QUEL MURO DI TROIA: (prima parte) – Turchia/Italia
Il seguente racconto, ambientato sia a Troia (Turchia) sia in Italia, spiega con un esempio pratico “sul campo” la cruciale differenza tra il “cercare” e il “trovare”, che altrimenti, espressa soltanto astrattamente, senza riferimento alla realtà, potrebbe presentare qualche difficoltà di comprensione.
Le citazioni di autori o di personaggi famosi fuori
dal contesto sono sempre pericolose, perché, come è stato ripetutamente osservato, chi legge,
proiettando, legge se stesso. Questa è la prima cosa da tenere in
considerazione quando si cerchi di capire che cosa abbia inteso comunicare
quell’autore con quelle precise parole. Per un autore che ne citi un altro,
esiste un modo efficace di mostrare la propria interpretazione: quello di
illustrarla, quando possibile, con esempi tratti dal suo vissuto personale, e
poi commentare questo vissuto alla luce della citazione. Ne Il Nostro Canto
Libero, il primo volume della serie
Cittadini del mondo, avevo citato un passo
dal Siddharta di H. Hesse, in cui l’autore puntualizzava la differenza tra il
“cercare” e il “trovare”. Lo ripeto di seguito per chi non avesse letto il
libro perché qui sta la chiave di lettura dei cinque libri della serie. E, molto più importante, la chiave di lettura della nostra vita:
“Un paio di giorni prima della partenza (via terra per l’India), non sapevamo ancora se portare con noi dei libri, oltre
alla preziosa guida. Dopo esserci posti la classica domanda, cioè quale libro
avremmo portato su un'isola deserta, scegliemmo con entusiasmo Siddharta, di Herman Hesse. Ma, per
qualche ragione, questa decisione risvegliava in noi un certo disagio. E se lo
rileggessimo a voce alta, a turno? Questo risultò un ottimo passo avanti.
A un
certo punto incontrammo il brano cruciale, in
cui Siddharta dice a Govinda che
quando uno cerca, può facilmente accadere che i suoi occhi vedano
soltanto quelle cose che cerca, che sia incapace di trovare qualcosa, di lasciare
entrare qualcosa nella sua mente, perché non pensa ad altro che all’oggetto
della sua ricerca, perché ha una meta, perché è ossessionato dalla meta.
Cercare significa avere una meta. Ma trovare significa essere liberi, aperti,
non avere meta. “Tu, o venerabile” gli dice, “sei forse (solo) un cercatore,
perché, lottando per arrivare alla meta che ti sei prefissato, non vedi le cose
che sono direttamente sotto il tuo naso.”
E poi riprende il pensiero, che corre per tutto il libro,
della necessità di imparare direttamente dalla vita, non dagli insegnanti, pur
validi che siano. Insomma, ritiene l’esperienza diretta
insostituibile. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Avevamo
colto il messaggio: non c’era bisogno di libri. Simbolicamente, seppellii Siddharta tra gli altri volumi in uno
degli scaffali della mia biblioteca di casa.”
Tutte le mattine di un pungente gennaio di molti anni fa,
appena dopo l’apertura, il sito archeologico di Troia era deserto. E noi
potevamo esplorarlo in santa pace prima che orde di turisti, chiassosi e con
scarso interesse, si riversassero nel parcheggio dagli eleganti autobus a
noleggio due ore più tardi.
Durante le primissime visite, mi parve di leggere una
certa preoccupazione sul viso dei due guardiani, i quali, mantenendosi a
distanza prudenziale, ogni volta seguivano in silenzio i nostri passi fino
all’uscita del sito archeologico. Nonostante rimanessero muti come pesci, era
difficile sottrarsi all’impressione che volessero controllare i nostri
movimenti. Forse per assicurarsi che non asportassimo nulla. Non aveva senso.
Che altro avremmo potuto portar via se non pietre prive di valore? Però non
c’era dubbio che, dal loro punto di vista, la nostra condotta era sospetta.
