drammatica di per sé, senza aggravarla
con speculazioni negative.
Pacal, che era salito sopra il fondo convesso del
tender rovesciato, barcollava sulle quattro zampe, riuscendo a malapena a
mantenere l’equilibrio contro le onde in arrivo, adesso di notevoli dimensioni;
il suo instabile passeggiare avanti e indietro faceva presagire un imminente
nuovo capovolgimento o l’affondamento della piccola imbarcazione.
Gli ordinammo di nuotare verso riva, ma lui,
fedele fino in fondo, rifiutava di abbandonarci là in mezzo. Eravamo ancora di
fronte alla foce del fiume, ma mi accorsi con sgomento che stavamo andando
inesorabilmente alla deriva.
Si erano formate adesso grosse onde regolari che
ci colpivano da dietro, cioè dal lago, spesso sommergendosi e consentendoci di
respirare soltanto nell’intervallo tra l’una e l’altra. Di nuotare a terra, con
quella corrente di marea contraria, non se ne parlava nemmeno: sarebbe stato un
suicidio. La strategia di minor pericolo era quella di rimanere aggrappati alla
barca, che continuava a oscillare in modo preoccupante, a causa delle onde e
dei movimenti del cane. Non c’era tempo da perdere. Bisognava gettare Pacal in
acqua: per lui non sarebbe stato difficile raggiungere la riva.
Patrizia dimostrò, come in altre occasioni, un
sangue freddo encomiabile: afferrata a una corda, per non perdere contatto con
il dinghy, si spostò con cautela lungo una fiancata laterale, con molta
difficoltà e pericolo, finché non riuscì a spingere Pacal bruscamente
nell’acqua.
Questa era l’unica cosa sensata da fare se
volevamo avere qualche speranza di sopravvivenza. Pacal continuò a nuotare per
qualche tempo intorno al dinghy, disorientato. Un paio di volte ci fece correre
i brividi lungo la schiena, quando tentò di mettere le zampe anteriori sul metallo
scivoloso del suo fondo capovolto, con l’intenzione di risalirvi; con il
prevedibile risultato di sbilanciarlo ancora di più. In preda alla disperazione
e a un attacco di panico, gli urlammo più volte, all’unisono e sopra il rumore
delle onde che si frangevano, di raggiungere la riva. Alla fine, lo seguimmo
con lo sguardo nuotare nella direzione giusta. Non sembrava troppo convinto e
dovemmo incoraggiarlo a proseguire nella stessa direzione, stavolta con parole
suadenti, quando si voltò, esitando un paio di volte. Era del tutto consapevole
dell’eccezionalità di un problema che non si era mai presentato prima di allora
e di un vago pericolo che sovrastava le nostre vite.
Finalmente rimanemmo soli a far fronte alla
situazione e questo contribuiva, già di per sé, a darci una piccola tregua
dall’ansia.
Intanto l’oscurità stava guadagnando il braccio
di ferro con la luce, che scemava inesorabilmente. Non c’era altro da fare.
Dovevamo rimanere in quella posizione pericolosa e disagevole fino a quando non
ci fosse stata un’inversione di marea, forse un lasso di tempo di parecchie
ore. Preoccupati per la nostra incolumità, rifiutavamo anche solo di supporre
che Pacal non ce l’avesse fatta.
Tra un’ondata e l’altra che si accavallava
imbizzarrita sopra la testa, una violenta massa d’acqua che ci costringeva a
mantenere bocca e naso ermeticamente chiusi, mi ero proposto di parlare in
continuazione per mantenere sveglia Patrizia, per rendermi conto della sua
condizione fisica, per sapere se sarebbe riuscita a mantenersi aggrappata, per
capire se riusciva a respirare una volta passata l’onda. Il suo respiro
tiepido, che mi sfiorava il lobo dell’orecchio e la nuca, mi rassicurava ogni
volta, infondendomi forza e speranza.
Per passare il tempo formulavo delle ipotesi sulla
nostra distanza dalla foce del fiume: in base all’apparente spostamento delle
luci sull’altra sponda del lago, che si trovavano a qualche chilometro dalla
nostra posizione, calcolai che eravamo andati alla deriva alcune centinaia di
metri.
La situazione rimaneva critica. Da parte nostra
era una questione di resistere fino all’alba, di continuare a respirare fra
un’onda e l’altra senza farsi prendere dal panico, ma non tutto dipendeva da
noi. Che cosa sarebbe successo se il motore su cui stavamo in piedi si fosse
staccato dallo specchio di poppa? Dopo tutto, doveva sostenere il peso di
entrambi, un compito per cui non era stato progettato.
Il tempo passava con snervante lentezza. La notte
era fredda, ma non gelida. Ed erano già comparse le prime stelle. Com’erano familiari e al tempo stesso
lontane! Di tanto in tanto alzavo lo sguardo verso quei puntolini
di fuoco, che, a causa del nostro costante movimento, oscillavano in una folle
danza da una parte all’altra di una volta celeste priva di luna, come in una
pioggia di stelle cadenti. Mi potevo
permettere soltanto un’occhiata fugace, perché ogni volta, subito dopo, mi
coglieva un forte senso di vertigine.
