IL LAVAPENTOLE DI FRANCOFORTE-Germania
Si può trasformare in “arte” un
lavoro normalmente noioso? Un ristorante da ottocento posti. La signora Utero,
Herr Günther (immer denken) e Herr
Pommer. La mia prima parolaccia in tedesco: “Scheiße” (merda!). In due
settimane faccio fuori più di una
dozzine di guanti. Il gran capo scende in cucina per indagare su questo
mistero. Dove getto la misera razione di pollo. Far brillare le pentole? Una
cameriera consiglia Patrizia di fissare un appuntamento con il Dr Shaeffer,
un archeologo di fama mondiale.
Mentre
questo racconto non ha niente a che vedere con la ricerca
archeologica a cui ho fatto cenno precedentemente e che continuerò a
trattare nella storia seguente, una fortunata coincidenza che si
materializzò nel ristorante che fa da sfondo a questo racconto,
riaccese la nostra speranza di trovare conferme ufficiali sul dilemma
archeologico del muro di Troia.
Dopo
un mese di lavoro nella pizzeria, io e Patrizia convenimmo di dover
cercare un lavoro più consono ai nostri progetti. Mentre scorrevo
gli annunci sui giornali, la mia attenzione fu attratta da una
versione riveduta del mio primo amore australiano. Lavare i piatti
era la versione australiana. Quella tedesca era lavare pentole: solo
pentole.
Quando
entrai nel ristorante per un’intervista, rimasi a bocca aperta. Non
avevo mai visto, prima di allora, un ristorante simile. Sembrava un
campo di calcio. In seguito mi informarono dei suoi ottocento posti a
sedere!
Al
pianterreno un impiegato mi consigliò di presentarmi nell’ufficio
di Frau (la signora) Schösser, al sesto piano. Quando ripetei il suo
nome, il giovane, dopo avermi lanciato un’occhiata, ebbe un momento
d’esitazione, come se volesse aggiungere qualcosa, ma poi rimase in
silenzio. Un risolino malizioso gli brillò negli occhi.
Frau
Schösser, una distinta signora alta e slanciata, più vicino ai
cinquanta che ai quaranta, ancora bella, a suo agio in un impeccabile
abito formale blu carta da zucchero, quando indugiai sulla porta, mi
venne incontro con aria interrogativa da dietro la scrivania del suo
spazioso ufficio, elegante e panoramico, anche se un po’ barocco.
Accennando un sorriso, mi fece accomodare e ritornò a sedersi dietro
la scrivania.
Quando
le spiegai, in inglese, la ragione principale della mia presenza,
ovvero di migliorare il livello del mio tedesco orale, si scusò
dicendo che, sfortunatamente, il solo lavoro che poteva offrirmi era
quello del lavapentole.
“Eccomi
qui, pronto a cominciare. L’annuncio era chiaro: offriva solo
questo” dichiarai senza indugio.
Appeso
sulla parete, alle sue spalle, un cartello di un metro per un metro,
incorniciato e sotto vetro, raffigurava una grande piramide di molti
gradini. Aguzzando la vista, mi accorsi che i gradini non erano altro
che nomi e cognomi di persone! Al vertice c’era il nome di Herr
Pommer e nel livello sottostante il nome di due persone, una delle
quali era Frau Schösser!
Dopo
il colloquio, uscimmo insieme dall’ufficio, prendemmo l’ascensore
e arrivammo nelle cucine.
Lo
sguardo sorpreso dei cuochi era eloquente: Frau Schösser non si
scomodava facilmente per scendere nell’Ade della piramide.
In
una cucina più enorme di quella dei castelli delle favole mi
presentò a Herr Günther, un uomo sui cinquant’anni, con i capelli
che ricoprivano una testa in parte calva e una faccia troppo seria,
segnata dalle prime rughe. Mentre gli stringevo la mano, pensai di
avere davanti il tedesco più piccolo che avessi mai conosciuto.