Eravamo entrati e usciti dal sito archeologico per molti giorni consecutivi e
almeno una volta al giorno. Inoltre, per mantenerci il più vicino possibile
alle rovine, dormivamo nell’autocaravan nel parcheggio adiacente. In tal modo,
potevamo entrare e uscire a piacimento, senza perdere molto tempo, per
consultare i libri di archeologia che facevano parte della nostra biblioteca.
Data la vicinanza del veicolo, una comodità impagabile.
Era il nostro secondo inverno di esplorazione del
territorio chiamato un tempo Troade e delle rovine di Troia. Nell’estate fra le
due visite, avevo frequentato alcune delle più prestigiose biblioteche
d’Europa, alla ricerca di indizi sull’ubicazione di Troia in manoscritti, mappe
e portolani greci, tutti precedenti l’era cristiana. La mia ricerca ruotava
principalmente intorno a un cardine topografico-linguistico. Consisteva nel
rintracciare i nomi greci di luoghi, fiumi, porti, città, tumuli funerari,
colline, montagne, ecc. che comparivano nell’Iliade, per poi identificarli in
loco. Tuttavia, uno studio di questo genere era diventato problematico dopo il
1923, anno in cui i Greci furono espulsi dalla Turchia. Infatti, da quel
momento in avanti, non c’era più nessuno nel Paese che parlasse il greco e
potesse quindi ricordare i nomi omerici nella “lingua degli dèi”.
Come risolvere il problema? Esisteva certamente più di
una soluzione; la mia fu quella di imparare abbastanza bene il turco, così da
facilitarmi l’identificazione dei toponimi greci attraverso quelli turchi.
Spesso è possibile farlo esaminando le somiglianze fonetiche o semantiche
(somiglianze di suono e/o identità di significato). Con un vocabolario orale di
circa ottocento vocaboli e sufficiente grammatica e sintassi da poter capire i
rudimenti della lingua orale, e inoltre un vocabolarietto tascabile
inglese/turco/inglese di circa dodicimila vocaboli, mi sentivo pronto a
intraprendere il mio cammino amatoriale, avviandomi su una strada poco battuta,
piena di potenziali sorprese. Con l’uso dei computer, oggigiorno, il mio
compito ne risulterebbe facilitato.
Nel corso di quella lunga, affascinante ricerca, uno dei
momenti cruciali fu segnato da un’incredibile scoperta di Patrizia. Avevamo
appena superato l’entrata e per l’ennesima volta eravamo occupati a riesaminare
le mura perimetrali. Durante momenti particolarmente rilassati mi sembrava di
visualizzare la vita della città in tempi omerici. Lampi di immagini e
frammenti di suoni arrivavano a colpire i sensi, e cavalli scalpitanti,
armature e carri sferraglianti rompevano il silenzio delle pietre e
riverberavano dall’acciottolato contro i muri delle case. Poi, udii la voce di
Patrizia.
“Chi riuscirà a convincermi che quel muro appartiene alla
Troia omerica?”
Per Troia omerica si intende un’epoca precedente al 1250
a.C., anno intorno al quale sembrò ruotare la guerra tra Greci e Troiani.
“Quello non è altro che un muro medioevale!” precisò
Patrizia, indicandolo con l’indice.
“Che cosa dici? Quale muro?” devo aver detto risvegliandomi
dalle mie fantasticherie, ma comprendendo subito a quale muro si riferisse.
“Vedi un po’ tu.”
Non mi ci volle più di uno sguardo per comprovare che
Patrizia aveva ragione e per rendermi conto che aveva fatto una scoperta di
straordinaria importanza archeologica.
Non c’erano dubbi, quello era un muro post-romano, il che
comportava un errore di valutazione da parte degli archeologi di oltre mille
anni!
Per apprezzare meglio di cosa si trattasse, devo fornire
alcune informazioni preliminari e descrivere brevemente ciò che avevamo davanti
agli occhi.
