mercoledì 21 ottobre 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 23: il viaggio e' gioia

 


Senza timore di smentite, si potrebbe definire il lago di Atitlán una delle perle del pianeta. Incassato in un pittoresco bacino, è circondato da tre vulcani azzurrognoli che, in assenza di vento, si riflettono nelle sue acque profonde. Panajachel, il villaggio sulla riva nordorientale, è una destinazione turistica conosciuta per la sua bellezza naturale oltre che per la varietà e abbondanza dell’artigianato che vi confluisce da ogni parte del Paese.

Sulla riva del lago, non lontano dal villaggio, il nostro autocaravan, osservato dal pendio sovrastante, contro lo sfondo dell’acqua verde azzurro intenso mi appariva come una di quelle impeccabili fotografie messe a bella posta su una rivista per ispirare sogni di viaggio.

Una coppia americana di mezza età arrivò qualche giorno dopo di noi e parcheggiò il proprio camper poco distante, contribuendo così a una vista rara da quelle parti: due autocaravan nello stesso posto! I nuovi arrivati erano simpatici e socievoli; fummo contenti di sapere che avremmo passato insieme una settimana.

La storia incomincia con una zoomata sui quattro personaggi secondari seduti al nostro tavolo da picnic, una macchia di rosso fiammante fra i due camper, con una bella birra ghiacciata davanti a ciascuno di noi. “Secondari”, perché il vero attore era quello che stava giocando, poco lontano, con la palla da tennis che gli avevo appena lanciato.

“Come mai” chiese Jerry, “non la riporta?”

“Be’, dipende. Non l’abbiamo mai costretto a farlo. Se vuole, la riporta. A volte preferisce non farlo e continuare a giocare da solo, come sta facendo adesso. Rispettiamo la sua decisione.”

Ma mi resi subito conto che questo concetto non è poi così facile da capire e, non conoscendo ancora bene Jerry e Pamela, non volevo che recepissero l’impressione sbagliata. Pertanto, pensando che per una volta avrei potuto fare un’eccezione, mi alzai in piedi e dissi ad Andrea:

“Per favore, portami la palla. Solo stavolta” Andrea tornò con la pallina e la lasciò cadere ai miei piedi.

“Sorprendente” si stupì Jerry, avendo probabilmente supposto che il cane non avrebbe dato retta.

“Mentre Andrea è qui, vi mostrerò alcune cosette che gli piace molto fare” dissi. “A patto di ricevere una piccola ricompensa. Avete mai visto un cane rispondere SÌ e NO?”

“Come? No… In verità, no” ammise Jerry, inclinando il capo di lato. Ero riuscito a incuriosirlo.

“Andrea, aspetta qui. Ritorno subito” entrai nell’autocaravan, tagliai un limone in due e afferrai dei biscotti. Quando tornai a sedermi, notai un pacchetto di Marlboro posato sul tavolino da picnic.

“Posso prendertene una?”

“Certo!” rispose Pam, tirandone fuori una dal pacchetto lei stessa.

“Gli permettete di fumare?” domandò con aria studiatamente seria, intuendo che l’avrei usata in qualche modo per gli esercizi.

“Oggi sì” risposi con lo stesso tono, “se mi dice che la vuole, anche se ne dubito.”

Feci sedere Andrea davanti a me, perfettamente bilanciato sulle quattro zampe.

“La vuoi?” gli chiesi, mostrandogli la sigaretta.

Lui mise subito la zampa sinistra sulla mia mano aperta. “No, sembra che oggi non abbia voglia di fumare. Forse preferisce del cibo.”

Misi da parte la sigaretta, presi un biscotto e ripetei l’operazione.

“Lo vuoi?” gli domandai.

Stavolta allungò la zampa destra sulla mia mano e io lo ricompensai con un pezzo di biscotto.

“Vuoi dirmi che usa la zampa sinistra per rispondere NO e la destra per dire SÌ?”

“Come hai fatto a indovinare?” gli sorrisi con aria di scherno.

“Qual è il trucco?” chiese, visibilmente interessato.

“Non c’è trucco. Prova tu stesso. Usa il mezzo limone, se vuoi, la sigaretta o la birra. Più il biscotto. A caso, naturalmente. Non fa nessuna differenza. Se non gli piace, ti risponde di no. Però, quando dice di sì, devi ricompensarlo.”

Provò diverse volte e vidi che cominciava a divertirsi.

“La sai una cosa?” disse infine. “Abbiamo appena perduto il nostro Blacky... due settimane fa… ”

“Mi dispiace” pronunciammo all’unisono.

“Sapete, abbiamo dovuto metterlo a dormire. È stato più difficile di quanto avessimo potuto immaginare… anche se... soffriva molto. Era vecchio e paralizzato... Un cane intelligentissimo. In realtà, fino a pochi minuti fa ero convinto che Blacky fosse il cane più intelligente che avessi mai conosciuto. Ma adesso… ” disse sospirando, “devo ricredermi... ”

Mi pentii della dimostrazione appena conclusa, che dovette aver risvegliato ricordi tristi nei nostri nuovi amici. Forse, aveva riaperto ferite che non si erano ancora del tutto rimarginate... Mi attraversò la mente, come un lampo, un pensiero che subito respinsi: Che cosa avrebbe commentato se gli avessi mostrato una ventina di trucchetti simili, di fronte ai quali il rispondere SÌ o NO era soltanto un esercizio di riscaldamento? Ma la menzione della morte del loro caro Blacky mi aveva precluso ogni possibilità di farlo.

Sapendo per esperienza quanto fosse difficile perdere un cane, decisi di lasciar cadere l’argomento.

Invece, sorprendentemente, fu Jerry che lo riprese, spronandomi a raccontargli altre cose di Andrea.

“Mi piacerebbe saperne di più” anche Pam sembrava d’accordo.

“Ne siete proprio sicuri? Volete davvero sapere?” chiesi loro, incredulo.

“Sì” confermò Pam, “anche a me farebbe molto piacere.”

