L’ARPA DI VETRO - New Orleans, Louisiana, USA
Incontro con Peter Bennet
in un campeggio di New Orleans. Gli artisti di Jackson Square. Uno strumento
singolare. Note celestiali con caratteristiche sonore dolci ed eteree che non
avevo mai sentito prima d’allora. Bourbon Street e Jackson Square, nel French
Quarter. I po-boys di New Orleans. Il Mardí Gras. L'arpa di vetro e
l'armonica di vetro.
Rovistai nelle tasche dei pantaloni. Tirai fuori la borsa
di plastica, la rovesciai con la mano sinistra e, dopo essermi assicurato che
non ci fossero buchi, cominciai a raccogliere gli escrementi di Pacal. Sentii
il consueto calore attraverso la sottile protezione della plastica. Rovesciai
di nuovo la borsa, feci un paio di nodi nella parte superiore e la passai nella
mano destra infilando l’indice negli occhielli per trasportarla. Non dovevo
andare lontano per trovare un luogo adatto dove gettarla. Solo trenta metri più
in là, il custode del campeggio aveva sistemato un grande bidone della
spazzatura, il quale, colpito dalla borsa fece rimbalzare dal fondo metallico
vuoto una inattesa bassa nota musicale.
Con la coda dell’occhio, scorsi un cane più piccolo del
nostro scodinzolare poco lontano, anche lui privo di guinzaglio. Pacal si era
già mosso per andargli incontro.
“Sadie. Il suo nome è Sadie” ripeté una voce maschile
dietro le mie spalle. “E io sono Peter. Peter Bennett” disse l’uomo, porgendomi
la destra.
Oltre al nostro amico italiano Romano, che per lo più
viveva nell’appartamento della sua ragazza americana e veniva a dare
un’occhiata al suo camper in fondo al campeggio solo un paio di volte la
settimana, quell’inverno c’erano solo tre o quattro ospiti nel campeggio. Uno
di loro era Peter. Alto, sulla sessantina, con un viso magro e allungato e gli
occhi piccoli, incorniciati da un paio di occhialetti da vista, con una lunga
barba bianca fluente e una bandana rossa in testa, a prima vista si sarebbe
potuto scambiare per il mago Merlino. O anche per un senzatetto. Ma era
tutt’altro che un senzatetto. Viveva a pochi passi dalla piscina, in un camper
che condivideva con Sadie, un piccolo pastore australiano bianco e nero.
“Cosa ci fai qui?” chiesi, notando che il suo accento era
americano ma non di New Orleans.
“Faccio la stagione qui, in Jackson Square.”
“Sei un artista?” domandai, sapendo bene che quella
piazza pullulava sempre di artisti di ogni genere. C’erano ritrattisti,
caricaturisti, pittori, musicisti, cartomanti, chiromanti, mimi, giocolieri e
altri artisti ambulanti. Più di una volta mi ero fermato alle spalle di una
particolare ritrattista, la quale non era solo un’artista di straordinario
talento, ma anche una grande intrattenitrice.
Bourbon Street, la spina dorsale del centro storico, che
cominciava a pochi passi dalla Piazza Jackson, conservava ancora tutto il suo
antico sapore francese. A volte, durante il giorno, ma soprattutto nel tardo
pomeriggio e la notte, all’angolo con una strada laterale, si udivano le note
di un clarinetto o della tromba di un musicista ambulante. Tutti questi artisti
vivono delle mance dei passanti.
Più di una volta, dopo essermi fermato, assolutamente
affascinato, ad ascoltare repertori di jazz suonati con singolare bravura, mi
era passato per la mente che non avevano nulla da invidiare alle famose
celebrità che partecipano al Festival Annuale Del Jazz Di New Orleans.
“Conosco bene Jackson Square” dissi, “dov’è il tuo
posto?”
“La maggior parte delle volte mi metto davanti alla
cattedrale.” Nel frattempo eravamo arrivati vicino al suo camper. Fuori, c’era
un tavolino.
“Questo è il mio tavolo per le prove e questo è lo
strumento che suono.”
