mercoledì 15 gennaio 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 9 Il lavapentole di Francoforte - Germania



 IL LAVAPENTOLE DI FRANCOFORTE-Germania

Si può trasformare in “arte” un lavoro normalmente noioso? Un ristorante da ottocento posti. La signora Utero, Herr Günther (immer denken) e Herr Pommer. La mia prima parolaccia in tedesco: “Scheiße” (merda!). In due settimane faccio fuori più di una dozzine di guanti. Il gran capo scende in cucina per indagare su questo mistero. Dove getto la misera razione di pollo. Far brillare le pentole? Una cameriera consiglia Patrizia di fissare un appuntamento con il Dr Shaeffer, un archeologo di fama mondiale.



Mentre questo racconto non ha niente a che vedere con la ricerca archeologica a cui ho fatto cenno precedentemente e che continuerò a trattare nella storia seguente, una fortunata coincidenza che si materializzò nel ristorante che fa da sfondo a questo racconto, riaccese la nostra speranza di trovare conferme ufficiali sul dilemma archeologico del muro di Troia.

Dopo un mese di lavoro nella pizzeria, io e Patrizia convenimmo di dover cercare un lavoro più consono ai nostri progetti. Mentre scorrevo gli annunci sui giornali, la mia attenzione fu attratta da una versione riveduta del mio primo amore australiano. Lavare i piatti era la versione australiana. Quella tedesca era lavare pentole: solo pentole.


Quando entrai nel ristorante per un’intervista, rimasi a bocca aperta. Non avevo mai visto, prima di allora, un ristorante simile. Sembrava un campo di calcio. In seguito mi informarono dei suoi ottocento posti a sedere!

Al pianterreno un impiegato mi consigliò di presentarmi nell’ufficio di Frau (la signora) Schösser, al sesto piano. Quando ripetei il suo nome, il giovane, dopo avermi lanciato un’occhiata, ebbe un momento d’esitazione, come se volesse aggiungere qualcosa, ma poi rimase in silenzio. Un risolino malizioso gli brillò negli occhi.

Frau Schösser, una distinta signora alta e slanciata, più vicino ai cinquanta che ai quaranta, ancora bella, a suo agio in un impeccabile abito formale blu carta da zucchero, quando indugiai sulla porta, mi venne incontro con aria interrogativa da dietro la scrivania del suo spazioso ufficio, elegante e panoramico, anche se un po’ barocco. Accennando un sorriso, mi fece accomodare e ritornò a sedersi dietro la scrivania.

Quando le spiegai, in inglese, la ragione principale della mia presenza, ovvero di migliorare il livello del mio tedesco orale, si scusò dicendo che, sfortunatamente, il solo lavoro che poteva offrirmi era quello del lavapentole.

“Eccomi qui, pronto a cominciare. L’annuncio era chiaro: offriva solo questo” dichiarai senza indugio.

Appeso sulla parete, alle sue spalle, un cartello di un metro per un metro, incorniciato e sotto vetro, raffigurava una grande piramide di molti gradini. Aguzzando la vista, mi accorsi che i gradini non erano altro che nomi e cognomi di persone! Al vertice c’era il nome di Herr Pommer e nel livello sottostante il nome di due persone, una delle quali era Frau Schösser!

Dopo il colloquio, uscimmo insieme dall’ufficio, prendemmo l’ascensore e arrivammo nelle cucine.

Lo sguardo sorpreso dei cuochi era eloquente: Frau Schösser non si scomodava facilmente per scendere nell’Ade della piramide.


In una cucina più enorme di quella dei castelli delle favole mi presentò a Herr Günther, un uomo sui cinquant’anni, con i capelli che ricoprivano una testa in parte calva e una faccia troppo seria, segnata dalle prime rughe. Mentre gli stringevo la mano, pensai di avere davanti il tedesco più piccolo che avessi mai conosciuto.

Avrei cominciato a lavorare l’indomani mattina alle sei. Prima di andarmene, diedi un’occhiata intorno. La mia prima impressione non coincise con la reputazione di un ristorante tedesco. In verità, benché fosse tedesco, apparteneva a una multimilionaria catena di ristoranti svizzeri dallo stesso nome, che aveva succursali in tutto il Paese. Da uno dei due profondi lavandini di acciaio inossidabile, dell’acqua sporca traboccava sul pavimento, già coperto da due centimetri di schiuma. Un rubinetto aperto, sopra lo stesso lavandino, contrubuiva ad aumentare il livello dell’acqua sulle piastrelle, appena visibili sotto la schiuma.

