Ancorare alla fonda è ritenuto sicuro, o quasi, solo da pochi cruisers, mentre la maggioranza lo
considera pericoloso.
La piccola insenatura nella
quale siamo ancorati mentre scrivo, è una delle decine di baie di quello
splendido complesso di fiumi e laghi conosciuto come Rio Dulce,
nella parte del Guatemala che si affaccia sui Caraibi Nord-Occidentali.
Quasi
ogni baia sui due lati dello spettacolare ponte a una campata sul fiume, ospita
decine di Marina, con centinaia di barche di live-aboards (persone che vivono a bordo
permanentemente o per la stagione). Ma questi Marina sono un'eccezione.
Risalendo a nord verso gli Stati Uniti, il primo Marina si trova a Belize city
e il successivo, se non vado errato, nell'isola di Cozumel, in Messico, molte
centinaia di chilometri di più a nord. A est, in direzione
di Panama, i Marina più vicini sono quelli dell'isola
di Roatan, nelle Bay Islands dell’Honduras, a più di duecento chilometri di
distanza. Però, come si può immaginare, disseminate sulle coste ci sono
delle piccole baie più o meno protette, adatte per
ancorare la notte.
Ma qui nel Rio Dulce i
velisti che come noi non utilizzano
i Marina,
sono l'eccezione, direi meno del cinque per cento rispetto a coloro che
preferiscono la "sicurezza" e la "comodità" di un ormeggio
in banchina. Tuttavia, se si esamina il concetto generale di sicurezza e comfort, si scoprono cose interessanti: Per esempio, per la maggior parte
della gente di barca il concetto primario di sicurezza risiede in due banalità: evitare il pericolo che l’ancora ari e ridurre al
minimo la probabilità di furti dei motori dei loro dinghy. In realtà,
quest'ultima convinzione è risultata illusoria. Anche
un’indagine sommaria rivela infatti che i furti di motori sono molto più
probabili in un Marina che alla fonda: soprattutto perché chi si ancora alla fonda fa maggiore attenzione e
assicura costantemente il motore con catene, cavi e lucchetti. A trasmettere
un’impressione fuorviante è il fatto che, per
comprensibili motivi, i furti nei Marina non vengono pubblicizzati al pari di
quelli che hanno luogo fuori.
Anche il concetto di comfort è soggettivo e legato soprattutto a un
condizionamento materialista-consumistico. Per la maggior parte dei
cruisers significa avere a disposizione, in barca, esattamente le stesse cose
che nel loro paese d’origine facevano parte del bagaglio domestico:
frigorifero, aria condizionata, maxi schermi televisivi per
guardare i video che hanno portato da casa... Ma, ripetere pedissequamente
schemi noti, a mio parere, significa non cogliere il nocciolo del concetto di
viaggio. In realtà la dinamica stimolante ed
educativa del viaggio oscilla tra due poli d’equilibrio: ADATTAMENTO e LIBERTA’!
Prima di dire qualcosa sull’adattamento, chiarisco subito
che utilizzo questo termine per includere tutto, proprio tutto, all’infuori
dell’adattamento alle
ingiustizie, ai soprusi, agli inganni e alle menzogne, sia che tocchino
direttamente il viaggiatore sia che provengano dai governi o dalle istituzioni
religiose. In questo senso non ci dovrebbe essere adattamento ma denuncia.
Nei tropici un primo adattamento possibile, anzi
auspicabile, è quello climatico, il che comporta l’evitare di
rifugiarsi in ambienti dotati di aria condizionata, se mai ne avevamo
l’abitudine prima di partire. Una delle prime decisioni
che abbiamo preso all'arrivo ai tropici è stata lo smantellamento delle due
unità di aria condizionata di cui era dotata la barca!
Subito dopo viene un adattamento più problematico: quello al modo di pensare della gente locale, che comporta in
primo luogo l’evitare di congregarsi unicamente con i
propri connazionali e fare un pensierino alla possibilità di imparare la lingua nazionale. L’adattamento al cibo
locale, senz’altro più salubre del consueto
scatolame proveniente dal Nord, rappresenta una specie di ponte verso la
comprensione della mentalità locale.