Troia, come molte altre famose città preistoriche
disseminate sulle rive del Mediterraneo, fu conquistata dai Greci nella remota
antichità. Così, almeno, narra la leggenda. Nel periodo di maggior fioritura
politica e artistica della Grecia, sotto Alessandro il Macedone, nel quarto
secolo a.C., ci furono altre conquiste e nuove città furono ricostruite in
grande stile sulle rovine delle precedenti, spesso rase al suolo o bruciate.
Caratterizzavano l’architettura greca classica non solo i templi – con i loro
bei capitelli, frontoni di bassorilievi e statue – ma soprattutto le grandiose
mura di cinta, costruite con enormi massi squadrati, che continuarono, con uno
stile simile, anche dopo la conquista romana.
Di conseguenza, la maggior parte dei siti archeologici in
Turchia mostra questa duplice caratteristica: mura greche e romane. Esse sono
una ricorrente, piacevolissima sorpresa, che desta l’emozione anche del turista
più apatico, insieme con i numerosi anfiteatri greco-romani ancora ben
conservati che non mancano mai di sorprendere per gli eccezionali effetti
acustici. Non è raro trovare a lato dell’asfalto statue o sarcofaghi greci e
romani abbandonati. Durante l’Impero romano, e anche nei secoli successivi alla
sua caduta, ci furono molte sacche di popolazione nelle colonie e, dalla
madrepatria, continuò un flusso d’emigrazione pressoché costante verso quelle
stesse colonie: in Turchia fino al 1923, come già detto, anno in cui una
comunità greca di quasi due milioni di persone fu espulsa dal Paese.
“Per quanto possa sembrare incredibile, hai ragione,
Patrizia. Non c’è dubbio. La logica parla chiaro. Milioni di turisti, compresi
molti archeologi, hanno visitato Troia ma, apparentemente, nessuno si è accorto
di questo fatto ovvio. Naturalmente ovvio
vuol dire ovvio dopo che qualcuno si è
reso conto che è ovvio. E quel qualcuno sei tu. Devo farti i complimenti.
Sei riuscita a spezzare le catene che hanno finora condizionato e
immmobilizzato la posizione ufficiale in una specie di paralisi.”
La scoperta del nuovo, in qualsiasi campo, richiede
conoscenza e decondizionamento; e quest’ultimo è quasi sempre più importante
della conoscenza specifica della materia in questione.
Ciò che avevamo davanti era un muro “troiano”, di più di
due metri di spessore e alto due metri e mezzo, costruito con piccole pietre
irregolari, sconnesse, ciascuna non più grande di una ventina di centimetri.
Il muro romano emergeva dal centro del muro “troiano” e
proseguiva in alto, al di sopra di quello, di almeno un altro metro. Era
facilmente distinguibile perché composto da enormi blocchi di pietra di forma
parallelepipedale, perfettamente squadrati, uniti da un impercettibile strato
di cemento. Era evidente a entrambi l’impossibilità che il muro romano potesse
essere stato costruito nel mezzo di un muro precedente (troiano): tecnicamente
è impossibile. La logica suggeriva che i Romani avessero costruito per primi il
loro muro e che poi, una volta terminato il dominio romano, un popolo con
capacità architettoniche molto inferiori avesse utilizzato il muro romano come
struttura interna su cui addossare il loro muro, SU ENTRAMBI I LATI. In
sintesi, quel muro NON poteva appartenere alla Troia omerica.
Al nostro ritorno in Italia, non seppi resistere alla
tentazione di consultare un esperto in una facoltà di archeologia. L’università
più vicina a casa era Pisa, dove mi ero laureato in Lingue e Letterature
Straniere.
Palazzo Ricci a Pisa Facoltà di Lettere |
Rivisitando la città dopo tanti anni, fui sorpreso di
constatare che non c’era nessuna facoltà di archeologia. C’era, però, un
Istituto di Archeologia, annesso alla Facoltà di Lettere.
Patrizia preferì aspettarmi al pianterreno. Io salii le
scale, incontrai nel corridoio la segretaria e le chiesi un colloquio con il
titolare della cattedra, che arrivò quasi subito.