Che gran cuore!, non potei evitare di pensare. Contrariamente a quanto avevo supposto, quello che avrei mostrato loro li avrebbe aiutati in qualche modo a lenire le loro ferite?

“Be’” dissi, incerto su dove cominciare ma sollevato dal fatto che erano loro a voler sapere, “questo era uno degli esercizi che gli ho insegnato quando aveva tre mesi, con il fine di sviluppargli il cervello, se mi permettete questa espressione un po’ cruda. Adesso non ne ha più bisogno. Però, non l’ha dimenticato.”

“Perché hai deciso di sospendere questo esercizio?”

“Ho smesso di fargli fare sistematicamente questo esercizio, insieme a quasi tutti gli altri, perché non volevo sovraccaricarlo. Il mio scopo iniziale era quello di potenziare le sue facoltà mentali, e in questo avevo già raggiunto risultati superiori a ogni previsione.”

“Raccontaci degli altri esercizi.”

Perché non dargli almeno un’idea? Il loro genuino interesse lo richiedeva. Però mi domandavo se fosse più opportuno spiegarglieli nei dettagli o solamente in modo sommario. Pensai di cominciare e poi di dosare i racconti proporzionalmente alle loro reazioni e al loro interesse.

“Per quanto riguarda questo esercizio in particolare” cominciai, completando la risposta alla prima domanda, “c’è forse un’altra ragione che mi ha portato a decidere di sospenderlo: il fatto è che non è in armonia con la predisposizione naturale del cane.”

“Qui non ti seguo più.”

“Quello che intendo dire è che, dal punto di vista psicologico e funzionale, l’atto stesso di dare la zampa è un atto di espansione, di espansione al di fuori, verso il mondo. Pertanto, il dare la zampa significa funzionalmente sempre SÌ, indipendentemente dal fatto che si dia la destra o la sinistra.”

“Vuoi dire che ti sei reso conto che quello che gli avevi insegnato era solo una convenzione e ciò non ti faceva sentire a tuo agio?”

“Proprio così.”

“È vero, anche parecchie nostre abitudini sono convenzioni, molto lontane dal costituire un’espressione funzionale dei nostri sentimenti. Per giunta” proseguii, constatando con soddisfazione che aveva messo a fuoco il concetto, “mi sentii ancor meno a mio agio dopo aver scoperto che il cane ha un suo modo naturale di dire NO.”

“Adesso sì che la cosa diventa affascinante! Sono tutta orecchi” disse Pamela, sporgendosi sul tavolino con lo stesso interesse di Jerry.

“Avete mai notato cosa fa un cane quando gli negate qualcosa che gli piace fare?”

“Se ne va, non è vero?” domandò Jerry.

“Certamente desiste. Ma fra la vostra negazione e il suo allontanarsi?”

“Nessuna idea.”

Mi aspettavo questa risposta, perché avevo già domandato a molti proprietari di cani e nessuno l’aveva mai notato.

“L’abbiamo osservato in altri due dei nostri cani: Lisa, la madre di Andrea, e Leo, suo fratello. Quando, per esempio, si sedevano davanti al divano per chiedere il permesso di salire. Se per qualche ragione veniva loro negato, facevano un particolare, rapido movimento con le mascelle, prima aprendole, poi richiudendole, qualcosa di simile a un ingoiare, con i denti che si toccavano appena dentro la bocca. Questo sembra il loro modo naturale di dissentire, di dire NO. È equivalente alla delusione che provano emotivamente. Ingoiano letteralmente il rifiuto, ingoiano il conflitto per seppellirlo e dimenticarlo. Però, a lungo andare, questo rifiuto emotivo può diventare pericoloso per il cane e perfino per l’uomo.”

“Pericoloso per l’uomo? Come è possibile?” intervenne Pam.

“Posso illustrare questo punto in modo impeccabile. William Reich, il più brillante dei discepoli di Freud, poi psicologo di fama mondiale, in uno dei suoi scritti racconta che Freud, a differenza di quanto aveva sempre fatto in precedenza, negli ultimi anni della sua vita era diventato molto condiscendente verso i suoi discepoli e gli altri psicologi: ‘troppo politicamente corretto’, si potrebbe dire oggigiorno. Infatti, quando un altro psicologo esprimeva un’opinione con la quale lui dissentiva, invece di manifestare come sempre apertamente il suo disaccordo, faceva un gesto involontario, inconscio, con la mascella, molto simile a quello del cane: Freud ingoiava inconsciamente il conflitto, invece di affrontarlo. Ingoiava il dissenso che aveva deciso di non manifestare. Ma il suo corpo lo esprimeva lo stesso, malgrado la decisione consapevole. Secondo Reich, non fu il fumare la pipa a causare il cancro alla gola che fu fatale a Freud, ma l’ingoiare le emozioni, funzionalmente trattenute nei muscoli della gola. Adesso riuscirete a capire” conclusi, “la mia strana osservazione di poco fa, quando vi dicevo che i nostri cani ci hanno insegnato di più, e cose più importanti, dei corsi universitari.”

“Incredibile. Questo ha delle implicazioni incalcolabili per la comprensione delle origini del cancro! Ma dimmi, che cosa hai imparato riguardo al SÌ naturale del cane? Perché, immagino, ci sia anche un SÌ naturale... ” disse Jerry.

Assentii con un cenno del capo.

“Non credo che mi racconterai una storia più affascinante della precedente... O sì?”

“Una piccola storia ce l’ho anche per il SÌ. Ma ti consiglio di non divulgare quello che sto per dirti. Ti prenderebbero per matto! Dimmi, hai mai starnutito di mattina?”

“Molte volte. Ma questo ha qualcosa a che fare con il SÌ del cane?”

“Sì e no! Nella città in cui sono nato e ho vissuto per i primi ventisette anni, quando di buon mattino uno starnutiva, la gente gli diceva: Salute! Se uno starnutiva un’altra volta, ripeteva: Salute! Ma la terza volta gli diceva con un sorriso e un’aria di intendimento: Salute… che se ne va!

“Perché?”