Diedi un’occhiata sul tavolo, ma non vidi nessuno
strumento musicale; solo moltissimi bicchieri da vino di forme diverse. Alcuni
erano pieni d’acqua quasi fino all’orlo, altri tre quarti, altri ancora un
terzo.
“Avvicinati” disse, “faremo un po’ di prove. Io suono e
tu mi accompagni.”
“Scusa, ma non suono nessuno strumento... anche se ce ne
fosse uno a portata di mano.”
“Ma è proprio lì di fronte a te! Questo è uno dei
diciotto strumenti che suono. Ed è anche quello che preferisco. Si chiama arpa
di vetro.”
Poi, senza preavviso, afferrò il mio dito indice e lo
immerse nell’acqua di una bacinella che si trovava in un angolo del tavolo.
Indi lo asciugò con un panno. Deve aver notato il mio sguardo perplesso, perché
aggiunse:
“È per toglierti la sostanza oleosa dalla pelle. Ora puoi
suonare.”
A questo punto non sapevo se dicesse sul serio o stesse
scherzando, ma non ebbi il tempo di valutare la situazione. Peter guidò il mio
indice sull’orlo di uno dei bicchieri più grandi e, conducendolo tutto intorno
alla circonferenza, disse: “Così va bene, continua ad accarezzare il bordo con
la stessa pressione del dito.”
Trasalii. Una lunghissima nota uscì da sotto il dito e si
diffuse intorno. Aveva un che di misterioso. Non c’era dubbio che uscisse
dall’orlo del bicchiere, eppure non ne ero troppo sicuro. Era qualcosa di
celestiale, con caratteristiche sonore dolci ed eteree che non avevo mai
sentito prima d’allora.
Peter si ripulì le dita dalla stessa patina oleosa e
cominciò a muovere le mani sui bordi dei bicchieri, accarezzandoli come le
corde di un’arpa. Venticinque bicchieri, a dir poco. Ne uscì una melodia che
riconobbi subito come When the Saints go
marching in. Ero allibito.
“Sai” disse infine, “posso riprodurre anche musica
classica. La forma di ogni bicchiere e la quantità d’acqua all’interno di
ciascuno genera una nota diversa.”
“Che bellezza!” esclamai “Non ho mai sentito uno
strumento con un suono così dolcemente penetrante. Risuona dentro l’anima.”
Mi spiegò che al momento c’erano circa dodici persone al
mondo che suonavano quello strumento, ma che solo due lo facevano per
guadagnarsi da vivere. Lui era una di quelle due.
Poi mi sorprese un’altra volta quando cominciò a
fischiare.
“Come diavolo hai fatto a imparare a fischiare in quel
modo? È stupendo. Grazie per aver condiviso con me tutte queste cose. Ne hai
fatto un mattino pieno di emozioni!”
“Appartengo a un club di fischiatori professionisti.
Qualche volta fischio anche in Jackson Square, di fronte ai clienti.”
Così appresi che Peter era anche un fischiatore
pluripremiato.
“Uno di questi giorni venite a farmi visita a Jackson
Square” disse, includendo Patrizia che era appena arrivata.
“Verremo di sicuro.”
“Di solito mi trovate vicino al giardinetto di fronte
alla cattedrale, al di là della piazzetta. Avrò qualcosa per voi, là, sul
tavolino.”
“Come hai cominciato, Peter?” chiesi.
“Suonavo già da tempo questo strumento. Dopo il divorzio
da mia moglie mi sono messo in viaggio con Sadie, dirigendomi verso Key West,
in Florida. Non ci misi molto a capire che la maggior parte della gente non è
tanto interessata ad ascoltare la musica, quanto a essere intrattenuta con
storie e aneddoti sulla musica. Devo dire che non mi lasciai demoralizzare
dalle magre mance iniziali. Infine, decisi che non mi rimaneva altro che
imparare a intrattenere la gente. In verità, devo ammettere che ci sono voluti
cinque o sei anni di pratica per raggiungere il mio obiettivo.”
Continuò col raccontarmi dove aveva suonato la sua arpa
di vetro negli Stati Uniti e le difficoltà che aveva incontrato in alcune
città. Alla fine, arrivò a New Orleans.