Dopo essermi presentato lo informai del mio recente
viaggio a Troia, in una mia seconda prolungata visita, e del fatto che, con
l’occasione, avevo scattato delle fotografie che desideravo mostrargli. Gli
manifestai a grandi linee la mia perplessità su un certo muro romano, e gli
dissi che avrei apprezzato la sua opinione. Il professore dovette aver fiutato
odore di bruciato, perché si mise subito sulla difensiva rispondendo: “La mia
specializzazione è la Troia preistorica. Però il mio assistente è specializzato
in archeologia greca e romana.”
Il mio primo impulso fu quello di sottolineare che, in
realtà, non importava molto perché sarebbero state necessarie entrambe le
specializzazioni o, per essere più obiettivi, nessuna delle due: solo una
maestria in buon senso.
Però sarebbe stato imbarazzante creare una situazione in
cui due professori universitari sarebbero stati costretti a discutere con un
principiante. Oppure, nel secondo caso, se era necessario solo il buon senso per
giudicare la faccenda, perché mai cercavo consiglio in una università? In ogni
caso, il professore sembrava aver già deciso di evitare la conversazione
perché, mentre mi faceva cenno di seguirlo, disse:
“Andiamo, il mio assistente è nella biblioteca.”
Mi presentò all’uomo e si dileguò.
Non eravamo soli. Apparentemente l’assistente stava
lavorando con due studenti; tutti e tre erano seduti a un lungo tavolo e fui
gentilmente pregato di accomodarmi al capo dello stesso. Avevo il professore
sulla mia sinistra, e gli studenti seduti dietro di lui davano l’impressione di
continuare a lavorare da soli su un testo di archeologia che avevano davanti.
Cominciai a spiegargli il problema, coadiuvando la mia
esposizione con mezza dozzina di fotografie del muro e una piccola mappa, che
io stesso avevo disegnato per illustrare da dove avevo scattato le foto e quale
porzione del muro mostrassero.
Fui sorpreso di percepire una certa iniziale resistenza
da parte sua, e soprattutto mi colpì il fatto che dimostrasse ignoranza su
certi dettagli degli scavi di Troia: era ovvio che non c’era mai stato. Questo
non era un grave inconveniente, pensavo, perché la risoluzione del problema non
sarebbe dipesa da conoscenze archeologiche, ma dalla logica. D’altro canto, ciò
che trovai inquietante fin dal principio, fu che pretendesse di darmi a bere
che c’era stato. Proprio a me che conoscevo ogni pietra del sito! Chiudiamo un occhio, dicevo a me stesso,
andiamo al sodo. Ma cominciavo ad
accorgermi di un fatto curioso: il professore cercava di convincermi che, sì,
era possibile tecnicamente costruire un muro come quello romano dentro un altro
muro già in situ. Ci voleva del fegato a sostenere una simile tesi!
Come se non bastasse, ebbe il coraggio di aggiungere che
“quella tecnica”, allora, era “pratica comune”(!?). Fui costretto a intervenire
per chiarirgli un po’ le idee: la mia modesta esperienza di dieci mesi di esame
di siti archeologici in tutta la Turchia dimostrava proprio il contrario, gli
dissi. Erano stati i costruttori POST-ROMANI a inglobare capitelli e statue
romane e altri pezzi archeologici di civiltà precedenti, mai i Romani; e che,
in ogni modo, non era tecnicamente possibile costruire un muro così preciso e
perfetto dentro un muro già in situ e, per di più, di pietre sciolte. Ma lui
andava avanti imperterrito con la sua insostenibile speculazione. Anzi, a mano
a mano che parlava, si autoconvinceva sempre più e il livello della sua
presunzione cresceva esponenzialmente. Mentre si infervorava in una mistica
difesa della sua tesi, pensai più di una volta: Glielo dico o non glielo dico? Così, davanti ai suoi studenti?