“Il perché me l’hanno insegnato i nostri cani. Infatti, come noi umani, loro hanno almeno due modi, o meglio due motivi, per starnutire. La prima circostanza è ovviamente rappresentata da un corpo estraneo, come un pelo nelle narici o un odore sgradevole. In questo caso ne risulta uno starnuto multiplo, leggero come lo starnuto allergico di noi umani.”

“Questo sì, l’ho comprovato anch’io. Qual è l’altro modo di starnutire?”

“Un cane a volte emette uno starnuto simile che, però, è funzionalmente l’opposto.”

“Vale a dire?”

“Una manifestazione di piacere.”

“Per esempio?”

“Per esempio, quando apprezzano ciò che gli è stato appena detto, o gradiscono il profumo di un cibo che si apprestano a mangiare. Se dici loro: Andiamo a fare una passeggiata al parco! la loro reazione immediata, ancor prima di dimenare la coda o fare salti di gioia, è probabilmente uno starnuto. E, a ben ascoltare, il suono di questo starnuto, SSSCCIII, è molto vicino, se non identico, al SÌ italiano o spagnolo. Ma, a differenza dello starnuto emesso come reazione a un cattivo odore, quest’ultimo SSSCCCIII viene emesso una volta sola e in un modo piuttosto irruente.”

E qui Jerry mi stupì per il livello di comprensione e la sua capacità di associazione: “È sorprendente. Se ho capito bene” disse, “stiamo risalendo in questo caso a uno di quei suoni ancestrali che hanno mantenuto, insieme alla loro associazione onomatopeica, il loro contenuto funzionale/emotivo. Mi domando se anche l’inglese yes ha origine da qualcosa di ugualmente funzionale.”

“Di questo non ho ancora pensato di occuparmi… Ma mi hai dato l’imbeccata… ”

Che Jerry avesse capito in modo corretto non c’era dubbio. Ciò che aggiunse in seguito ne fu la conferma:

“Mi pare interessante che lo starnuto che significa NO e quello che indica il SÌ sembrano avere paralleli nei diversi modi di abbaiare dei cani. C’è un abbaiare gioioso e un invito al gioco in un caso e un invito aggressivo a combattere in un altro. La maggior parte della gente non riesce a sentirne la differenza. Solo pochi proprietari di cani ci riescono. Ovviamente, gli altri cani capiscono sempre nel senso giusto. È uno dei loro modi di comunicare.”

“Sono d’accordo. E mi fa anche piacere che, con gli esempi sull’abbaiare, hai aggiunto peso alle mie precedenti osservazioni.”

“A proposito di inclinazione naturale e convenzioni, avete mai sentito parlare di un animale capace di contare? Voglio dire, riconoscere i numeri?” chiesi a bruciapelo.

“Stai scherzando, vero?”

“Per niente. Conoscete la storia di Hans?”

“Hans? E chi è?”

“Hans era un cavallo svizzero che divenne famoso nella letteratura degli animali perché sembra sia stato il primo e unico animale al quale i proprietari insegnarono a contare. Gli insegnarono a contare fino a cinque, un numero all’anno. Ci vollero cinque anni. Quando si dice pazienza!”

“Come faceva, voglio dire, qual era il procedimento meccanico?”

“Be’, il libro non specificava, ma suppongo che, dopo avergli fatto associare ogni numero, gli insegnarono come mostrare che aveva capito facendogli colpire con la zampa una tavola orizzontale che gli avevano posto davanti, tante volte quante erano richieste da ciascun numero. La storia stuzzicò la mia curiosità di verificare se i cani erano altrettanto intelligenti. Prima di raccontarvi la storia che si riferisce al contare, però, è necessario che vi fornisca un numero maggiore di dati, perché possiate seguire la sequenza dei passaggi logici che un tale addestramento comporta. Siete disposti a deglutire tutta questa roba?”

“Naturalmente” disse Pam. “Credo sia essenziale per capire senza equivoci.”

“Bene, allora cominciamo. Lisa, il nostro primo cane, aveva dato alla luce sette cuccioli, dei quali ne regalammo cinque in seguito a un annuncio sul giornale. Ne tenemmo due, Andrea e Leo. Assai condizionato dai consigli degli esperti, i quali sostenevano categoricamente che era controproducente addestrare un cane prima del compimento del suo primo anno di età, con Lisa avevo tuttavia cominciato a sei mesi. Alcuni risultati molto positivi, fra i quali un paio addirittura straordinari, mi fecero rimpiangere di non aver cominciato prima. Di conseguenza, cominciai ad addestrare Andrea e Leo quando avevano tre mesi. Però non si deve sottovalutare anche il prezioso, costante lavoro di base di Patrizia, la quale parlava in continuazione ai cuccioli nello stesso modo naturale in cui una brava mamma parla ai suoi bambini. Sempre badando, in questo lavoro complementare, di mantenere una costante fissa: la coerenza dell’insegnamento.”

“Prima di andare avanti” disse Pam, “puoi chiarire cosa intendi per coerenza d’insegnamento?”

“Certo! Ecco un semplice esempio. Se stai inzuppando dei biscotti nel tè e hai l’abitudine di darne dei pezzetti al tuo cane, dal momento in cui gli dici questo è l’ultimo, devi essere assolutamente coerente e per nessuna ragione dargli un altro biscotto. Se lo fai, la tua bugia confonderà l’animale, il quale, in futuro, baderà di più al tuo comportamento pratico, all’esempio insomma, più che alle tue parole, con il risultato che non rispetterà le tue decisioni. La coerenza del proprietario è il segreto di un buon addestramento. Tuttavia, anche così, se non nasce spontanea e non si esprime in modo naturale, prima o poi l’addestratore la violerà senza accorgersene, con risultati controproducenti.”

“Che esempio rivelatore!” osservò Pam. “Non sarà che tutto questo si possa applicare anche all’educazione di un figlio? E non sarà che quando i figli ignorano i consigli dei genitori è perché questi continuano a violare la coerenza del loro insegnamento con un comportamento diverso da quello predicato? Se questo fosse vero, allora non ci sarebbe nessuna differenza sostanziale di principio nell’educare un cane o un bambino!”