Avrei
cominciato a lavorare l’indomani mattina alle sei. Prima di
andarmene, diedi un’occhiata intorno. La mia prima impressione non
coincise con la reputazione di un ristorante tedesco. In verità,
benché fosse tedesco, apparteneva a una multimilionaria catena di
ristoranti svizzeri dallo stesso nome, che aveva succursali in tutto
il Paese. Da uno dei due profondi lavandini di acciaio inossidabile,
dell’acqua sporca traboccava sul pavimento, già coperto da due
centimetri di schiuma. Un rubinetto aperto, sopra lo stesso
lavandino, contrubuiva ad aumentare il livello dell’acqua sulle
piastrelle, appena visibili sotto la schiuma.
Era
evidente che la valvola di scarico fosse bloccata e che nessuno si
fosse preoccupato di stapparla.
Il
mattino seguente, alle cinque, presi il tram per il centro. La prima
cosa che feci appena entrato in cucina fu stappare la valvola, gesto
che fu seguito da un gran sorriso di approvazione da parte di
Günther. Con soddisfazione appresi che non parlava una sola parola
d’inglese. Non avrò tentazioni di sconfinare nell’inglese,
pensai. Questo è il posto ideale per migliorare il mio tedesco.
Inoltre, parlava naturalmente in modo lento e pausato. Non avrei
potuto chiedere di meglio.
Günther
mi passò un grembiule, si sistemò davanti all’enorme lavandino di
sinistra, aprì il rubinetto, lo riempì a metà, suggerendomi di
fare la stessa cosa con il mio, ma di riempirlo quasi fino all’orlo.
Capii che lui avrebbe lavato e io risciacquato.
Cominciò
a lavare la prima pentola con un ritmo lento e rilassato. Non mi ci
volle molto a capire che, per completare il quadro, mancava solo il
sottofondo di una ninna nanna.
Alla
mia destra si ergevano due cataste di vassoi sporchi di acciaio
inossidabile profondi e massicci da far paura e di dimensioni tali
che non avevo mai visto prima di allora, anzi, che non immaginavo
esistessero; alcuni, ancora pieni a metà di avanzi di cibo
incrostato alle pareti, venivano su dal pavimento fino a un
un’altezza superiore alla mia testa. Pentoloni e utensili vari
erano sparsi dovunque, qualche metro più lontano.
Günther,
con metodo e meticolosità, mi indicava di volta in volta
l’ubicazione esatta, sugli scaffali accanto ai lavandini, degli
utensili risciacquati, assicurandosi che avessi capito bene: lì non
erano permessi errori!
“Questo
va qui” diceva, lanciandomi un’occhiata per accertarsi che avessi
capito. “E questo va là, tra questo e quello. Capito? Devi
appendere utensili come questo su questa parete, così.” Non tardò
molto a elargirmi un consiglio che non avrei più dimenticato:
“Perché,
vedi” disse con una punta di malcelato orgoglio mentre riponeva
sullo scaffale un utensile, “si deve immer denken” il che
voleva dire che si deve sempre pensare, per poter fare bene il
lavoro.
Dopo
pranzo, Günther cambiò posto annunciando: “Ora tu lavi e io
risciacquo.” Ero contento. Cominciai a lavare la prima pentola di
buona lena, solo per udire Günther osservare: “Piano, piano, non
così veloce. Prenditela comoda.”
“Gut.
Se lo dice Lei… Lei sa… ” dissi con un certo disappunto,
riflettendo che non avremmo mai potuto terminare entro le sedici
nemmeno la metà delle pentole, senza contare i vassoi. Inoltre,
continuavano ad arrivare altre pentole e utensili vari. Ricordo di
aver pensato: Forse vuole lasciare tutta questa roba ai
lavapentole degli altri due turni notturni. Bah, trucchi del
mestiere!
Il
mattino seguente mi presentai al lavoro mezz’ora in anticipo, come
suggerivano le disposizioni del ristorante.