Poi disse qualcosa che mi irritò profondamente. Ecco, pensai, la classica goccia che fa traboccare il vaso. La sua presunzione
meritava una lezione, ed era un gran bene che fossero presenti due dei suoi
studenti. Sarebbero stati testimoni di qualcosa che non avrebbero dimenticato.
Già da qualche tempo, attraverso le grandi finestre della
biblioteca, osservavo di tanto in tanto dei lavoratori in piedi su delle impalcature,
sul lato opposto della strada, impegnati in un lavoro di restaurazione della
facciata di un edificio storico al livello della nostra stanza.
Degradando intenzionalmente quei professionisti a
semplici muratori (sono convinto che, dopo aver letto ciò che sto per
raccontare, non solo accetteranno le mie scuse, ma mi daranno perfino la loro
approvazione), osservai:
“Professore, vede quei muratori sulle impalcature?” anche
gli studenti si voltarono istintivamente di novanta gradi verso il finestrone al
loro fianco, in fondo alla stanza.
“Ebbene” continuai con tono impersonale, “se Lei dovesse
consultarli in tutta modestia e li consigliasse di prendere anche solo in
considerazione il fatto che sia possibile tecnicamente costruire un muro dentro
un altro e omettesse di dire loro che Lei è un Professore universitario, sa che
cosa farebbero? Le riderebbero in faccia!” forse l’osservazione era cattiva, ma
sono tuttora convinto che se la meritasse.
Una volta che il professore si fu di nuovo girato verso
di me, i due studenti, con un rapido spontaneo movimento sincronizzato (che lui
non era in grado di vedere) misero la mano davanti alla bocca, per soffocare il
suono di risa divertite.
Non mi restava nulla da aggiungere. Da quel momento in
avanti sarebbe stato uno spreco di tempo.
Mentre scendevo le scale ridacchiavo dentro di me,
pregustando il momento in cui sarei arrivato al pianterreno e avrei raccontato
a Patrizia il mio colloquio con l’“esperto”.
“Patrizia” le dissi, “d’ora in poi dobbiamo aspettarci
una certa resistenza alla tua teoria da parte degli esperti.”
Quando le riferii l’episodio, scoppiò a ridere e sono
sicuro che rimpianse di essere rimasta al pianterreno e di essersi perduta una
scena storica: la faccia che fece il professore alla mia osservazione. Commentò
che c’era da aspettarselo, soprattutto in Italia, e fu d’accordo con me che, la
prossima volta, avremmo dovuto scegliere “il meglio sul mercato”. Un incontro
fortuito ci indirizzò, in seguito – quando si dice fortuna – proprio verso “il
meglio sul mercato”.
Questa vicenda ha il seguito in: Quel muro di Troia (seconda parte)
I due partecipanti alla ricerca archeologica avevano un atteggiamento diverso di fronte alla ricerca archeologica e quindi davanti alle rovine della Troia omerica che stavano visitando. Fabrizio, interessato a cercare ulteriori prove che la pianura nella quale Omero fa combattere i due eserciti rivali va cercata altrove - dato che in epoca omerica si trovava sotto alcuni metri d’acqua - intravvede la possibiltà che la città stessa sia ubicata altrove e ne CERCA le prove nelle rovine (come accennato nella storia # 6). Patrizia, invece, benché a conoscenza dei risultati delle ricerche, che Fabrizio le aveva comunicato oralmente, prima di allora non si era mai fatta coinvolgere direttamente nella ricerca e non si era perciò proposta di CERCARE qualcosa in particolare; cosi’ aveva mantenuto la mente aperta all’inaspettato, all’imprevedibile, all’assurdo (Eraclito aveva affermato: “Se non sei disposto ad aspettarti l’inaspettato non lo troverai mai”). Non meraviglia pertanto che sia stata lei a vedere quello che entrambi avevamo sotto il naso. (cfr. Tu, o venerabile, sei forse (solo) un cercatore, perché, lottando per arrivare alla meta che ti sei prefissato, non vedi le cose che sono direttamente sotto il tuo naso.”)
RispondiElimina