“È proprio quello che sostiene uno psicologo in uno dei libri sui cani! Per riprendere la narrrazione” proseguii, “una delle prime cose che Andrea e Leo appresero, fu quella di sedersi. Dopo di che impararono a toccare uno dei loro giocattoli, che mettevo sul pavimento, quando dicevo toccalo; per esempio, un elefantino di gomma che emetteva un suono stridulo quando veniva premuto dalla zampa, un mazzo di chiavi, una palla da tennis. Alla fine saranno dodici i giocattoli che sapranno riconoscere. Ma ritornerò su questo tra poco.

Insegnare loro ad aprire e chiudere le porte risultò il fondamento di base per eseguire esercizi più complessi. Le aprivano tirando coi denti una cordicella, che avevo attaccato a un chiodo infisso nella parte inferiore della porta, alla loro altezza. Le chiudevano con la zampa, quando lo si richiedeva loro. Va da sé che avevo fissato alla porta un pezzettino di legno per evitare che si chiudesse da sola e completamente con l’autoscatto della serratura. Andrea riusciva perfino ad aprire l’unica porta scorrevole, a patto che ci ricordassimo di lasciare tra questa e lo stipite uno spazio sufficiente a consentirgli di infilarci il muso. Sia Andrea sia Leo impararono a dire SÌ e NO quando veniva loro offerto del cibo.

Un giorno, poi, mi svegliai con un’idea folle in mente.”

“Un’idea folle? Che sorpresa! Da te non me lo sarei mai aspettato!” commentò con un sorrisetto ironico, Pam.

“Ok, una delle mie solite idee, anche se non risultò essere la più pazzesca. Dovete sapere che la nostra camera, nella casa di Melbourne, era molto grande e non c’era un interruttore vicino al letto. Più di una volta, Patrizia e io avevamo osservato quanto fosse scomodo alzarsi dal letto ogni sera, camminare i quattro o cinque metri fino alla porta e spegnere la luce: specialmente d’inverno.

‘Perché non insegniamo ai cani a spegnere la luce?’ avevo suggerito.

‘Questo rientra nelle tue specializzazioni... Quanto tempo ci vorrà?’

‘Non so. Se tutto va bene, un paio di giorni. Però’ aggiunsi, ‘i problemi principali che vedo sono due. Primo, l’interruttore è troppo alto per cuccioli di tre mesi.’

‘È vero. Lo sarebbe perfino per cani adulti.’

‘Questo si può risolvere facilmente, comunque. Mario sistemerà tutto per una mezza dozzina di birre. Tutto ciò che deve fare è prolungare il filo elettrico e riposizionare più in basso l’interruttore.’ Per qualche strana ragione, non ho mai voluto avere niente a che fare con la corrente alternata. Con le dovute scuse al mio idolo Nikola Tesla.

‘Il secondo problema è più difficile da risolvere, ammesso che abbia una soluzione. L’interruttore è troppo piccolo, gli sarà difficile indovinare esattamente dov’è, mentre provano e riprovano a premerlo con la zampa. Se non ci riescono entro un paio di volte, è probabile che perdano l’interesse nel gioco. Non posso permettermi di correrne il rischio. Forse domani andrò alla ferramenta per vedere se quello che è disponibile sul mercato mi suggerisce qualche idea. Anzi, ci vado subito.’

‘Dai, mettitici d’impegno, che tra due giorni potremo avere le luci che si spengono automaticamente’ disse Patrizia, tutta seria.

‘In cosa posso servirLa?’ chiese un gioviale commesso.

‘Desidero comprare l’interruttore più grande che avete. Per il più grande intendo la parte interna, la parte mobile.’

‘Capisco.’ Non aggiunse altro, fece dietro front e si avviò verso il fondo del negozio. Mentre scompariva nella stanza posteriore, mi domandavo se avesse capito bene: la sua reazione era stata troppo immediata. Per questo, quando lo vidi ritornare con qualcosa in mano, ne fui sorpreso.

‘Ecco qui’ disse con un sorriso. ‘Questo è un modello disegnato appositamente per non vedenti. Come può constatare, tutta la superficie si muove su e giù.’

Lo presi in mano e lo esaminai. Eccettuata una sottile cornice rettangolare, tutta la superficie, che misurava circa 5 pollici per 3, ERA l’interruttore! Non stavo nella pelle. Com’era stato facile!

‘La ringrazio molto, è proprio quello di cui ho bisogno. La zampa di entrambi i cuccioli ci entrerà perfettamente.’

Mi diede un’occhiata sorpresa ma non commentò.

“In effetti l’addestramento fu proprio una questione di un paio di giorni” proseguii mentre Jerry e Pam erano attentissimi. “Dieci minuti tre volte al giorno, rinforzati da una settimana di esercizi, furono sufficienti perché i due cuccioli fossero in grado di eseguire l’operazione.”

“Ma come hai fatto, tecnicamente, a insegnargli?” chiese Jerry, con genuino interesse. “Tu parli al plurale. Non mi dire che hanno imparato tutti e due!”

“È proprio così. Non fu difficile perché, come ti ho spiegato, conoscevano già la parola tocca/toccalo. Ricordi? Tocca l’elefantino. Toccalo, riferito a qualsiasi oggetto sul pavimento. Così cominciai a dire loro toccalo, naturalmente uno alla volta, quando volevo che spegnessero. E ancora, toccalo se volevo che accendessero. Avrei potuto fermarmi qui. Lo scopo era stato raggiunto. Però, un senso di eleganza linguistica mi spinse ad associare, in seguito, le due espressioni nella frase toccalo/spegni o toccalo/accendi. Eliminare la prima parola fu solo una questione di tempo.”

“Quando le cose vengono spiegate con coerenza logica, senza saltare i passaggi” commentò Jerry, “tutto diventa comprensibile, quasi banale. Certo sarebbe diverso dire in giro, così, di punto in bianco: Ehi, sapete che i miei cani accendono e spengono la luce della camera? Non ti crederebbero. Grazie per aver condiviso queste informazioni essenziali.”