L’adattamento a tutto ciò che esula dagli schemi
abituali, comporta l’esercizio della propria flessibilità, apertura mentale e sviluppo della propria disponibilità e umanità. Quando il soggiorno in un paese
straniero è abbastanza prolungato, l’adattamento dovrebbe includere
l'apprendimento degli elementi basilari della lingua locale per poter
comunicare con la popolazione autoctona almeno a livello elementare.
Certo sarebbe ottimale
apprendere la lingua a un livello da consentirci di seguire le notizie
radiofoniche nazionali. Una lingua è il compendio,
cristallizzato in parole, suoni, espressioni, e modi di dire, di una civiltà, la quale ha impiegato millenni a raggiungere un
certo grado di sviluppo storico. Apprenderne la lingua significa aprire le
porte di quella civiltà e quindi della mentalità di un popolo. Forse non c’è esperienza umana più stimolante e gratificante: è un’avventura in sé, un viaggio dentro il viaggio!
Se i popoli che si visitano
sono in via di sviluppo la cosa assume un interesse ancora maggiore, perché in questi Paesi risulta più facile al viaggiatore
l’identificazione dei condizionamenti socioculturali e religiosi, in quanto
sono essi sono quasi sempre simili a quelli che prevalevano nel nostro paese
d’origine alcuni decenni prima. In queste giovani democrazie, tutto è più marcato e macroscopicamente visibile, inclusa la corruzione. Per contro diventano comprensibili anche certe dinamiche di potere che
forse nel nostro paese d’origine ci erano “sfuggite” o avevamo date per
scontate, le quali ci possono apparire adesso sotto una luce ben diversa.
In questi Paesi, come
incentivo di crescita interiore, si possono rilevare e valutare criticamente
sia quei condizionamenti negativi che noi abbiamo auspicabilmente superato
(violazioni ai diritti umani di ogni tipo, linciaggio, abuso infantile,
sfruttamento lavorativo di minori, per esempio), sia quelli che per entrambi i
popoli permangono condizionamenti negativi comuni, ancora da superare. Come ho
accennato al volo nella storia # 27 di Il nostro canto libero, è più facile individuare in
un’altra cultura sia i condizionamenti positivi
sia quelli negativi. Nella nostra
cultura d’origine, non è raro
che “sfugga alla nostra percezione” quello che in un’altra cultura salterebbe
all’occhio come inammissibile o addirittura moralmente spregevole e penalmente
condannabile.
Accennavo più sopra
agli adattamenti. Degli adattamenti possibili
forse non ce n’è nessuno che dia una misura
efficace dell’apertura mentale del viaggiatore come l’adattamento al cibo
locale. Purtroppo c’è chi fatica a rendersi conto
che la maggior parte del cibo che apprezziamo nel nostro Paese d’origine è diventato di nostro gradimento solo dopo un lungo processo di adattamento:
ciò evidenzia che la maggior parte dei sapori sono sapori acquisiti: o, espresso in modo
diverso, fanno parte di un condizionamento culturale. Senz’altro uno dei più grandi!
Il condizionamento dovuto
alla ripetizione ha un potere inimmaginabile e pervade ogni manifestazione
della vita politica, religiosa e culturale! Nella maggioranza dei casi,
sfortunatamente, la ripetizione è la chiave del successo nella
diffusione e nell’accettazione delle idee, indipendentemente dal loro contenuto
di attendibilità e verità.
Ma c’è anche
un aspetto positivo che riguarda la ripetizione. Non mi riferisco in questo
caso a quella verbale, ma a quella empirica. Per esempio, la consapevolezza del valore
della ripetizione ci renderà più pazienti e disponibili quando ci troveremo davanti a un cibo esotico
sconosciuto. Invece di limitarsi a storcere il naso, dovremmo proporci di
provarlo e provarlo di nuovo in circostanze diverse anche nel caso non sia
stato di nostro gradimento a un primo approccio. Tra l’altro, una preparazione
diversa può fare la differenza nel nostro verdetto, proprio
come interpreti, direttore d’orchestra, scenografia e regia diversi possono
fare una grande differenza nell’apprezzamento
di un’opera lirica sia sconosciuta sia nota.