La
direzione, con l’astuta visione degna di un esperto psicologo del
lavoro, aveva escogitato un gran incentivo per garantirsi la
puntualità dei lavoratori. Nel caso ci si fosse presentati mezz’ora
prima, si avrebbe beneficiato di un’abbondantissima colazione, che
ci si serviva da soli, con una varietà di cibo di prima qualità.
Questa strategia funzionava alla perfezione perché nessuno dei
lavoratori saltò mai una sola colazione, la quale risultò di gran
lunga il pasto migliore della giornata. Sontuoso, rispetto agli
altri.
Quando
entrai nella cucina, ebbi due sorprese poco gradite.
Primo:
Günther era impegnato a tagliare l’insalata in un pianale alle mie
spalle.
Secondo:
c’era una pila di vassoi e pentole, sul pavimento, doppia in
altezza rispetto a quella del mattino precedente. Demoralizzato,
chiesi a Günther: “Oggi non lavori con me?”
“No”
disse, “l’ho fatto ieri solo per insegnarti.”
“E
gli altri lavapentole nei due turni notturni? Non si sono presentati
al lavoro?”
“Non
ci sono altri lavapentole, tranne te, in questo ristorante.”
“Scheiße”
(merda!) fu la mia prima reazione. “Questa è schiavitù bella e
buona, sfruttamento, violazione dei diritti umani” tuttavia non
pronunciai ad alta voce nessuna di queste parole. Nemmeno merda.
Invece
mi misi a riflettere. Non c’era verso che avessi potuto lavare
tutta quella roba da solo! A meno che… A meno che avessi allenato i
muscoli a muoversi a una velocità cinque volte superiore al normale.
Esitai ancora, poi presi una decisione: non avevo altra scelta.
Mentre Günther avrebbe tagliato l’insalata al suo passo da ninna
nanna, io mi sarei fatto il culo. D’improvviso mi attraversò la
mente un pensiero confortante: se ce l’avevo fatta con la
smerigliatrice nella fabbrica australiana, ce la potevo fare con le
pentole. Era un buon test.
Calcolai
che mi ci sarebbe voluto almeno un mese per fare il lavoro in meno di
otto ore. Mi rassegnai al pensiero che avrei dovuto rinunciare alla
pratica di tedesco durante tutto il primo mese. Dopo, però, ci
sarebbe stato il premio: ogni momento libero l’avrei impiegato
nella caffetteria per parlare con le cameriere che scendevano dal
ristorante per il break.
È
sorprendente quanto sia più facile raggiungere un obiettivo quando
si possieda o ci si crei una forte motivazione. In meno di quindici
giorni avevo già sviluppato muscoli sufficienti a garantirmi la
totalità del lavoro in quattro ore. Ma forse potevo fare meglio. Mi
impegnai al massimo e, alla fine del mese, il risultato fu
straordinario: cumulativamente impiegavo due ore, due ore e mezza, a
finire il lavoro.
Mi
aveva molto facilitato il compito l’aver organizzato il lavoro in
modo razionale, secondo i ritmi del ristorante.
Ogni
volta che andavo nella caffetteria, mi assicuravo di mantenere i
lavandini e il pavimento puliti.
Herr
Pommer, il gran capo, scendeva in cucina abbastanza spesso e io lo
osservavo dall’esterno della caffetteria ispezionare la cucina,
dare un’occhiata ai lavandini e allontanarsi senza commentare.
Fin
dal principio, tuttavia, avevo un problema. I guanti in dotazione
erano così sottili che a volte, dopo un’ora di lavoro, si
bucavano. In media, non duravano più di un giorno. Uno dei venti
chef che lavorava nella cucina alle mie spalle mi suggerì di andare
a parlare con il supervisore, che doveva averne qualche paio di
ricambio.
Mi
presentai a una signorina di aspetto gradevole, disinvolta nei suoi
jeans azzurri e la sue magliette bianche ricamate, la quale, ogni
volta che andavo – il che voleva dire quasi ogni giorno – seguivo
con lo sguardo aprire la porta di una credenza chiusa a chiave, in un
angolo poco illuminato del corridoio, dalla quale estraeva i miei
guanti. Devo dire che fu sempre gentile e disponibile, ma
sfortunatamente, dopo meno di due settimane, aveva terminato tutte le
riserve. Il medesimo chef mi disse che avrebbe sollevato la questione
con Herr Pommer nella riunione giornaliera del tardo pomeriggio.