“Quando la gente manca delle conoscenze di base su una data materia, bisogna prepararla per gradi. Il punto è che molta gente rifiuta di apprendere. Come quando, leggendo un libro, salta arbitrariamente da un capitolo all’altro e naturalmente, alla fine non capisce un bel nulla, anche se è convinta del contrario. Comunque, è venuto il momento di ritornare al contare. Come accennavo prima, Andrea e Leo avevano tre mesi. Dopo quindici giorni di pratica con il numero uno, quando fui sicuro che riuscivano a ricordarlo, dissi a Patrizia: ‘Pa, sembra che apprendano più velocemente del previsto. Certo più di Hans. Ti dico che cosa ho intenzione di fare. Andrò avanti con il secondo numero, per vedere se fra quindici giorni saranno in grado di ricordare i primi due numeri.’

Dopo quindici giorni, sia Andrea sia Leo non ebbero difficoltà a ricordare e distinguere i primi due numeri. Procedetti quindi con il numero tre. Dopo altri quindici giorni, feci il quattro. Ancora quindici giorni e avrebbero acchiappato Hans!

A sei mesi Andrea raggiunse il numero sei, mettendosi così in pari con l’età. Da quel momento in poi, avrei potuto concedermi il lusso di insegnargli un solo numero al mese.”

“E ci riuscirono tutti e due?” chiese Pam. Ma si capiva che la sua domanda era retorica.

Purtroppo dovetti rispondere: “Leo? No, Leo arrivò soltanto al numero cinque.”

“Mi sorprende” disse Jerry incredulo, non riuscendo del tutto a mascherare un’ombra di delusione.

“Non fu colpa sua. Non aveva ancora sei mesi quando ci fu rubato dal giardino posteriore della casa mentre sia io sia Patrizia ci trovavamo al lavoro. Avvisato da una telefonata da parte dei vicini, chiesi e ottenni il permesso di assentarmi dal lavoro il resto del pomeriggio e trovai quasi subito Andrea in un parco vicino. Leo non lo ritrovammo mai più.”

“Che peccato! Dev’essere stata dura!” commentò Pam.

“Molto. Non sapere dov’era, se era ancora vivo... fu un colpo terribile.

Mettemmo un annuncio sul giornale promettendo una fortissima ricompensa. Passammo due mesi terribili: due mesi di speranza, alternata a frustrazione e disperazione.

Avevamo il sospetto che il ladro avesse avuto l’intenzione di rubarli entrambi, ma Andrea, più cauto con gli estranei, non gli permise di farsi prendere. La sua riservatezza verso gli sconosciuti gli salvò la vita. Ma ritorniamo al contare.”

“Fallo contare, voglio vedere” disse Jerry, con un’impazienza che non mi sarei mai aspettato.

“Andrea, vieni a sederti qui davanti” gli dissi, prendendo in mano un biscotto. Andrea obbedì.

Incominciai con il numero uno. Mise la zampa sul mio palmo aperto. Poi la ritirò, aspettando. Lo ricompensai con il biscotto. Poi dissi: due. Mosse la zampa due volte sulla mia mano, poi si fermò, aspettando la ricompensa. Gli diedi il biscotto. Ogni volta aumentai di un numero, fino a raggiungere il dieci.

“È incredibile, Fabrizio, con un cane così avrei fatto un sacco di soldi!” osservò Jerry, eccitato.

“Lo so, ma non volevamo mettergli troppa pressione. Quelli che, fino a quel momento, erano solo dei semplici giochi avrebbero potuto trasformarsi in una coercizione, in pratica in un vero e proprio inferno per il cane. Comunque furono scritti alcuni articoli su di lui sia in Australia sia in Italia, ed è stato anche in televisione in Italia, come vi spiegherò: ma quest’ultima fu solo una circostanza fortuita, un tentativo di convincere una non credente, una cosa che non ripeterei.

Come avrete forse pensato, il gioco sta diventando un po’ monotono, soprattutto per noi. Per lui non credo, finché gli do i biscotti. Guardate come ho risolto l’impasse.

Andrea, concentrati, la cosa si fa difficile” dopo di che, dissi: “undici!”

Andrea sollevò la zampa sinistra e batté una volta sulla mia mano aperta. Poi ritornò seduto normalmente. Indi sollevò la destra, batté una volta e ritornò seduto aspettando il biscotto.

“No, non ci posso credere!” esclamò Jerry, che aveva capito. “Dice uno con la sinistra per la decina e uno con la destra per l’unità. Dieci più uno: undici!”

“Dodici!” dissi. Andrea fece il dieci colpendo la mia mano una volta con la zampa sinistra e il due con due battiti della destra.

Arrivammo a quindici. “Questo è l’ultimo numero che gli ho insegnato. Quindici mesi, quindici numeri.”

“Davvero spettacolare. Fabrizio, con un cane simile, negli Stati Uniti avrei fatto milioni di dollari!” ripeté Jerry, incapace di contenere il suo entusiasmo.

“Lo so. Be’, a dire il vero qualcosa di simile aveva attraversato la mia mente, almeno a Melbourne, in Australia. Quando uscirono gli articoli su di lui, visitai la sede locale di un canale televisivo nazionale. La persona con cui parlai disse che erano interessati e che sarebbero venuti a casa nostra per filmare in una certa data con la troupe televisiva. Quel giorno, quando vidi che l’ora era già passata e che tardavano, li chiamai. La stessa persona, dall’altro capo della linea, fece finta di non ricordare! Ignoro cosa potesse avergli fatto cambiare idea. Ero veramente seccato.

