martedì 25 febbraio 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 14: L’ARPA DI VETRO - New Orleans, Louisiana, USA


 L’ARPA DI VETRO - New Orleans, Louisiana, USA


Incontro con Peter Bennet in un campeggio di New Orleans. Gli artisti di Jackson Square. Uno strumento singolare. Note celestiali con caratteristiche sonore dolci ed eteree che non avevo mai sentito prima d’allora. Bourbon Street e Jackson Square, nel French Quarter. I po-boys di New Orleans. Il Mardí Gras. L'arpa di vetro e l'armonica di vetro.



Rovistai nelle tasche dei pantaloni. Tirai fuori la borsa di plastica, la rovesciai con la mano sinistra e, dopo essermi assicurato che non ci fossero buchi, cominciai a raccogliere gli escrementi di Pacal. Sentii il consueto calore attraverso la sottile protezione della plastica. Rovesciai di nuovo la borsa, feci un paio di nodi nella parte superiore e la passai nella mano destra infilando l’indice negli occhielli per trasportarla. Non dovevo andare lontano per trovare un luogo adatto dove gettarla. Solo trenta metri più in là, il custode del campeggio aveva sistemato un grande bidone della spazzatura, il quale, colpito dalla borsa fece rimbalzare dal fondo metallico vuoto una inattesa bassa nota musicale.

Con la coda dell’occhio, scorsi un cane più piccolo del nostro scodinzolare poco lontano, anche lui privo di guinzaglio. Pacal si era già mosso per andargli incontro.

“Sadie. Il suo nome è Sadie” ripeté una voce maschile dietro le mie spalle. “E io sono Peter. Peter Bennett” disse l’uomo, porgendomi la destra.

Oltre al nostro amico italiano Romano, che per lo più viveva nell’appartamento della sua ragazza americana e veniva a dare un’occhiata al suo camper in fondo al campeggio solo un paio di volte la settimana, quell’inverno c’erano solo tre o quattro ospiti nel campeggio. Uno di loro era Peter. Alto, sulla sessantina, con un viso magro e allungato e gli occhi piccoli, incorniciati da un paio di occhialetti da vista, con una lunga barba bianca fluente e una bandana rossa in testa, a prima vista si sarebbe potuto scambiare per il mago Merlino. O anche per un senzatetto. Ma era tutt’altro che un senzatetto. Viveva a pochi passi dalla piscina, in un camper che condivideva con Sadie, un piccolo pastore australiano bianco e nero.

“Cosa ci fai qui?” chiesi, notando che il suo accento era americano ma non di New Orleans.

“Faccio la stagione qui, in Jackson Square.”

“Sei un artista?” domandai, sapendo bene che quella piazza pullulava sempre di artisti di ogni genere. C’erano ritrattisti, caricaturisti, pittori, musicisti, cartomanti, chiromanti, mimi, giocolieri e altri artisti ambulanti. Più di una volta mi ero fermato alle spalle di una particolare ritrattista, la quale non era solo un’artista di straordinario talento, ma anche una grande intrattenitrice.


Bourbon Street, la spina dorsale del centro storico, che cominciava a pochi passi dalla Piazza Jackson, conservava ancora tutto il suo antico sapore francese. A volte, durante il giorno, ma soprattutto nel tardo pomeriggio e la notte, all’angolo con una strada laterale, si udivano le note di un clarinetto o della tromba di un musicista ambulante. Tutti questi artisti vivono delle mance dei passanti.

Più di una volta, dopo essermi fermato, assolutamente affascinato, ad ascoltare repertori di jazz suonati con singolare bravura, mi era passato per la mente che non avevano nulla da invidiare alle famose celebrità che partecipano al Festival Annuale Del Jazz Di New Orleans.

“Conosco bene Jackson Square” dissi, “dov’è il tuo posto?”

“La maggior parte delle volte mi metto davanti alla cattedrale.” Nel frattempo eravamo arrivati vicino al suo camper. Fuori, c’era un tavolino.

“Questo è il mio tavolo per le prove e questo è lo strumento che suono.”