Il
mattino seguente, di buon’ora, Herr Pommer mi onorò con una
visita.
Herr
Pommer... il gran capo, un uomo di media statura e di una certa
corpulenza, doveva da poco aver superato la cinquantina. La
carnagione del viso, lucida come la seta, rivaleggiava con la pelle
bianco latte di un bambino, ma le guance, costantemente paonazze,
suggerivano l’idea di un adolescente sorpreso nell’atto di
guardare un film porno. L’impressione di fanciullone ingenuo, e
potenzialmente birichino, non veniva mitigata dall’incipiente
calvizie. Di questo si incaricava però, almeno in parte, la luce di
due occhi di un profondo azzurro che, penetranti e quasi severi,
compensavano la primissima impressione generale di giovialità
trasmessa da quel viso paffuto, innocuo, di dimensioni superiori al
normale. Quegli occhi erano difficili da decifrare. Con la stessa
celerità dei semafori, avrebbero potuto segnalare i poli opposti
delle sue emozioni: giovialità un istante, collera feroce un altro.
Più di una volta mi era balenato in mente che non avrei voluto
diventare oggetto di quello sguardo indagatore durante una delle
giornaliere assemblee pomeridiane, che dirigeva davanti ai venti
cuochi per discutere questioni pratiche sulla gestione del
ristorante. Guai a colui contro il quale fosse infuriata la sua
collera per errori o negligenza! Eppure, nel suo stato abituale, la
sua voce, gradevole e musicale, al confine con il registro
baritonale, denotava una calma che sembrava il risultato di una
riuscita pratica di autocontrollo. Nell’osservare la sua sagoma da
lontano, nella penombra del corridoio che conduceva dalle cucine alla
caffetteria, mi resi conto che si muoveva con naturale cautela, quasi
in punta di piedi, coi passi felpati di un felino in agguato dietro
la sua preda. Quando quella figura emergeva nella luce, si rivelava
avvolta da giacca, pantaloni e cravatta, tutti di un identico colore
azzurro carta da zucchero. Senza dubbio una personalità che incuteva
rispetto e, ai più giovani impiegati, probabilmente timore.
Herr
Pommer si trovava adesso in cucina, vicino ai lavandini, proprio
davanti a me, come sempre in abito azzurro.
“Ieri
sera è stato portato alla mia attenzione che Lei ha già usato più
di una dozzina di guanti. Questo non è mai accaduto prima d’ora. A
questo ritmo, voglio dire.”
Fui
tentato di rispondere che, forse, tutto era direttamente
proporzionale ai nuovi ritmi, ma non mi piaceva coinvolgere il buon
Günther. Mi tolsi semplicemente uno dei guanti, che aveva due o tre
buchi ben visibili; sotto, avevo un altro guanto, con altrettanti
buchi, ma in punti diversi. Ripetei l’operazione con l’altra
mano.
Questa
imprevista dimostrazione di risparmio a favore dell’azienda lo fece
ammutolire per un istante. Ma si riprese immediatamente. Con uno
sguardo paterno e un sorriso comprensivo, fece un gesto della mano
che voleva dire “Non si preoccupi, ci penso io.” Poi aggiunse:
“Il rappresentante dei guanti passerà soltanto fra una settimana.
Però domani manderò qualcuno a comprarle un paio di guanti
migliori. Li acquisteremo direttamente in un negozio.”
Il
mattino seguente, Herr Pommer venne di persona in cucina a
consegnarmi i guanti. Vidi subito che erano molto spessi. Nel
pomeriggio, mi fermò nel corridoio mentre andavo nella caffetteria e
mi domandò: “Come vanno i guanti?”
“Alla
perfezione!” risposi “Sono proprio quello che ci voleva. Grazie.