Avemmo poi un’altra potenziale possibilità in Baja California, ma era passato del tempo e io e Patrizia avevamo già deciso che non era giusto, in ogni caso, sottoporre il cane a indebite pressioni. A quel tempo avevo anche capito un paio di cosette in più su come funziona il sistema delle relazioni umane e quello che feci in Baja lo feci senza troppa convinzione, più per confermare a me stesso quello che già sapevo sull’uomo che per lanciare Andrea nel mondo dello spettacolo. Nella piccola baia di Los Muertitos (La Perla), arrivarono un giorno due bellissime ragazze con una macchina e una tenda, e rimasero alcuni giorni. Presto scoprimmo che entrambe facevano le modelle a Hollywood. Contrariamente a tutte le ragazze americane che avevamo incontrato in precedenza, loro prendevano il sole in topless e avevo subito avuto la sensazione che ne fossero orgogliose. Un giorno, mentre se ne stavano sdraiate sulla sabbia a tette in su, mi avvicinai e fermandomi al loro fianco le salutai.

Una di loro osservò: ‘Si vede che non sei americano!’

‘Infatti non lo sono. Come hai fatto a indovinare?’ dissi scherzosamente, supponendo che si riferissero al mio accento straniero.

‘Perché la maggior parte degli uomini americani’ si affrettò a spiegare, ‘vedendo due ragazze in topless, o non si sarebbero avvicinati o, in caso contrario, avrebbero cominciato a fischiettare imbarazzati.’ Non riuscii a trattenere un sorriso.

‘Senza contare che molti sarebbero arrossiti!’

‘È una questione d’abitudine. Di questi tempi sulle spiagge d’Europa anche le nonne si mettono in topless. Lo trovo molto bello, oltre che salutare. L’abbronzatura fa bene in ogni parte del corpo. Comunque, oggi mi avete insegnato qualcosa sulla cultura americana.’

Durante una cena nel nostro autocaravan, quando una di loro dichiarò che la madre della sua amica era Jennifer O’Neil, non avendo mai sentito quel nome, io e Patrizia fummo colti da un attimo di esitazione. Quando proseguì dicendo che, tra altre pellicole di successo aveva interpretato il ruolo principale nel film L’uomo con il fiore in bocca tratto dall’opera di Pirandello, fummo costretti a scusarci, adducendo come motivo che, essendo italiani, avevano scarsa familiarità con il cinema americano.

Ciò che mi incuriosì durante la conversazione non fu tanto il fatto di avere davanti la figlia di un’attrice di fama mondiale, ma che questa fosse un’addestratrice di cani destinati alle scene cinematografiche. In quel momento pensai che non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di valutare le sue reazioni e le dissi che l’indomani le avrei mostrato che cosa sapeva fare Andrea.

Il mattino dopo feci fare ad Andrea alcuni esercizi, incluso contare. Avevo previsto una reazione di curiosità, o di sorpresa, o che avrebbe colto al volo il cacio che le stava cadendo sui maccheroni. Invece niente: mostrò soltanto un tiepido interesse. In quanto a me, non ritenni di insistere. Già allora mi ero fatto un’idea precisa dei meccanismi psicologici che governano la condotta degli esseri umani, specialmente quando si sentano minacciati da qualcosa che non riescono a conseguire loro stessi.

Pam, Jerry, non è difficile immaginare che cosa debba aver provato un’addestratrice professionista di cani com’era la figlia di Jennifer O’Neil quando vide coi propri occhi un cane, addestrato da un amateur, fare qualcosa di impensabile come contare fino a quindici. E, con la prospettiva concreta, come le avevo accennato, di reinsegnargli a riconoscere i numeri in qualsiasi ordine.”

“Una merda, di sicuro. Deve essersi sentita una merda” osservò Jerry, senza mezzi termini.

“Ecco perché minimizzò l’intera faccenda” incalzò Pam, accigliandosi. Non l’avevo mai vista così contrariata.

“Deve essersi fatta prendere dal panico. Avrebbe potuto imparare qualcosa di importante, non capitano tutti i giorni occasioni del genere... imparare qualcosa di utile, che le sarebbe servito in seguito per il suo lavoro… Invece no, scelse di chiudere gli occhi. Un comportamento incomprensibile” Pam se la prese tanto a cuore da arrossire per l’indignazione.

Proseguii il racconto: “Quando ritornammo in Italia, dopo sei mesi, Andrea aveva circa due anni. Da tempo avevo interrotto gli esercizi, o i trucchi, comunque li si voglia chiamare. Ne ricordava, in ogni caso, ancora un trenta per cento. Il punto è che, come vi ho spiegato, avevo già ottenuto quello che avevo in mente fin dal principio: vedere fin dove poteva arrivare. Spero di aver contribuito a sviluppare le sue facoltà mentali.”

“Ecco qua un articolo che un giornale di Melbourne ha pubblicato su di lui” intervenne Patrizia, mettendolo davanti a Jerry. “E qui ce n’è un altro di una rivista nazionale australiana” aggiunse, posando la rivista davanti a Pam.

“Abbiamo anche un articolo in italiano, di cui ti parlerò in seguito. La fotografia che vedete qui è quella della prima pagina... Ecco, qui risponde NO alla mia offerta del mezzo limone che ho in mano, qui sulla destra, in primo piano.”

“È una foto che occupa tutta la prima pagina, vero? Guarda la dicitura, Pamela” esclamò Jerry: “Andrea, il cucciolo che sa leggere. La zampa di Andrea è posata sulla parola NO. A quanto pare, non gli sono mai piaciuti i limoni!”

“Prima che il fotografo venisse a casa” mi sentii obbligato a spiegare, “dovetti risolvere un piccolo problema: come far capire ai lettori, attraverso una fotografia, che cosa stava facendo Andrea. E, non sapendo se la foto sarebbe stata in bianco e nero o a colori, dovetti prendere in considerazione anche quest’ultima possibilità. Scrissi la parola SÌ, in verde, su una tavola di compensato e NO, in rosso, in chiara connotazione con il significato dei colori dei semafori. Come vedete, il SÌ e il NO sulla tavola orizzontale sono rispettivamente davanti alla sua zampa destra e sinistra.

In questo articolo il giornalista ha esagerato un paio di volte, malgrado gli avessi dato direttive scritte molto dettagliate. A parte il soprattitolo: Andrea, il cucciolo che si crede un essere umano.