A un certo punto, dalla posizione di alcune
stelle calcolai che non mancava molto a mezzanotte. Continuavo a parlare e
Patrizia mi rispondeva. A volte coglievo stanchezza nella sua voce, ma mi
confortava il pensiero che era stanchezza causata da sfinimento fisico, non da
rassegnazione.
Per un istante, sullo sfondo dell’illuminazione fissa
sulla riva opposta del lago, scorsi alcune luci che si muovevano, a un paio di
chilometri di distanza: dovevano essere le luci di navigazione di
un’imbarcazione. A quell’ora della notte non poteva essere che la Marina Guatemalteca.
Però, anche nel caso più fortunato in cui i nostri ospiti, raggiunta la barca a
vela, avessero dato l’allarme chiedendo aiuto via radio, la nave della Marina
non si sarebbe avvicinata alla foce del fiume di notte, per il giustificato
timore di incagliarsi. Non c’era nessuna speranza di aiuto dall’esterno,
dovevamo uscire di lì con le nostre forze.
Dopo un lasso di
tempo che mi sembrò interminabile, all’improvviso, accadde. Uno scossone mi
avvertì che la testata del motore aveva cozzato contro qualcosa di solido e un
attimo dopo sentii il fondo sabbioso sotto i piedi. A considerevole velocità,
eravamo stati trasportati in acque poco profonde dalla forza travolgente della
marea. Sentii un brivido di eccitazione. Ci perdemmo in un abbraccio senza
fine, che nessuno dei due aveva il coraggio di interrompere. La vita ritornava
a sorridere.
Spingemmo il
dinghy nell’acqua bassa, lo ribaltammo insieme e poi Patrizia si premurò di allacciarlo
a un grosso tronco che giaceva semisommerso in posizione orizzontale. A tentoni
infilai una mano dentro l’imbarcazione e ne toccai il pavimento, accorgendomi
subito che mancava la pesante grata di legno che lo ricopriva. Era superfluo
domandarsi se avremmo ritrovato i binocoli e il libro sugli uccelli. Lo
abbandonammo lì, con l’intenzione di recuperarlo all’alba.
Patrizia aveva
appena finito di legare il dinghy che Pacal arrivò di corsa. Anche lui ce
l’aveva fatta: la sua gioia era incontenibile. La famiglia era salva. L’altro
cane, Maya, che era rimasto in barca, doveva essere preoccupato per la nostra
assenza, ma non poteva essergli successo nulla di male.
Nutrivamo buone speranze che i nostri ospiti, con
la luce del tardo pomeriggio, avessero camminato lungo la riva della baia e poi
raggiunto a nuoto la nostra imbarcazione: anche se non potevamo esserne del
tutto sicuri.
La barca a vela era ancorata poco lontano, dietro
una piccola lingua di mangrovie. Nel buio più completo, camminammo a tentoni in
quella direzione. Dopo un po’, i nostri occhi cominciarono ad abituarsi e a
distinguere alcuni dei contorni del paesaggio. Laggiù! Là c’era la foce del fiume! La prima cosa da fare era
attraversarla a nuoto.
Sull’altra sponda, non avemmo altra scelta che
proseguire nell’acqua lungo la riva. La sabbia, che cedeva sotto i piedi, in
alcuni tratti era molto simile a sabbie mobili. Il buio rendeva difficile
calcolare le distanze; adesso eravamo nell’acqua fino al petto e Pacal ci
nuotava accanto.
No, era troppo pericoloso. Sarebbe stata una
macabra ironia essere usciti indenni da un naufragio e poi perdere la vita per
aver dato per scontato di essere in salvo. Decidemmo, pertanto, di ritornare
sui nostri passi.
Riattraversammo
a nuoto il fiume, tenendo conto della forte corrente, anche se questa volta il
flusso di marea entrante non presentava alcun rischio. Di lì provammo a
raggiungere quella che ci era parsa la sagoma di una capanna. Imitando Pacal, procedemmo a quattro zampe nell’acqua bassa, ma le mani e
i piedi continuavano a sprofondare nel fango troppo molle. Lo sfinimento
fisico ci fece ben presto desistere.
Non ci rimaneva altro da fare se non cercare una
piccola superficie di suolo asciutto per passarci il resto della notte. Cominciavamo
anche a sentir freddo a causa delle magliette fradice, così ce le togliemmo e
lavammo via dal corpo il fango appiccicoso che ci copriva braccia e gambe;
anche se al buio non era facile indovinare esattamente dove si era depositato!
La nostra ricerca risultò infruttuosa, in quella
palude non c’era terra asciutta. L’alta marea aveva ricoperto ogni piccola
lingua di sabbia e portato con sé una leggera brezza: l’aria stava
rinfrescando.
Alla fine ci coricammo schiena contro schiena su
delle scaglie di legno vicino all’acqua. Patrizia si strinse al petto Pacal, che
le avrebbe di certo procurato almeno un po’ di calore. Per quanto mi
riguardava, avevo la pancia e il petto esposti al freddo della notte. In quelle
condizioni, non sarei riuscito ad appisolarmi.