“Una città affascinante per artisti di ogni genere”
dissi. “Passeggiando per Bourbon Street, non si sa mai in chi ci si possa
imbattere. Una volta, da dietro un angolo quasi mi venne addosso un tipo
vestito da vampiro. Cominciava l’imbrunire, ma non era carnevale. Ne ho visti
altri due. Si ha l’impressione che qualcuno di loro creda veramente di essere
un vampiro. Una volta poi mi sono imbattuto in un musicista, a un angolo di
questa stessa strada, che suonava lo strumento più singolare che abbia mai
visto: una sega! La suonava con un arco di violino dalla parte non dentellata.
Anche il suono che emetteva era singolare, molto inquietante. Potrebbe perfino
assomigliare al suono di un UFO in arrivo... A volte sembrano voci umane...
Credimi, un’Ave Maria suonata alla sega è davvero una sonata unica.”
Mi venne spontaneo aggiungere: “Che duetto spettacolare
sarebbe sentire suonare un’arpa di vetro accompagnata da una sega!”
“Non dirmi che hai visto quel tipo qui a New Orleans! Io
non l’ho mai visto suonare qui, ma sulla strada principale di Santa Cruz, in
California, c’è una statua di bronzo a grandezza naturale di questo suonatore,
che era passato di là alcuni anni prima. Quella è l’unica città che ospita una
statua di un suonatore ambulante.”
“Forse New Orleans onorerà te con la seconda!”
“Ne dubito. Per più di un secolo i musicisti ambulanti
hanno continuato a stabilirsi nella piazza, ma i residenti del vicinato hanno
cercato spesso di farli allontanare; il che, comunque, non durò mai a lungo.”
La conversazione era stata piacevole. La prossima volta
che sarei andato in centro avrei di certo fatto un salto in Jackson Square per
fare una visita a Peter.
Qualche giorno più tardi, da Canal Street, a due passi
dal fiume Mississippi dove ero sceso dal tram, proseguii a piedi lungo Bourbon
Street, la spina dorsale del quartiere francese (French Quarter) verso Jackson
Square. Bourbon Street è una strada pittoresca, famosa per l’abbondanza degli
stili architettonici unici negli Stati Uniti: revival greco, americano
coloniale, stile vittoriano del tempo della Regina Anna e architettura in stile
italiano, riflettono le radici storiche della città e il suo patrimonio
multiculturale. Notevoli sono le case creole, su ciascun lato della strada con
cortili ornati di piante rampicanti e fiori e balconi in ferro battuto. Un buon
numero di queste case è stato trasformato in ristoranti e locali notturni.
Era circa mezzogiorno e l’odore invitante del cibo che
usciva dalle prese d’aria sopra le porte dei ristoranti, convogliato
appositamente sul marciapiede per adescare il passante, cominciava ad aggredire
piacevolmente i miei sensi. Decisi di mangiare un po-boy e di bere una birra
prima di andare a far visita a Peter in Jackson Square.
Ah, i po-boys di New Orleans (“po” sta per “poor,
povero”, perché in origine era, appunto, il cibo dei ragazzi poveri)... Questo
panino dalla forma di un nautilus, una tradizione tipica della Louisiana,
consiste quasi sempre di carne, di solito manzo arrosto, o pesce fritto. La
carne viene servita sul nautilus, ovvero una baguette di pane stile francese,
nota per la sua crosta croccante e l’interno morbido.
La prima volta che sentii nominare i “po-boys con
ostriche fritte” non potei fare a meno di sorridere. Di tutte le cose, le
ostriche fritte! Non offrite a un palato europeo ostriche fritte! È un anatema.
Almeno, così credevo, trovandomi ancora sotto l’incantesimo di un
condizionamento mentale. Fino a quando le assaggiai. I po-boys con le ostriche
fritte furono un amore al primo morso. Sì, quelle giganti ostriche del golfo
sono deliziose non solo crude, ma anche fritte.
Bere una birra nella Strada Bourbon è un obbligo. Quando
dico “strada”, dico sul serio. New Orleans e il suo quartiere francese sono
forse l’unico posto negli Stati Uniti dove è consentito il possesso e il
consumo in strada di alcol in contenitori aperti.