“Ma questa non mi sembra una grande esagerazione” osservò Pamela. “Guardagli gli occhi. Se quelli non sono occhi umani... ”

Curioso, pensai, quella frase, a suo tempo mi aveva irritato tanto, e adesso Pam non ci vedeva niente di strano!

“A ogni modo, c’è qualcosa di inesatto nella sua affermazione che il cane girò la chiave per poter poi suonare il clacson. È vero che il clacson del Volkswagen, al centro del volante, poteva essere attivato soltanto dopo aver girato la chiave nel secondo dei due click. Una volta, dopo due tentativi, Andrea scese dal mio grembo come se avesse perso interesse nel gioco. Provai una lieve delusione. Ma poi tutto mi fu chiaro quando Andrea TOCCÒ, (non girò) la chiave COL NASO. Fu allora che mi accorsi di non aver girato la chiave nel secondo click. Ciò che scrisse il giornalista, malgrado fosse falso tecnicamente, era vero concettualmente. Però, esagerazioni di questo genere possono compromettere la credibilità del resto dell’articolo.

Ho sempre creduto che un cane sia in grado di imparare quasi tutto, a patto che l’addestratore gli insegni nel modo giusto, tenendo conto delle limitazioni di movimento dovute alla conformazione morfologica delle zampe della specie; in questo caso, l’assenza di dita prensili.”

“A metà dell”articolo si menziona che gli hai insegnato ad accendere e spegnere la televisione. Come hai fatto?” chiese Pamela, che aveva ricominciato a leggere.

“Devo confessarvi che, malgrado il mio consueto ottimismo, quando pensai di insegnargli ad accendere e spegnere la televisione, esitai un po’, chiedendomi:

Non stai passando il segno? È davvero possibile per un cane? Però mi accorsi ben presto che i ragionamenti negativi non possono che generare risposte negative. Quando si pensa di insegnare a un cane qualcosa di nuovo, bisogna chiedersi innanzitutto se si sono poste prima le basi necessarie per il nuovo esercizio. Se lo si è fatto, diventa tutto facile. Altrimenti, raggiungere lo scopo prefissato potrebbe risultare impossibile. In ultima analisi, si deve addestrare se stessi, prima di pensare di addestrare il cane. Si tratta, cioè, di sviluppare una certa conoscenza di sé...

Non tardai ad accorgermi che Andrea possedeva già tutti gli strumenti necessari. Accendere e spegnere la televisione voleva dire semplicemente combinare due esercizi che era già in grado di fare regolarmente: aprire e chiudere le porte, e accendere e spegnere la luce della camera. Legai una cordicella al bottone (push button) di accensione. Come faceva con le porte, tirando coi denti la cordicella, nello stesso modo apriva, cioè accendeva la televisione. Come per chiudere le porte le spingeva con la zampa, così per chiudere (spegnere) la televisione, premeva sul bottone.”

“Secondo te, qual è il migliore successo di Andrea?” chiese Jerry.

“Se per migliore si intende il più difficile, sicuramente sono tre: contare, cantare e pronunciare la parola mamma, gli ultimi due strettamente connessi. Giudico gli ultimi due importanti per il lungo e continuo sforzo e l’impegno eccezionale che ci ha messo Andrea a escogitare, da solo, un metodo per poter articolare questi suoni. Ma di ciò parleremo un altro giorno. Per ora accontentatevi del racconto, forse più spettacolare, su come riuscì a rispondere al telefono.”

“A questo punto mi aspetto di tutto da voi due, pertanto mi astengo dal dire impossibile. Sono invece curiosissimo di sapere come hai fatto.”

Con la coda dell’occhio vidi Patrizia ridacchiare. Si godeva appieno le reazioni dei nostri amici.

“Quando pronuncio la parola ‘telefono’, quale immagine vi si presenta alla mente?’

“Un telefono su un tavolino.”

“Ebbene, dovete invece visualizzare un telefono fisso su una parete, come quello che avevamo nella sala della nostra casa di Melbourne.”

“Ma come poteva sollevare la cornetta?” chiede Jerry, impaziente. “Stavolta non riuscirai a convincermi che abbia sollevato la cornetta.” Patrizia rideva e Pamela scuoteva il capo, non in segno di diniego, ma di meraviglia.

“Infatti non lo fece mai.”

“E allora, vedi? È impossibile!”

Patrizia continuava a godersi la scena, soppesando le reazioni dei nostri ospiti.

“Calma, calma, una cosa alla volta e… abbi fede. Non hai appena detto che ti aspettavi di tutto da noi due? Hai forse perduto la fiducia?”

“OK. Era solo un modo di dire. Non vedo come hai potuto… ”

“Sicuramente, questo fu il problema più spinoso da risolvere. Di certo non credevo che Andrea fosse in grado di sollevare da solo la cornetta. A parte il fatto che era troppo alta perché la raggiungesse coi denti. Be’, avrei sempre potuto sollevarla io! Scherzo, naturalmente, anche se, come vedrete, forse questo pensiero un po’ mi ha ispirato. Come vi ho già spiegato, la soluzione del problema dipende sempre dalla riflessione su cosa il cane capisce ed è già in grado di fare. Non si può insegnargli un esercizio complesso come questo, di punto in bianco. Sarebbe illogico e controproducente. Il cane ha il diritto di divertirsi con quelle cose che già lo divertono.

Mi chiedevo: Che cosa posso usare, stavolta, che Andrea conosce già e col quale si diverte? Vediamo: chiavi, palla da tennis, stecco, giornale, interruttore, televisione, corda, campanella, peluche, sonaglino, ecc. No, nessuno di questi giocattoli è adatto allo scopo. Poi, un pensiero mi colpì come un fulmine: l’elefantino di gomma! Certoooo! Il più vecchio dei suoi giocattoli. Ancora quello che amava di più, con quel suono stridulo che emetteva quando lo premeva con la zampa.

Sollevai la cornetta e la lasciai penzoloni, attaccata al filo. Niente male, si trovava proprio all’altezza delle orecchie di Andrea. Adesso, però, la linea era aperta e non si potevano ricevere telefonate. Cosa potevo fare?