Nel buio scorsi, quasi sopra la testa, un paio di
quelle enormi foglie – di almeno cinquanta centimetri di diametro – che
crescono dovunque nei tropici vicino agli specchi d’acqua dolce. Allungai la
mano, le sradicai e le disposi contro il petto. Adesso sì che il calore del
corpo, in parte intrappolato dentro quella sottilissima parete vegetale, faceva
la differenza. Riuscii finalmente ad assopirmi. Tuttavia il mio sonno leggero,
ogni pochi minuti, veniva interrotto da qualcosa di appuntito che premeva sotto
i fianchi, così cambiavo posizione risistemando di volta in volta le foglie.
Nel silenzio più assoluto, mi svegliavano anche strani rumori, alcuni molto
vicini. Forse granchi... Forse serpenti... E se fossero stati alligatori? Chi
poteva dirlo? Ogni volta mi era più difficile riaddormentarmi.
Nel corso della notte, sollevai spesso la testa
per sbirciare oltre gli arbusti e scrutare l’oscurità, nell’aspettativa dei
primi segnali di luce nell’orizzonte orientale.
Finalmente da quella parte comparve un chiarore lattiginoso,
che continuò in modo impercettibile a guadagnare terreno sulle tenebre. Dopo
una breve attesa, un’alba gloriosa cominciò ad accarezzare con le sue lunghe
dita di rosa un cielo di un pallido celeste. Il sole, che sarebbe presto
risorto, avrebbe riportato la vita degli umani alla “normalità”. Che bellezza
semplice e godibile era contenuta in quella sfuggevole “normalità” a cui spesso
non diamo peso.
Mi strofinai gli occhi come se quel gesto automatico
avesse il potere di alleviare anche la rigidità muscolare causata
dall'immobilità fisica e dai disagi della notte. Poi mi rinfrescai il viso e
quando sentii l’impatto dell’acqua sulla pelle, ebbi la sensazone di un’esperienza nuova. Vidi altresì che
ero ancora tutto imbrattato di fango, ma cosa importava? Ce l’avevamo fatta!
Raggiungemmo a nuoto la barca, per abbracciare
due ospiti molto preoccupati. Maya ci fece feste interminabili e, quando ebbe
finito con noi, annusò Pacal per sapere dove era stato.
Adesso, però, dovevamo tornare a recuperare il
dinghy. Arrivammo dieci metri prima della barca ausiliaria della Marina.
Purtroppo, ci avevano cercato nel posto sbagliato. Comunque furono molto
gentili e ci rimorchiarono con il dinghy alla nostra barca. A un certo punto
del tragitto, notai qualcosa che mi fece trasalire: la parte interna delle
cosce di Patrizia, fino al ginocchio, si era trasformata in una superficie
viola scuro, livida e spettrale, testimonianza evidente di ematomi e abrasioni
che aveva subito durante la notte per aver stretto tra le gambe con troppa
veemenza l’albero del motore. Era uno spettacolo orribile.
Quando si dice coincidenza! In quell’ancoraggio,
di solito deserto per mesi, era arrivata un’altra barca a vela che si era
ancorata poco lontano dalla nostra, proprio mentre noi stavamo ritornando verso
la foce del Polochic, nel tardo pomeriggio del giorno prima. Avvertiti dai
nostri ospiti, i proprietari si erano messi in contatto attraverso la loro
radio di bordo con qualcuno che parlava lo spagnolo, il quale, a sua volta,
aveva avvertito la Marina dell’incidente. A quanto pare ci avevano cercato per
un paio d’ore, ma dentro il lago, a un chilometro di distanza. Avevamo
indovinato: quelle luci durante la notte appartenevano proprio alla nave della
Marina Guatemalteca.
I cruisers dell’altra barca a vela ci invitarono
tutti a pranzo: le aragoste in salsa speciale che ci offrirono furono una
sorpresa estremamente gradita, sia per noi sia per i nostri ospiti. Questa
storia andò a finire addirittura sul loro blog.
“Tutto è bene quel che finisce bene” come dice
l’autore. Il motore del dinghy, che era rimasto nell’acqua dolce tutta la
notte, in seguito a una pulizia completa del serbatoio incorporato e delle
linee esterne del carburatore, ripartì dopo soltanto una mezz’oretta di
tentativi.
Sulla via del ritorno a Rio Dulce, uno dei nostri
ospiti commentò: “Dicevate sicuramente il vero nel volantino pubblicitario del
charter, promettendo un’autentica
avventura!”
Acquista il cartaceo di Il nostro canto libero, memorie di viaggio, Europa Ed., qui: Amazon.it. https://www.amazon.it/nostro-canto-libero-Memorie-viaggio/dp/8893849534/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&dchild=1&keywords=fabrizio+accorsi&qid=1608217307&sr=8-1 (in
questa pagina e' anche disponibile una lista di una decina di librerie
con prezzi diversi), librerie Mondadori e Feltrinelli, o ordinalo presso
la tua libreria favorita.
Nessun commento:
Posta un commento