Apprezzo il suo interesse.”
“Se
ha bisogno di qualcosa, la prego di sentirsi libero di venire da me.
Va bene?”
“Va
bene” assicurai. “Grazie di nuovo.”
Alla
fine del mese, nella busta paga trovai un considerevole aumento. Ah,
e quei guanti? Ebbene, quell’unico paio di guanti mi durò per i
successivi cinque mesi di lavoro!
Dopo
aver lavorato una quindicina di giorni, suggerii a Patrizia di
presentarsi da Frau Schösser per chiederle se c’era disponibilità
di lavoro. Patrizia fu più avventurosa di me e fece tutto il
colloquio in tedesco. Le fu dato un lavoro che consisteva nel
preparare i caffè e i gelati per le cameriere.
Dopo
il primo mese, mi ero organizzato alla perfezione. Dopo colazione,
lavoravo come un pazzo per finire il lavoro del mattino per le 9:30.
Più che un lavapentole mi sentivo un atleta che si allena per una
competizione. Alle 9:30, mi sedevo a un tavolo della caffetteria ad
aspettare che le cameriere scendessero dal piano superiore, una alla
volta, nel loro intervallo di riposo. Questa divenne una situazione
ideale per far pratica di tedesco.
Una
piacevole caratteristica del posto di lavoro era che, verso le 9:30,
i pasticceri (dodici!), lasciavano un dolce o due per lo staff sul
tavolo della caffetteria.
Avevo
programmato il lavoro in modo tale da finire appena prima della
consegna dei dolci, per potermi tagliare la prima fetta di entrambi.
Se il cibo per il personale era di qualità scadente, tranne la
colazione, quei dolci erano deliziosi. La pasticceria in Italia è di
ottima qualità. Ma, dopo aver gustato una trentina di dolci
tedeschi, posso affermare che sono i migliori che io abbia mai
gustato, prima e dopo di allora.
Ritornavo
in cucina ogni dieci minuti o giù di lì, per controllare la
quantità di utensili che erano arrivati in mia assenza. Quando il
loro numero superava una certa soglia, lavoravo freneticamente dieci
o quindici minuti e poi ritornavo nella caffetteria. Alcune delle
cameriere, che mi vedevano seduto là ogni volta che scendevano per
il break, cominciarono a chiedermi:
“Come
mai sei sempre qui?”
“Perché”
rispondevo serio serio, “in questo ristorante non c’è abbastanza
lavoro per un lavapentole. Farebbero meglio a impiegarne uno
part-time.” Molte, impermeabili alla mia ironia, mi consideravano
un po’ spostato.
Il
secondo mese, anche Patrizia trovò un aumento nella busta paga; non
così inatteso come il mio, però, perché la sua sorvegliante
l’aveva avvertita qualche giorno prima. La ragione? Perché era
particolarmente “fleißig”, cioè diligente. Presumo che la
ragione del mio aumento fosse stata la stessa.
C’era
una cosa, però, che rimpiango di non aver fatto al meglio delle mie
possibilità: non aver imparato a pronunciare correttamente il nome
della seconda in comando, Frau Schösser, appunto. Fin dalla prima
volta sentii che c’era qualcosa che non andava con la mia
pronuncia, ma nessuno me lo aveva mai detto apertamente. Erano già
passati un paio di mesi quando, a uno dei cuochi, durante una breve
chiacchierata, appena ebbi pronunciato quel nome scapparono due
risatine.
“Perché
ridi?” gli chiesi.
“Oh,
non è nulla” disse, “è il modo in cui pronunci il nome della
signora.”
“Che
cosa c’è che non va con la mia pronuncia?”
La
chiami regolarmente signora (Frau) Utero!
“Cosa?
Spiegati meglio.”
“Be’,
il nome si scrive con una umlaut (due puntini) sulla o. Se non
pronunci la o in modo corretto, cambi il cognome in utero
(schoss).”