Era evidente che la valvola di scarico fosse bloccata e che nessuno si fosse preoccupato di stapparla.

Il mattino seguente, alle cinque, presi il tram per il centro. La prima cosa che feci appena entrato in cucina fu stappare la valvola, gesto che fu seguito da un gran sorriso di approvazione da parte di Günther. Con soddisfazione appresi che non parlava una sola parola d’inglese. Non avrò tentazioni di sconfinare nell’inglese, pensai. Questo è il posto ideale per migliorare il mio tedesco. Inoltre, parlava naturalmente in modo lento e pausato. Non avrei potuto chiedere di meglio.


Günther mi passò un grembiule, si sistemò davanti all’enorme lavandino di sinistra, aprì il rubinetto, lo riempì a metà, suggerendomi di fare la stessa cosa con il mio, ma di riempirlo quasi fino all’orlo. Capii che lui avrebbe lavato e io risciacquato.

Cominciò a lavare la prima pentola con un ritmo lento e rilassato. Non mi ci volle molto a capire che, per completare il quadro, mancava solo il sottofondo di una ninna nanna.

Alla mia destra si ergevano due cataste di vassoi sporchi di acciaio inossidabile profondi e massicci da far paura e di dimensioni tali che non avevo mai visto prima di allora, anzi, che non immaginavo esistessero; alcuni, ancora pieni a metà di avanzi di cibo incrostato alle pareti, venivano su dal pavimento fino a un un’altezza superiore alla mia testa. Pentoloni e utensili vari erano sparsi dovunque, qualche metro più lontano.

Günther, con metodo e meticolosità, mi indicava di volta in volta l’ubicazione esatta, sugli scaffali accanto ai lavandini, degli utensili risciacquati, assicurandosi che avessi capito bene: lì non erano permessi errori!

“Questo va qui” diceva, lanciandomi un’occhiata per accertarsi che avessi capito. “E questo va là, tra questo e quello. Capito? Devi appendere utensili come questo su questa parete, così.” Non tardò molto a elargirmi un consiglio che non avrei più dimenticato:

“Perché, vedi” disse con una punta di malcelato orgoglio mentre riponeva sullo scaffale un utensile, “si deve immer denken” il che voleva dire che si deve sempre pensare, per poter fare bene il lavoro.

Dopo pranzo, Günther cambiò posto annunciando: “Ora tu lavi e io risciacquo.” Ero contento. Cominciai a lavare la prima pentola di buona lena, solo per udire Günther osservare: “Piano, piano, non così veloce. Prenditela comoda.”

“Gut. Se lo dice Lei… Lei sa… ” dissi con un certo disappunto, riflettendo che non avremmo mai potuto terminare entro le sedici nemmeno la metà delle pentole, senza contare i vassoi. Inoltre, continuavano ad arrivare altre pentole e utensili vari. Ricordo di aver pensato: Forse vuole lasciare tutta questa roba ai lavapentole degli altri due turni notturni. Bah, trucchi del mestiere!

Il mattino seguente mi presentai al lavoro mezz’ora in anticipo, come suggerivano le disposizioni del ristorante.

La direzione, con l’astuta visione degna di un esperto psicologo del lavoro, aveva escogitato un gran incentivo per garantirsi la puntualità dei lavoratori. Nel caso ci si fosse presentati mezz’ora prima, si avrebbe beneficiato di un’abbondantissima colazione, che ci si serviva da soli, con una varietà di cibo di prima qualità. Questa strategia funzionava alla perfezione perché nessuno dei lavoratori saltò mai una sola colazione, la quale risultò di gran lunga il pasto migliore della giornata. Sontuoso, rispetto agli altri.

Quando entrai nella cucina, ebbi due sorprese poco gradite.

Primo: Günther era impegnato a tagliare l’insalata in un pianale alle mie spalle.

Secondo: c’era una pila di vassoi e pentole, sul pavimento, doppia in altezza rispetto a quella del mattino precedente. Demoralizzato, chiesi a Günther: “Oggi non lavori con me?”

“No” disse, “l’ho fatto ieri solo per insegnarti.”

“E gli altri lavapentole nei due turni notturni? Non si sono presentati al lavoro?”

“Non ci sono altri lavapentole, tranne te, in questo ristorante.”


“Scheiße” (merda!) fu la mia prima reazione. “Questa è schiavitù bella e buona, sfruttamento, violazione dei diritti umani” tuttavia non pronunciai ad alta voce nessuna di queste parole. Nemmeno merda.