I bar di New Orleans sono noti sia agli americani sia ai
turisti stranieri. La maggior parte di quelli frequentati dai turisti sono
nuovi, ma il quartiere ha anche un certo numero di vecchi bar che raccontano
storie interessanti. Entrai in uno di questi e mi sedetti a un tavolinetto
rotondo vicino all’entrata.
Mentre aspettavo lo spuntino, riconobbi sul lato opposto
della strada lo stesso caratteristico balcone sotto il quale avevo indugiato
l’anno precedente. Era stato durante un evento speciale: il carnevale, chiamato
dagli abitanti del luogo “Mardì Gras” (“Martedì Grasso”). Quel balcone era
stato trasformato senza dubbio nel balcone più sfrenato del centro. Lassù, al
secondo piano di questo tipico edificio coloniale, stavano in piedi quattro
ragazze bellissime e altrettanto sexy. Ora appoggiate alla ringhiera ora
muovendosi a ritmo di danza, mantenevano lo sguardo sulla folla sottostante,
una calca cosi` pressata che di più non si sarebbe potuto immaginare. In alto,
al di sopra delle loro spalle un enorme cartello, le cui lettere giganti si
potevano leggere da un centinaio di metri lungo ogni lato di Bourbon Street,
riportava: “La Pattuglia del Seno”.
Ogni pochi minuti ciascuna di loro denudava il seno o,
per dirlo alla maniera locale, “mostrava le sue grazie”, mentre una
incontrollata doccia antigravitazionale di stringhe di perline colorate di
plastica e di vetro cadeva dalla strada fino sopra al balcone. Si tratta di un
gioco generalizzato, che durante il carnevale viene preso molto sul serio. Alla
fine della giornata, vincono le ragazze o le signore le cui tette sono state
più “votate” dal pubblico. Come? I “voti” sono rappresentati dai chili di
collane che ciascuna è riuscita a raccogliere.
Lungo tutta la lunghezza di Bourbon Street e in altre
strade vicine, di tanto in tanto una ragazza veniva invitata da un
rappresentante dell’altro sesso a “mostrare le sue grazie (pretties)”, il che viene anche denominato “flashing”, suppongo perché lo spettacolo, specialmente in passato,
doveva essere molto breve. Si sbottonava con un sorriso la camicetta o si
toglieva la maglietta, raccogliendo le collane dalla folla che ogni volta si
comprimeva all’indietro, per lasciare un piccolo circolo vuoto intorno alla
ragazza, il quale consentisse di vedere al maggior numero di presenti.
Questa tradizione non è di recente invenzione. Dal 1889
esiste documentazione a testimonianza di donne che mostrano i seni durante il
Mardì Gras. In tale occasione, il giornale Times Democrat denunciò «il livello di mancanza di pudore mostrato
da quasi tutte le maschere femminili nelle strade.»
Adesso, coloro che si spogliano non portano maschere.
L’esposizione di parti del corpo non è comunque limitata
alle donne. Di tanto in tanto si vede un pene lampeggiare per un secondo o due,
anche se non ricordo che nessuno gli lanciasse stringhe di perline.
La mia reminiscenza si concluse con un po-boy e un’altra
birra.
Appena entrai in Jackson Square scorsi Peter al riparo dal
sole, sotto un ombrellone, che lasciava in ombra anche parte del tavolino, con
la sua fedele Sadie sdraiata al fresco a lato del tavolo; stava intrattenendo
una quindicina di persone.
“Gente, questa è un’armonica di vetro” lo sentii dire
alzando lo sguardo sul pubblico più vicino, “e, detto per inciso, è uno
strumento cromatico composto da ventisette calici contenenti acqua che
attraversa due ottave e una major second.” Qui non capii proprio nulla.
Proseguì spiegando: “Si suona strofinando le dita bagnate intorno agli orli dei
bicchieri.”
Cominciò a suonare, interrompendo le sue divertenti
osservazioni alcuni istanti. Mi mescolai alla folla.
“Wow! Bellissimo! Affascinante! Eterea! Celestiale!