Diedi un’occhiata sul tavolo, ma non vidi nessuno strumento musicale; solo moltissimi bicchieri da vino di forme diverse. Alcuni erano pieni d’acqua quasi fino all’orlo, altri tre quarti, altri ancora un terzo.

“Avvicinati” disse, “faremo un po’ di prove. Io suono e tu mi accompagni.”

“Scusa, ma non suono nessuno strumento... anche se ce ne fosse uno a portata di mano.”

“Ma è proprio lì di fronte a te! Questo è uno dei diciotto strumenti che suono. Ed è anche quello che preferisco. Si chiama arpa di vetro.”

Poi, senza preavviso, afferrò il mio dito indice e lo immerse nell’acqua di una bacinella che si trovava in un angolo del tavolo. Indi lo asciugò con un panno. Deve aver notato il mio sguardo perplesso, perché aggiunse:

“È per toglierti la sostanza oleosa dalla pelle. Ora puoi suonare.”

A questo punto non sapevo se dicesse sul serio o stesse scherzando, ma non ebbi il tempo di valutare la situazione. Peter guidò il mio indice sull’orlo di uno dei bicchieri più grandi e, conducendolo tutto intorno alla circonferenza, disse: “Così va bene, continua ad accarezzare il bordo con la stessa pressione del dito.”

Trasalii. Una lunghissima nota uscì da sotto il dito e si diffuse intorno. Aveva un che di misterioso. Non c’era dubbio che uscisse dall’orlo del bicchiere, eppure non ne ero troppo sicuro. Era qualcosa di celestiale, con caratteristiche sonore dolci ed eteree che non avevo mai sentito prima d’allora.

Peter si ripulì le dita dalla stessa patina oleosa e cominciò a muovere le mani sui bordi dei bicchieri, accarezzandoli come le corde di un’arpa. Venticinque bicchieri, a dir poco. Ne uscì una melodia che riconobbi subito come When the Saints go marching in. Ero allibito.

“Sai” disse infine, “posso riprodurre anche musica classica. La forma di ogni bicchiere e la quantità d’acqua all’interno di ciascuno genera una nota diversa.”

“Che bellezza!” esclamai “Non ho mai sentito uno strumento con un suono così dolcemente penetrante. Risuona dentro l’anima.”

Mi spiegò che al momento c’erano circa dodici persone al mondo che suonavano quello strumento, ma che solo due lo facevano per guadagnarsi da vivere. Lui era una di quelle due.

Poi mi sorprese un’altra volta quando cominciò a fischiare.

“Come diavolo hai fatto a imparare a fischiare in quel modo? È stupendo. Grazie per aver condiviso con me tutte queste cose. Ne hai fatto un mattino pieno di emozioni!”

“Appartengo a un club di fischiatori professionisti. Qualche volta fischio anche in Jackson Square, di fronte ai clienti.”

Così appresi che Peter era anche un fischiatore pluripremiato.

“Uno di questi giorni venite a farmi visita a Jackson Square” disse, includendo Patrizia che era appena arrivata.

“Verremo di sicuro.”

“Di solito mi trovate vicino al giardinetto di fronte alla cattedrale, al di là della piazzetta. Avrò qualcosa per voi, là, sul tavolino.”

“Come hai cominciato, Peter?” chiesi.

“Suonavo già da tempo questo strumento. Dopo il divorzio da mia moglie mi sono messo in viaggio con Sadie, dirigendomi verso Key West, in Florida. Non ci misi molto a capire che la maggior parte della gente non è tanto interessata ad ascoltare la musica, quanto a essere intrattenuta con storie e aneddoti sulla musica. Devo dire che non mi lasciai demoralizzare dalle magre mance iniziali. Infine, decisi che non mi rimaneva altro che imparare a intrattenere la gente. In verità, devo ammettere che ci sono voluti cinque o sei anni di pratica per raggiungere il mio obiettivo.”

Continuò col raccontarmi dove aveva suonato la sua arpa di vetro negli Stati Uniti e le difficoltà che aveva incontrato in alcune città. Alla fine, arrivò a New Orleans.