Invece mi misi a riflettere. Non c’era verso che avessi potuto lavare tutta quella roba da solo! A meno che… A meno che avessi allenato i muscoli a muoversi a una velocità cinque volte superiore al normale. Esitai ancora, poi presi una decisione: non avevo altra scelta. Mentre Günther avrebbe tagliato l’insalata al suo passo da ninna nanna, io mi sarei fatto il culo. D’improvviso mi attraversò la mente un pensiero confortante: se ce l’avevo fatta con la smerigliatrice nella fabbrica australiana, ce la potevo fare con le pentole. Era un buon test.

Calcolai che mi ci sarebbe voluto almeno un mese per fare il lavoro in meno di otto ore. Mi rassegnai al pensiero che avrei dovuto rinunciare alla pratica di tedesco durante tutto il primo mese. Dopo, però, ci sarebbe stato il premio: ogni momento libero l’avrei impiegato nella caffetteria per parlare con le cameriere che scendevano dal ristorante per il break.

È sorprendente quanto sia più facile raggiungere un obiettivo quando si possieda o ci si crei una forte motivazione. In meno di quindici giorni avevo già sviluppato muscoli sufficienti a garantirmi la totalità del lavoro in quattro ore. Ma forse potevo fare meglio. Mi impegnai al massimo e, alla fine del mese, il risultato fu straordinario: cumulativamente impiegavo due ore, due ore e mezza, a finire il lavoro.

Mi aveva molto facilitato il compito l’aver organizzato il lavoro in modo razionale, secondo i ritmi del ristorante.

Ogni volta che andavo nella caffetteria, mi assicuravo di mantenere i lavandini e il pavimento puliti.

Herr Pommer, il gran capo, scendeva in cucina abbastanza spesso e io lo osservavo dall’esterno della caffetteria ispezionare la cucina, dare un’occhiata ai lavandini e allontanarsi senza commentare.

Fin dal principio, tuttavia, avevo un problema. I guanti in dotazione erano così sottili che a volte, dopo un’ora di lavoro, si bucavano. In media, non duravano più di un giorno. Uno dei venti chef che lavorava nella cucina alle mie spalle mi suggerì di andare a parlare con il supervisore, che doveva averne qualche paio di ricambio.

Mi presentai a una signorina di aspetto gradevole, disinvolta nei suoi jeans azzurri e la sue magliette bianche ricamate, la quale, ogni volta che andavo – il che voleva dire quasi ogni giorno – seguivo con lo sguardo aprire la porta di una credenza chiusa a chiave, in un angolo poco illuminato del corridoio, dalla quale estraeva i miei guanti. Devo dire che fu sempre gentile e disponibile, ma sfortunatamente, dopo meno di due settimane, aveva terminato tutte le riserve. Il medesimo chef mi disse che avrebbe sollevato la questione con Herr Pommer nella riunione giornaliera del tardo pomeriggio.

Il mattino seguente, di buon’ora, Herr Pommer mi onorò con una visita.

Herr Pommer... il gran capo, un uomo di media statura e di una certa corpulenza, doveva da poco aver superato la cinquantina. La carnagione del viso, lucida come la seta, rivaleggiava con la pelle bianco latte di un bambino, ma le guance, costantemente paonazze, suggerivano l’idea di un adolescente sorpreso nell’atto di guardare un film porno. L’impressione di fanciullone ingenuo, e potenzialmente birichino, non veniva mitigata dall’incipiente calvizie. Di questo si incaricava però, almeno in parte, la luce di due occhi di un profondo azzurro che, penetranti e quasi severi, compensavano la primissima impressione generale di giovialità trasmessa da quel viso paffuto, innocuo, di dimensioni superiori al normale. Quegli occhi erano difficili da decifrare. Con la stessa celerità dei semafori, avrebbero potuto segnalare i poli opposti delle sue emozioni: giovialità un istante, collera feroce un altro. Più di una volta mi era balenato in mente che non avrei voluto diventare oggetto di quello sguardo indagatore durante una delle giornaliere assemblee pomeridiane, che dirigeva davanti ai venti cuochi per discutere questioni pratiche sulla gestione del ristorante. Guai a colui contro il quale fosse infuriata la sua collera per errori o negligenza! Eppure, nel suo stato abituale, la sua voce, gradevole e musicale, al confine con il registro baritonale, denotava una calma che sembrava il risultato di una riuscita pratica di autocontrollo. Nell’osservare la sua sagoma da lontano, nella penombra del corridoio che conduceva dalle cucine alla caffetteria, mi resi conto che si muoveva con naturale cautela, quasi in punta di piedi, coi passi felpati di un felino in agguato dietro la sua preda. Quando quella figura emergeva nella luce, si rivelava avvolta da giacca, pantaloni e cravatta, tutti di un identico colore azzurro carta da zucchero. Senza dubbio una personalità che incuteva rispetto e, ai più giovani impiegati, probabilmente timore.