Ma certo, ecco dove dovevo mettere l’elefantino. Al posto della cornetta! Dovevo lasciare, cioè, la cornetta penzolare in basso e mettere l’elefantino di gomma sulle linguette mobili in cui la cornetta era normalmente appoggiata. Però anche così non poteva funzionare perché l’elefantino, molto più leggero della cornetta, non poteva espletare la stessa funzione, che era quella di chiudere il circuito. Eppure, una soluzione ci doveva essere!

Perché non usare due sottili elastici per premere l’elefantino contro le due lingue mobili? Non mi rimaneva che provare. Sistemai con cura gli elastici. Sì, ora c’era la pressione giusta e il circuito rimaneva chiuso: la linea era pronta per ricevere eventuali telefonate. Il problema più ostico era stato risolto!

Con i due elastici sistemati quasi al limite del corpo, uno dal lato della testa e l’altro della coda del giocattolo, al primo assalto di Andrea, l’elefantino, auspicabilmente, sarebbe balzato a mezz’aria e ricaduto sul pavimento. Provai prima io, con un colpo secco della mano: funzionava davvero!

Dissi ad Andrea di toccare l’elefantino. Andrea si alzò sulle zampe posteriori e colpì il suo giocattolo preferito con tanta veemenza che esso finì sul pavimento a qualche metro di distanza. Ripetemmo l’esercizio più volte. Andrea non sbagliava un colpo! Ogni volta che lo toccava, il ricevitore/elefantino saltava per aria.

Vedi, Jerry? L’elefantino/cornetta veniva effettivamente sollevato e la potenziale voce all’altro capo della linea si poteva ora udire attraverso la cornetta vera e propria, che penzolava all’altezza delle orecchie di Andrea. La fase successiva fu quella di far associare ad Andrea lo squillo del telefono con il toccare l’elefantino di gomma. Registrai lo squillo del telefono e, quando attivai la registrazione, dissi ad Andrea di TOCCARE l’elefantino. Dopo alcune volte, lo toccava solo ascoltando lo squillo. Pavlov mi aveva insegnato qualcosa.

Avevo in mente la fase conclusiva. Dovevo uscire e chiamare dalla cabina più vicina sulla strada, mentre Patrizia avrebbe tenuto Andrea vicino al telefono e una volta che lui, dopo lo squillo, avesse sollevato l’elefantino/cornetta, io gli avrei dato l’istruzione di andare a mettere un po’ di musica. Stavolta, lo avrebbe ricompensato Patrizia in mia vece.

Visualizzavo Andrea attraversare il salotto, scomparire dietro la poltrona e accendere la radio che si trovava in posizione orizzontale sul pavimento, ventiquattro ore sulla stazione di musica. Questo lo faceva regolarmente, come già sapete. Ero dunque arrivato al punto in cui riusciva, senza alcuno sforzo, a eseguire tutti gli esercizi singolarmente. Mancava la parte più facile.

È quasi ironico che quest’ultima fase non si arrivò mai a completare. Ma non fu colpa del cane, né nostra.

Dovemmo infatti traslocare in una casa nel vicinato, perché il proprietario richiedeva la nostra per il figlio. L’unico inconveniente era rappresentato dal fatto che la nuova casa non aveva un telefono a muro, solamente uno normale. Dimenticai presto l’esperimento. Forse perché l’avevo già considerato sostanzialmente concluso e, perciò, non più tanto stimolante. Sarà forse perché la soddisfazione e la gioia si provano molto di più nel corso del viaggio che una volta arrivati alla meta?”

“Molto creativo” commentò Jerry. “Congratulazioni. Questa storia potrebbe insegnare molte cose a molta gente; non ultimo, a pensare in modo più decondizionato. Perfino gli addestratori di animali potrebbero beneficiarsene.”

“Grazie, apprezzo molto la tua opinione. Soprattutto perché viene da una persona come te.”

 

Di tutti i racconti di questa raccolta, questo è uno dei miei preferiti. Perché? Perché ponendo l’accento sul viaggio, cioè sul processo, indica esplicitamente la strada verso la felicità. Essa, infatti, è il risultato di un viaggiare per il gusto, la curiosità e la gioia nel farlo. E ciò vale sia per un viaggio inteso come spostamento sul pianeta, sia per il viaggio metaforico della vita.

Qualcuno ha scritto: «Nessuno compra un puzzle pre-assemblato. L’interesse ad acquistare il puzzle risiede nel processo di montaggio, più che nella figura finale assemblata. E la motivazione per l’acquisto è la promesssa di un processo stimolante.[1]» Per quanto mi riguarda, mi piace pensare che ogni incastro riuscito del puzzle indichi, non solo metaforicamente ma anche nella pratica, una fase di una successione di piccoli frammenti del vissuto, di atti e decisioni, ognuno dei quali si riferisce sempre a un momento presente funzionale al piacere che deriva dall’appagamento immediato del desiderio. Questo appagamento dà origine a una momentanea distensione affinché il gioco ricominci da capo, fino alla fine. Ma il risultato finale di aver composto il puzzle è inferiore, anzi, irrilevante, di fronte alla soddisfazione che deriva da ogni singolo incastro riuscito, proprio perché, a puzzle ultimato, si esaurisce il desiderio di ricominciare. Questo è noto, da tempo immemorabile, ai saggi di tutte le culture del pianeta. Un proverbio finlandese recita: «La felicità non deriva dalla felicità in sé, ma dal viaggio per conseguirla.»

Trovo colmo di una funzionale carica poetica ed emotiva il seguente detto indiano: «L’ieri è solo un sogno, il domani una visione. Ma un oggi ben vissuto rende ogni ieri un sogno di felicità e ogni domani una visione di speranza. Guarda bene, pertanto, all’oggi.» Il che, nel suo significato più nobile, è il carpe diem latino. Se ciò che conta è il processo, è indubbio che questo debba tradursi, il più possibile, nel vivere il momento presente.


[1] Da Thunderbolt, su You Tube, scusandomi con l'autore di questi concetti per aver perso per strada le sue generalità e non poterglieli accreditare.

 

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