“Una città affascinante per artisti di ogni genere” dissi. “Passeggiando per Bourbon Street, non si sa mai in chi ci si possa imbattere. Una volta, da dietro un angolo quasi mi venne addosso un tipo vestito da vampiro. Cominciava l’imbrunire, ma non era carnevale. Ne ho visti altri due. Si ha l’impressione che qualcuno di loro creda veramente di essere un vampiro. Una volta poi mi sono imbattuto in un musicista, a un angolo di questa stessa strada, che suonava lo strumento più singolare che abbia mai visto: una sega! La suonava con un arco di violino dalla parte non dentellata. Anche il suono che emetteva era singolare, molto inquietante. Potrebbe perfino assomigliare al suono di un UFO in arrivo... A volte sembrano voci umane... Credimi, un’Ave Maria suonata alla sega è davvero una sonata unica.”

Mi venne spontaneo aggiungere: “Che duetto spettacolare sarebbe sentire suonare un’arpa di vetro accompagnata da una sega!”

“Non dirmi che hai visto quel tipo qui a New Orleans! Io non l’ho mai visto suonare qui, ma sulla strada principale di Santa Cruz, in California, c’è una statua di bronzo a grandezza naturale di questo suonatore, che era passato di là alcuni anni prima. Quella è l’unica città che ospita una statua di un suonatore ambulante.”

“Forse New Orleans onorerà te con la seconda!”

“Ne dubito. Per più di un secolo i musicisti ambulanti hanno continuato a stabilirsi nella piazza, ma i residenti del vicinato hanno cercato spesso di farli allontanare; il che, comunque, non durò mai a lungo.”

La conversazione era stata piacevole. La prossima volta che sarei andato in centro avrei di certo fatto un salto in Jackson Square per fare una visita a Peter.

Qualche giorno più tardi, da Canal Street, a due passi dal fiume Mississippi dove ero sceso dal tram, proseguii a piedi lungo Bourbon Street, la spina dorsale del quartiere francese (French Quarter) verso Jackson Square. Bourbon Street è una strada pittoresca, famosa per l’abbondanza degli stili architettonici unici negli Stati Uniti: revival greco, americano coloniale, stile vittoriano del tempo della Regina Anna e architettura in stile italiano, riflettono le radici storiche della città e il suo patrimonio multiculturale. Notevoli sono le case creole, su ciascun lato della strada con cortili ornati di piante rampicanti e fiori e balconi in ferro battuto. Un buon numero di queste case è stato trasformato in ristoranti e locali notturni.

Era circa mezzogiorno e l’odore invitante del cibo che usciva dalle prese d’aria sopra le porte dei ristoranti, convogliato appositamente sul marciapiede per adescare il passante, cominciava ad aggredire piacevolmente i miei sensi. Decisi di mangiare un po-boy e di bere una birra prima di andare a far visita a Peter in Jackson Square.

Ah, i po-boys di New Orleans (“po” sta per “poor, povero”, perché in origine era, appunto, il cibo dei ragazzi poveri)... Questo panino dalla forma di un nautilus, una tradizione tipica della Louisiana, consiste quasi sempre di carne, di solito manzo arrosto, o pesce fritto. La carne viene servita sul nautilus, ovvero una baguette di pane stile francese, nota per la sua crosta croccante e l’interno morbido.

La prima volta che sentii nominare i “po-boys con ostriche fritte” non potei fare a meno di sorridere. Di tutte le cose, le ostriche fritte! Non offrite a un palato europeo ostriche fritte! È un anatema. Almeno, così credevo, trovandomi ancora sotto l’incantesimo di un condizionamento mentale. Fino a quando le assaggiai. I po-boys con le ostriche fritte furono un amore al primo morso. Sì, quelle giganti ostriche del golfo sono deliziose non solo crude, ma anche fritte.

Bere una birra nella Strada Bourbon è un obbligo. Quando dico “strada”, dico sul serio. New Orleans e il suo quartiere francese sono forse l’unico posto negli Stati Uniti dove è consentito il possesso e il consumo in strada di alcol in contenitori aperti.