Herr Pommer si trovava adesso in cucina, vicino ai lavandini, proprio davanti a me, come sempre in abito azzurro.

“Ieri sera è stato portato alla mia attenzione che Lei ha già usato più di una dozzina di guanti. Questo non è mai accaduto prima d’ora. A questo ritmo, voglio dire.”

Fui tentato di rispondere che, forse, tutto era direttamente proporzionale ai nuovi ritmi, ma non mi piaceva coinvolgere il buon Günther. Mi tolsi semplicemente uno dei guanti, che aveva due o tre buchi ben visibili; sotto, avevo un altro guanto, con altrettanti buchi, ma in punti diversi. Ripetei l’operazione con l’altra mano.

Questa imprevista dimostrazione di risparmio a favore dell’azienda lo fece ammutolire per un istante. Ma si riprese immediatamente. Con uno sguardo paterno e un sorriso comprensivo, fece un gesto della mano che voleva dire “Non si preoccupi, ci penso io.” Poi aggiunse: “Il rappresentante dei guanti passerà soltanto fra una settimana. Però domani manderò qualcuno a comprarle un paio di guanti migliori. Li acquisteremo direttamente in un negozio.”

Il mattino seguente, Herr Pommer venne di persona in cucina a consegnarmi i guanti. Vidi subito che erano molto spessi. Nel pomeriggio, mi fermò nel corridoio mentre andavo nella caffetteria e mi domandò: “Come vanno i guanti?”

“Alla perfezione!” risposi “Sono proprio quello che ci voleva. Grazie. Apprezzo il suo interesse.”

“Se ha bisogno di qualcosa, la prego di sentirsi libero di venire da me. Va bene?”

“Va bene” assicurai. “Grazie di nuovo.”

Alla fine del mese, nella busta paga trovai un considerevole aumento. Ah, e quei guanti? Ebbene, quell’unico paio di guanti mi durò per i successivi cinque mesi di lavoro!

Dopo aver lavorato una quindicina di giorni, suggerii a Patrizia di presentarsi da Frau Schösser per chiederle se c’era disponibilità di lavoro. Patrizia fu più avventurosa di me e fece tutto il colloquio in tedesco. Le fu dato un lavoro che consisteva nel preparare i caffè e i gelati per le cameriere.

Dopo il primo mese, mi ero organizzato alla perfezione. Dopo colazione, lavoravo come un pazzo per finire il lavoro del mattino per le 9:30. Più che un lavapentole mi sentivo un atleta che si allena per una competizione. Alle 9:30, mi sedevo a un tavolo della caffetteria ad aspettare che le cameriere scendessero dal piano superiore, una alla volta, nel loro intervallo di riposo. Questa divenne una situazione ideale per far pratica di tedesco.

Una piacevole caratteristica del posto di lavoro era che, verso le 9:30, i pasticceri (dodici!), lasciavano un dolce o due per lo staff sul tavolo della caffetteria.

Avevo programmato il lavoro in modo tale da finire appena prima della consegna dei dolci, per potermi tagliare la prima fetta di entrambi. Se il cibo per il personale era di qualità scadente, tranne la colazione, quei dolci erano deliziosi. La pasticceria in Italia è di ottima qualità. Ma, dopo aver gustato una trentina di dolci tedeschi, posso affermare che sono i migliori che io abbia mai gustato, prima e dopo di allora.

Ritornavo in cucina ogni dieci minuti o giù di lì, per controllare la quantità di utensili che erano arrivati in mia assenza. Quando il loro numero superava una certa soglia, lavoravo freneticamente dieci o quindici minuti e poi ritornavo nella caffetteria. Alcune delle cameriere, che mi vedevano seduto là ogni volta che scendevano per il break, cominciarono a chiedermi:

“Come mai sei sempre qui?”

“Perché” rispondevo serio serio, “in questo ristorante non c’è abbastanza lavoro per un lavapentole. Farebbero meglio a impiegarne uno part-time.” Molte, impermeabili alla mia ironia, mi consideravano un po’ spostato.