In
realtà quest’ultima parola ha due lettere di meno, è cioè priva
delle lettere “er”, ma nella mia pronuncia, sfumata, un po’
all'inglese, io non le pronunciavo.
“Accidenti!”
mi scappò detto. “Sentivo che c’era qualcosa che non andava fin
dal principio. Ho perfino percepito qualcosa quando ho pronunciato il
suo nome nell’intervista con lei. Grazie per avermelo detto. D’ora
in poi eviterò ogni ambiguità. La chiamerò Frau SchUsser.
Significa qualcosa di brutto?”
“Non
che io sappia.”
“È
deciso, allora, vada per Frau SchUsser.”
Il
terzo mese accadde qualcosa di molto doloroso, su cui nessuno, tanto
meno noi, poteva esercitare il benché minimo controllo. Ricevemmo
per telefono la bruttta notizia che alla madre di Patrizia era stato
diagnosticato un tumore al polmone. Era un enigma, perché non aveva
mai fumato e nessuno della famiglia lo aveva mai fatto. Il mese di
permesso che chiedemmo per rientrare ci fu concesso subito e Frau
Schösser ci rassicurò che, al nostro ritorno, ci avrebbe ridato il
lavoro. In effetti, quando ritornammo, cinque settimane più tardi,
riprendemmo immediatamente a lavorare come se il tempo non fosse
passato.
Tutto
sommato, i sei mesi al Mövenpick furono piacevoli. In tutto, tranne
il cibo. Le porzioni erano molto scarse e gli alimenti di pessima
qualità. Un giorno, mentre la persona incaricata di consegnare il
pranzo al personale stava preparando il mio, fui costernato nel
constatare che la già misera razione si era ulteriormente
assottigliata. Dovevo fare qualcosa. Afferrai il vassoio e,
assicurandomi che l’incaricato vedesse quello che stavo facendo,
gettai il cibo nel secchio della spazzatura vicino al bancone.
“Non
mangerò questa porcheria. La quale, comunque, non mi arriverà
nemmeno fino al pomo d’Adamo, tanto è scarsa.”
Ritornai
nella caffetteria, sperando di trovarvi ancora qualche rimasuglio di
dolce. Non mi fu difficile immaginare che mi sarebbe piovuta addosso
una tempesta dalle alte sfere della piramide.
Non
erano trascorsi cinque minuti che qualcuno mi disse di ritornare al
bancone. Nel momento in cui mi aspettavo un inevitabile licenziamento
in tronco, la stessa persona che dispensava il cibo mi disse:
“Vieni
qui, Herr Pommer ha detto di darti una porzione più abbondante.”
Herr
Pommer? Ero allibito. Come poteva il grande capo occuparsi anche del
mio cibo? In ogni modo, mi venne voglia di ridere quando vidi la
nuova razione. Era solo un trenta per cento “più abbondante”
della precedente. Il pollo, però, aveva un aspetto più attraente
del solito. Riflettei sulla buona volontà del gran capo e mi invase
una profonda tenerezza.
Mi
aveva dato un altro segno di considerazione, aveva fatto
un’“eccezione” alla regola per venirmi incontro. Mi aveva
gettato un ponte di riconciliazione. Che, però, mi faceva arrossire
dentro ogni volta che pensavo alla disparità di trattamento con i
colleghi.
Sollevai
il vassoio, lo portai nella caffetteria e mangiai il cibo,
proponendomi di chiudere un occhio sulla qualità e la scarsità dei
pasti seguenti.
Adesso
avevo tante ore libere che c’era quasi il rischio di annoiarsi. E
se avessi inventato qualcosa per rendere il lavoro più divertente? E
anche, perché no, per valutare le reazioni dei compagni di lavoro?
Ecco
cosa dovevo fare: riportare, entro la fine del mese seguente, tutte
le pentole alla brillantezza e splendore che avevano in origine,
appena uscite dalla fabbrica! Per sfruttare al meglio il tempo,
dovevo fare attenzione alla frequenza con cui ogni singola pentola
arrivava nel corso della giornata. Quelle che arrivavano più volte
le avrei lavate normalmente e “restaurate” per ultime, perché
sarebbe stato un lavoro da Sisifo rendere brillanti per prime proprio
quelle pentole che si risporcavano di fumo varie volte al giorno.