I bar di New Orleans sono noti sia agli americani sia ai turisti stranieri. La maggior parte di quelli frequentati dai turisti sono nuovi, ma il quartiere ha anche un certo numero di vecchi bar che raccontano storie interessanti. Entrai in uno di questi e mi sedetti a un tavolinetto rotondo vicino all’entrata.

Mentre aspettavo lo spuntino, riconobbi sul lato opposto della strada lo stesso caratteristico balcone sotto il quale avevo indugiato l’anno precedente. Era stato durante un evento speciale: il carnevale, chiamato dagli abitanti del luogo “Mardì Gras” (“Martedì Grasso”). Quel balcone era stato trasformato senza dubbio nel balcone più sfrenato del centro. Lassù, al secondo piano di questo tipico edificio coloniale, stavano in piedi quattro ragazze bellissime e altrettanto sexy. Ora appoggiate alla ringhiera ora muovendosi a ritmo di danza, mantenevano lo sguardo sulla folla sottostante, una calca cosi` pressata che di più non si sarebbe potuto immaginare. In alto, al di sopra delle loro spalle un enorme cartello, le cui lettere giganti si potevano leggere da un centinaio di metri lungo ogni lato di Bourbon Street, riportava: “La Pattuglia del Seno”.

Ogni pochi minuti ciascuna di loro denudava il seno o, per dirlo alla maniera locale, “mostrava le sue grazie”, mentre una incontrollata doccia antigravitazionale di stringhe di perline colorate di plastica e di vetro cadeva dalla strada fino sopra al balcone. Si tratta di un gioco generalizzato, che durante il carnevale viene preso molto sul serio. Alla fine della giornata, vincono le ragazze o le signore le cui tette sono state più “votate” dal pubblico. Come? I “voti” sono rappresentati dai chili di collane che ciascuna è riuscita a raccogliere.

Lungo tutta la lunghezza di Bourbon Street e in altre strade vicine, di tanto in tanto una ragazza veniva invitata da un rappresentante dell’altro sesso a “mostrare le sue grazie (pretties)”, il che viene anche denominato “flashing”, suppongo perché lo spettacolo, specialmente in passato, doveva essere molto breve. Si sbottonava con un sorriso la camicetta o si toglieva la maglietta, raccogliendo le collane dalla folla che ogni volta si comprimeva all’indietro, per lasciare un piccolo circolo vuoto intorno alla ragazza, il quale consentisse di vedere al maggior numero di presenti.

Questa tradizione non è di recente invenzione. Dal 1889 esiste documentazione a testimonianza di donne che mostrano i seni durante il Mardì Gras. In tale occasione, il giornale Times Democrat denunciò «il livello di mancanza di pudore mostrato da quasi tutte le maschere femminili nelle strade.»

Adesso, coloro che si spogliano non portano maschere.

L’esposizione di parti del corpo non è comunque limitata alle donne. Di tanto in tanto si vede un pene lampeggiare per un secondo o due, anche se non ricordo che nessuno gli lanciasse stringhe di perline.

La mia reminiscenza si concluse con un po-boy e un’altra birra.

Appena entrai in Jackson Square scorsi Peter al riparo dal sole, sotto un ombrellone, che lasciava in ombra anche parte del tavolino, con la sua fedele Sadie sdraiata al fresco a lato del tavolo; stava intrattenendo una quindicina di persone.

“Gente, questa è un’armonica di vetro” lo sentii dire alzando lo sguardo sul pubblico più vicino, “e, detto per inciso, è uno strumento cromatico composto da ventisette calici contenenti acqua che attraversa due ottave e una major second.” Qui non capii proprio nulla. Proseguì spiegando: “Si suona strofinando le dita bagnate intorno agli orli dei bicchieri.”

Cominciò a suonare, interrompendo le sue divertenti osservazioni alcuni istanti. Mi mescolai alla folla.