Il secondo mese, anche Patrizia trovò un aumento nella busta paga; non così inatteso come il mio, però, perché la sua sorvegliante l’aveva avvertita qualche giorno prima. La ragione? Perché era particolarmente “fleißig”, cioè diligente. Presumo che la ragione del mio aumento fosse stata la stessa.

C’era una cosa, però, che rimpiango di non aver fatto al meglio delle mie possibilità: non aver imparato a pronunciare correttamente il nome della seconda in comando, Frau Schösser, appunto. Fin dalla prima volta sentii che c’era qualcosa che non andava con la mia pronuncia, ma nessuno me lo aveva mai detto apertamente. Erano già passati un paio di mesi quando, a uno dei cuochi, durante una breve chiacchierata, appena ebbi pronunciato quel nome scapparono due risatine.

“Perché ridi?” gli chiesi.

“Oh, non è nulla” disse, “è il modo in cui pronunci il nome della signora.”

“Che cosa c’è che non va con la mia pronuncia?”

La chiami regolarmente signora (Frau) Utero!

“Cosa? Spiegati meglio.”

“Be’, il nome si scrive con una umlaut (due puntini) sulla o. Se non pronunci la o in modo corretto, cambi il cognome in utero (schoss).

In realtà quest’ultima parola ha due lettere di meno, è cioè priva delle lettere “er”, ma nella mia pronuncia, sfumata, un po’ all'inglese, io non le pronunciavo.

“Accidenti!” mi scappò detto. “Sentivo che c’era qualcosa che non andava fin dal principio. Ho perfino percepito qualcosa quando ho pronunciato il suo nome nell’intervista con lei. Grazie per avermelo detto. D’ora in poi eviterò ogni ambiguità. La chiamerò Frau SchUsser. Significa qualcosa di brutto?”

“Non che io sappia.”

“È deciso, allora, vada per Frau SchUsser.”

Il terzo mese accadde qualcosa di molto doloroso, su cui nessuno, tanto meno noi, poteva esercitare il benché minimo controllo. Ricevemmo per telefono la bruttta notizia che alla madre di Patrizia era stato diagnosticato un tumore al polmone. Era un enigma, perché non aveva mai fumato e nessuno della famiglia lo aveva mai fatto. Il mese di permesso che chiedemmo per rientrare ci fu concesso subito e Frau Schösser ci rassicurò che, al nostro ritorno, ci avrebbe ridato il lavoro. In effetti, quando ritornammo, cinque settimane più tardi, riprendemmo immediatamente a lavorare come se il tempo non fosse passato.

Tutto sommato, i sei mesi al Mövenpick furono piacevoli. In tutto, tranne il cibo. Le porzioni erano molto scarse e gli alimenti di pessima qualità. Un giorno, mentre la persona incaricata di consegnare il pranzo al personale stava preparando il mio, fui costernato nel constatare che la già misera razione si era ulteriormente assottigliata. Dovevo fare qualcosa. Afferrai il vassoio e, assicurandomi che l’incaricato vedesse quello che stavo facendo, gettai il cibo nel secchio della spazzatura vicino al bancone.

“Non mangerò questa porcheria. La quale, comunque, non mi arriverà nemmeno fino al pomo d’Adamo, tanto è scarsa.”

Ritornai nella caffetteria, sperando di trovarvi ancora qualche rimasuglio di dolce. Non mi fu difficile immaginare che mi sarebbe piovuta addosso una tempesta dalle alte sfere della piramide.

Non erano trascorsi cinque minuti che qualcuno mi disse di ritornare al bancone. Nel momento in cui mi aspettavo un inevitabile licenziamento in tronco, la stessa persona che dispensava il cibo mi disse:

“Vieni qui, Herr Pommer ha detto di darti una porzione più abbondante.”

Herr Pommer? Ero allibito. Come poteva il grande capo occuparsi anche del mio cibo? In ogni modo, mi venne voglia di ridere quando vidi la nuova razione. Era solo un trenta per cento “più abbondante” della precedente. Il pollo, però, aveva un aspetto più attraente del solito. Riflettei sulla buona volontà del gran capo e mi invase una profonda tenerezza.

Mi aveva dato un altro segno di considerazione, aveva fatto un’“eccezione” alla regola per venirmi incontro. Mi aveva gettato un ponte di riconciliazione. Che, però, mi faceva arrossire dentro ogni volta che pensavo alla disparità di trattamento con i colleghi.

Sollevai il vassoio, lo portai nella caffetteria e mangiai il cibo, proponendomi di chiudere un occhio sulla qualità e la scarsità dei pasti seguenti.