Quelle che arrivavano soltanto una volta al giorno, viceversa,
dovevano essere “restaurate” per prime. Un auspicabile obiettivo
sarebbe stato anche quello di rendere brillanti per primi quegli
utensili che, trovandosi in una certa posizione sugli scaffali, si
potevano vedere a colpo d’occhio entrando dalla porta della cucina.
Ma proprio quando riflettei sulla convenienza di questa strategia mi
accorsi con stupore che, attrezzi simili, ristrutturati a nuovo
splendore, assomigliavano molto a opere d’arte. È forse vero, come
dice l’Autrice, che «nessun artista può essere soddisfatto
soltanto della sua arte. Esiste un bisogno disperato di
riconoscimento che non può essere negato!»
Una
decina di giorni dopo, il mio lavoro fu notato dal primo critico
d’arte, un giovane cuoco di origine jugoslava. Un pomeriggio si
avvicinò per dirmi: “Tony (così mi chiamavano), non pensi di
esagerare?”
“Esagerare
in che cosa?” chiesi, fingendo di non capire.
“Voglio
dire, tutto questo lavoro in più. È vero, sembrano nuove. Ma ne
vale veramente la pena?”
“Se
ne vale la pena? Certo! Permettimi di farti una domanda che riguarda
il lavoro in questo ristorante: sai qual è il miglior lavoro, qui?”
Lui mi rivolse uno sguardo interrogativo, ma non disse nulla.
“Il
mio, naturalmente! Almeno, dal mio punto di vista” dissi.
“Come
il tuo? E quello delle cameriere, dei cuochi e dei pasticceri?”
“Va
bene. So che cosa stai pensando: guadagnano di più” – e lavorano
di meno, fui tentato di dire. – “Ma devi considerare anche il mio
punto di vista. Ascolta. Devi sapere che, non lontano da dove abito
io, c’è una bella baia con due castelli medioevali, proprio
sull’acqua, uno a ogni estremità. Tutte le estati viene
organizzata un’importante competizione di nuoto da un castello
all’altro. Non molto, circa tre chilometri. Che cosa pensi che ci
faccia io, qui, in pieno inverno?”
Notai
la sua perplessità.
“Non
lo immagini? Sto sviluppando i bicipiti per prendere parte alla
competizione. Capisci adesso? Sto facendo l’allenamento di base
proprio qui, e la cosa sorprendente è che mi pagano per allenarmi!
Non sarebbe la stessa cosa se mi avessero dato un lavoro come
cameriere o cuoco. Non c’è sviluppo di muscoli in quei lavori!”
Se
ne andò scuotendo il capo senza dire una parola. Non potevo
biasimarlo.
Patrizia,
nel frattempo, aveva fatto amicizia con una delle cameriere, alla
quale, dopo qualche tempo riferì la storia del muro di Troia,
mostrandole anche le fotografie.
“Qualche
tempo fa” disse la ragazza, “frequentai un corso di archeologia
con il dr. Schaeffer, cattedratico della Facoltà di Archeologia di
Heidelberg. È il migliore in Europa, un’autorità mondiale. Vi
suggerisco di andargli a parlare.”
Arrivò
l’ultimo giorno di lavoro. Nel pomeriggio, Patrizia fu invitata a
scendere in cucina. Mi diede un’occhiata e io le feci un cenno con
le braccia aperte, che significava: “Non so che cosa hanno in
mente”.
Il
capocuoco, uno Svizzero, ordinò un break generale di qualche minuto.
In una stanzetta adiacente alla cucina stappò una bottiglia di
champagne e Herr Pommer, che apparve per un attimo proprio al momento
giusto, ci strinse la mano dicendo, tra le altre cose:
“Ogni
volta che deciderete di ritornare a lavorare in questo ristorante,
troverete le porte aperte.”
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