Questa musica davvero ti entra dentro e ti fa vibrare” commentarono vari
spettatori. La percezione delle persone sensibili arriva spesso vicino al
nocciolo della questione. Molto tempo dopo, lessi che «il timbro predominante
dell’arpa è nella gamma di 1,000-4,000 hertz, che coincide con la gamma di
suoni di cui il cervello “non è del tutto sicuro” e quindi ha difficoltà a
trovare la dimensione spaziale dalla quale proviene, e a determinare
esattamente la fonte del suono... »
Peter continuò il suo divertente colloquio informativo:
“L’arpa di vetro fu inventata dall’irlandese Richard Pockrich, che fece il suo
primo tour attraverso l’Irlanda nel 1741, con una serie di bicchieri di
cristallo accordati ad acqua. Immaginate 260 anni ininterrotti di musica con
calici accordati ad acqua!”
Poi, diede alla folla un’interessante informazione
personale: “Mi ci sono voluti dieci anni per scegliere i bicchieri e certamente
la signorina qui” Peter continuò, sorridendo a una ragazza del pubblico e
proseguendo con il suo enfaticissimo studiato accento, “non ve lo
consiglierebbe. Ho dovuto costruire lo strumento scegliendo fra ben duemila
bicchieri! Ho dovuto bere un bel po’ per poterli scegliere tutti!” Arrivarono
risate e applausi dalla folla.
Poi convogliò l’attenzione dei presenti su un angolo del
tavolino, dietro i bicchieri, su una pila di cassette ordinatamente accatastate
l’una sull’altra: erano registrazioni della sua musica.
Quello era il momento di dirgli che ne volevo acquistare
una. Me la porse e, quando l’ebbi pagata, mentre esaminavo il layout mi disse:
“Devi ricordare una cosa. La cassetta ha… come dire… qualche difetto.” Alcuni
dei presenti si accigliarono.
“Per esempio?” domandai con studiata diffidenza, fiutando
uno dei suoi soliti scherzi.
“Be’, per cominciare non ci sono rumori di macchine che
passano, risate, applausi, nemmeno lo sporadico abbaiare di un cane” disse,
dando un’occhiata istintiva a Sadie, che tuttavia non abbaiava mai. La folla
scoppiò a ridere. Scrosciarono applausi. Altri comprarono la cassetta.
Si deve fare attenzione a
non confondere l’arpa di vetro con
l’armonica di vetro. Quest’ultima, solo marginalmente simile all’arpa di vetro,
fu inventata da Benjamin Franklin 30 anni dopo l’arpa di vetro ed è uno
strumento meccanico di dischi rotanti in cui non si fa uso dell’acqua.
Quello che Franklin scrisse a un suo amico sull’armonica
di vetro può essere applicato anche più appropriatamente all’arpa di vetro:
«I vantaggi di questo strumento sono che le sue note,
insuperabilmente dolci a paragone di qualsiasi altro, possono essere maggiorate
o ammorbidite a piacimento in seguito a una pressione più forte o più debole
delle dita, ed estese a qualsiasi lunghezza… »
Anche se questo può essere in qualche modo vero, la mia
opinione è che l’armonica di vetro, rispetto all’arpa di vetro ha un suono
troppo metallico e non altrettanto puro. A volte sembra un organo, a volte una
marimba. Se il suono dell’armonica di vetro è dolce, quello dell’arpa di vetro
è celestiale.
Per concludere, l’arpa di vetro è l’antenata
dell’armonica di vetro, che è la sua versione meccanica, priva di quel
meraviglioso elemento naturale che è l’acqua. Quest’ultima, diafana al pari del
cristallo, lo fa vibrare in incantevoli note eteree, che, senza che ce ne
rendiamo conto, arrivano a una zona crepuscolare del nostro cervello, per
esplorare nuovi potenziali orizzonti. Non mi sembra cosa di poco conto!
N.d.A. Ho preferito il nome “arpa di vetro” al più
prosaico “bicchieri musicali”. Avrei potuto chiamarla anche “arpa a bicchieri”,
ma il nome risulta meno armonico. In inglese è conosciuta come glass harp, un nome ambiguo che può
significare sia arpa di vetro sia arpa composta da bicchieri. È conosciuta
anche con altri nomi: musical glasses,
singing glasses, angelic organ, verrilion o ghost fiddle.
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