Adesso avevo tante ore libere che c’era quasi il rischio di annoiarsi. E se avessi inventato qualcosa per rendere il lavoro più divertente? E anche, perché no, per valutare le reazioni dei compagni di lavoro?

Ecco cosa dovevo fare: riportare, entro la fine del mese seguente, tutte le pentole alla brillantezza e splendore che avevano in origine, appena uscite dalla fabbrica! Per sfruttare al meglio il tempo, dovevo fare attenzione alla frequenza con cui ogni singola pentola arrivava nel corso della giornata. Quelle che arrivavano più volte le avrei lavate normalmente e “restaurate” per ultime, perché sarebbe stato un lavoro da Sisifo rendere brillanti per prime proprio quelle pentole che si risporcavano di fumo varie volte al giorno. Quelle che arrivavano soltanto una volta al giorno, viceversa, dovevano essere “restaurate” per prime. Un auspicabile obiettivo sarebbe stato anche quello di rendere brillanti per primi quegli utensili che, trovandosi in una certa posizione sugli scaffali, si potevano vedere a colpo d’occhio entrando dalla porta della cucina. Ma proprio quando riflettei sulla convenienza di questa strategia mi accorsi con stupore che, attrezzi simili, ristrutturati a nuovo splendore, assomigliavano molto a opere d’arte. È forse vero, come dice l’Autrice, che «nessun artista può essere soddisfatto soltanto della sua arte. Esiste un bisogno disperato di riconoscimento che non può essere negato!»

Una decina di giorni dopo, il mio lavoro fu notato dal primo critico d’arte, un giovane cuoco di origine jugoslava. Un pomeriggio si avvicinò per dirmi: “Tony (così mi chiamavano), non pensi di esagerare?”

“Esagerare in che cosa?” chiesi, fingendo di non capire.

“Voglio dire, tutto questo lavoro in più. È vero, sembrano nuove. Ma ne vale veramente la pena?”

“Se ne vale la pena? Certo! Permettimi di farti una domanda che riguarda il lavoro in questo ristorante: sai qual è il miglior lavoro, qui?” Lui mi rivolse uno sguardo interrogativo, ma non disse nulla.

“Il mio, naturalmente! Almeno, dal mio punto di vista” dissi.

“Come il tuo? E quello delle cameriere, dei cuochi e dei pasticceri?”

“Va bene. So che cosa stai pensando: guadagnano di più” – e lavorano di meno, fui tentato di dire. – “Ma devi considerare anche il mio punto di vista. Ascolta. Devi sapere che, non lontano da dove abito io, c’è una bella baia con due castelli medioevali, proprio sull’acqua, uno a ogni estremità. Tutte le estati viene organizzata un’importante competizione di nuoto da un castello all’altro. Non molto, circa tre chilometri. Che cosa pensi che ci faccia io, qui, in pieno inverno?”

Notai la sua perplessità.

“Non lo immagini? Sto sviluppando i bicipiti per prendere parte alla competizione. Capisci adesso? Sto facendo l’allenamento di base proprio qui, e la cosa sorprendente è che mi pagano per allenarmi! Non sarebbe la stessa cosa se mi avessero dato un lavoro come cameriere o cuoco. Non c’è sviluppo di muscoli in quei lavori!”

Se ne andò scuotendo il capo senza dire una parola. Non potevo biasimarlo.

Patrizia, nel frattempo, aveva fatto amicizia con una delle cameriere, alla quale, dopo qualche tempo riferì la storia del muro di Troia, mostrandole anche le fotografie.

“Qualche tempo fa” disse la ragazza, “frequentai un corso di archeologia con il dr. Schaeffer, cattedratico della Facoltà di Archeologia di Heidelberg. È il migliore in Europa, un’autorità mondiale. Vi suggerisco di andargli a parlare.”

Arrivò l’ultimo giorno di lavoro. Nel pomeriggio, Patrizia fu invitata a scendere in cucina. Mi diede un’occhiata e io le feci un cenno con le braccia aperte, che significava: “Non so che cosa hanno in mente”.

Il capocuoco, uno Svizzero, ordinò un break generale di qualche minuto. In una stanzetta adiacente alla cucina stappò una bottiglia di champagne e Herr Pommer, che apparve per un attimo proprio al momento giusto, ci strinse la mano dicendo, tra le altre cose:

“Ogni volta che deciderete di ritornare a lavorare in questo ristorante, troverete le porte aperte.”




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