“Wow! Bellissimo! Affascinante! Eterea! Celestiale! Questa musica davvero ti entra dentro e ti fa vibrare” commentarono vari spettatori. La percezione delle persone sensibili arriva spesso vicino al nocciolo della questione. Molto tempo dopo, lessi che «il timbro predominante dell’arpa è nella gamma di 1,000-4,000 hertz, che coincide con la gamma di suoni di cui il cervello “non è del tutto sicuro” e quindi ha difficoltà a trovare la dimensione spaziale dalla quale proviene, e a determinare esattamente la fonte del suono... »

Peter continuò il suo divertente colloquio informativo: “L’arpa di vetro fu inventata dall’irlandese Richard Pockrich, che fece il suo primo tour attraverso l’Irlanda nel 1741, con una serie di bicchieri di cristallo accordati ad acqua. Immaginate 260 anni ininterrotti di musica con calici accordati ad acqua!”

Poi, diede alla folla un’interessante informazione personale: “Mi ci sono voluti dieci anni per scegliere i bicchieri e certamente la signorina qui” Peter continuò, sorridendo a una ragazza del pubblico e proseguendo con il suo enfaticissimo studiato accento, “non ve lo consiglierebbe. Ho dovuto costruire lo strumento scegliendo fra ben duemila bicchieri! Ho dovuto bere un bel po’ per poterli scegliere tutti!” Arrivarono risate e applausi dalla folla.

Poi convogliò l’attenzione dei presenti su un angolo del tavolino, dietro i bicchieri, su una pila di cassette ordinatamente accatastate l’una sull’altra: erano registrazioni della sua musica.

Quello era il momento di dirgli che ne volevo acquistare una. Me la porse e, quando l’ebbi pagata, mentre esaminavo il layout mi disse: “Devi ricordare una cosa. La cassetta ha… come dire… qualche difetto.” Alcuni dei presenti si accigliarono.

“Per esempio?” domandai con studiata diffidenza, fiutando uno dei suoi soliti scherzi.

“Be’, per cominciare non ci sono rumori di macchine che passano, risate, applausi, nemmeno lo sporadico abbaiare di un cane” disse, dando un’occhiata istintiva a Sadie, che tuttavia non abbaiava mai. La folla scoppiò a ridere. Scrosciarono applausi. Altri comprarono la cassetta.

Si deve fare attenzione a non confondere l’arpa di vetro con l’armonica di vetro. Quest’ultima, solo marginalmente simile all’arpa di vetro, fu inventata da Benjamin Franklin 30 anni dopo l’arpa di vetro ed è uno strumento meccanico di dischi rotanti in cui non si fa uso dell’acqua.



Quello che Franklin scrisse a un suo amico sull’armonica di vetro può essere applicato anche più appropriatamente all’arpa di vetro:

«I vantaggi di questo strumento sono che le sue note, insuperabilmente dolci a paragone di qualsiasi altro, possono essere maggiorate o ammorbidite a piacimento in seguito a una pressione più forte o più debole delle dita, ed estese a qualsiasi lunghezza… »

Anche se questo può essere in qualche modo vero, la mia opinione è che l’armonica di vetro, rispetto all’arpa di vetro ha un suono troppo metallico e non altrettanto puro. A volte sembra un organo, a volte una marimba. Se il suono dell’armonica di vetro è dolce, quello dell’arpa di vetro è celestiale.

Per concludere, l’arpa di vetro è l’antenata dell’armonica di vetro, che è la sua versione meccanica, priva di quel meraviglioso elemento naturale che è l’acqua. Quest’ultima, diafana al pari del cristallo, lo fa vibrare in incantevoli note eteree, che, senza che ce ne rendiamo conto, arrivano a una zona crepuscolare del nostro cervello, per esplorare nuovi potenziali orizzonti. Non mi sembra cosa di poco conto!



N.d.A. Ho preferito il nome “arpa di vetro” al più prosaico “bicchieri musicali”. Avrei potuto chiamarla anche “arpa a bicchieri”, ma il nome risulta meno armonico. In inglese è conosciuta come glass harp, un nome ambiguo che può significare sia arpa di vetro sia arpa composta da bicchieri. È conosciuta anche con altri nomi: musical glasses, singing glasses, angelic organ, verrilion o ghost fiddle.


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