Nel corso degli anni ho
incontrato viaggiatori che, dopo mesi di permanenza in un Paese straniero, non
hanno mostrato nessun interesse a provare un cibo esotico, un frutto o una
verdura sconosciuta. A volte non ne sospettano neppure l’esistenza. È ovvio che chi non rimane aperto a cercare, non trova! Se mi fosse concesso
di generalizzare, un’operazone comunque sempre rischiosa, direi che, salvo
eccezioni, queste persone NON sono favorevoli ai cambiamenti. Si tratta spesso
di conservatori molto poco tolleranti o, peggio, di fondamentalisti che si
schierano per partito preso sempre a favore dello status quo. Dal rifiuto di
provare cibi nuovi, al rifiuto di esaminare idee nuove e progressiste, il passo
è breve. In effetti, entrambi i rifiuti
riflettono la medesima struttura mentale. Mentre su una mente aperta
il nuovo, anche concettuale, si traduce sempre in un’avventura affascinante ed
eccitante da vivere e godere fino in fondo, come per esempio l’apprendimento di
una lingua straniera, invece sul conservatore esso ha l’effetto contrario di
disturbo e spiazzamento. L’irrazionale rifiuto a priori di quest’ultimo di
capire e di confrontarsi, deriva dal fatto che il diverso e il nuovo, percepiti
come una minaccia più o meno latente, sono
occasione di dissonanza nella sua granitica personalità. Se il rifiuto è uno dei modi di ristabilire l’equilibrio, esso chiude tuttavia ogni
sentiero non solo all’apertura sul mondo esterno, ma soprattutto su quello
interiore: è la fine degli interessi e quindi dello sviluppo mentale.
Per quanto riguarda la mia
esperienza personale con il cibo, devo dire di essere stato cresciuto con
piatti di carne e ancora carne, quasi privi di verdure, anche se abbondanti di
frutta fresca. Nel corso degli anni ho educato il palato ai cibi più disparati, verdure di ogni tipo, frutti e bevande esotici. Ho provato di
tutto. Alla domanda se c’è qualcosa che non sia di mio
gradimento, devo pensarci su. In realtà si contano sulle dita di
mezza mano le verdure che mi piacciono un pò meno delle altre. E lo
stesso discorso vale per Patrizia.
Anche ancorare richiede
adattamento. Ancorare bene è una grande
responsabilità perché una procedura operativa sbagliata (specialmente quelle
cronicamente sbagliate) può significare perdere o danneggiare la propria barca
o quella di qualcun altro: eventualità meno rara di quanto si possa immaginare.
Dal punto di vista
psicologico, ancorare alla fonda sottintende la disponibilità ad affrontare le paure: prima di tutte la paura di arare
quando si alza il vento. Ma anche paura dei furti, paura che qualcuno ci sbatta
addosso, che ci assalti, possibilità non cosí infrequente nelle acque del Centro America, paura della… paura. Non c’è punizione più severa che un essere umano possa
infliggersi che vivere nella paura. Per apprezzare e godere la vita e avere una
qualche possibilità di essere felici, non
conosco altra via che liberarsi dalle paure.
Il secondo concetto a cui ho
fatto cenno è quello della LIBERTA'. Per “libertà” intendo in primo luogo la
capacità di non farsi limitare né dai propri simili né da strutture sociali. Per portare un semplicissimo
esempio personale, trovo che ci siano molti vantaggi ad ancorare alla fonda
anziché in un Marina qui nei tropici. La differenza è spesso una piacevole brezza contro un calore torrido, insopportabile. E
assenza di insetti. Senza contare il disagio di essere ormeggiati a una
banchina di un Marina a meno di un paio di metri di distanza da un’altra barca
ed entro il raggio vocale di una mezza dozzina di imbarcazioni. Forse il nostro
costante auto-addestramento alla libertà ci ha davvero viziato!
Per venire al sodo, è molto probabile che il nostro rifiuto sia influenzato dall’impossibilità di capire come la gente,
comprese le coppie giovani, possa sentirsi libera in un ambiente cosí congestionato. Per esempio, come poter fare
l'amore in qualsiasi momento del giorno o della notte in un Marina, in cui si è costretti a relegare in secondo piano il proprio
godimento físico al punto di reprimere gemiti e urla di piacere ogni volta che
si presentino spontanei? Scusate,
ma questo non solo è spiacevole, non è nemmeno sano! Non ce ne vogliano certi lettori se affermo che qualche
volta abbiamo pensato che solo chi è stato condizionato a vedere l’Eros in una luce negativa, a causa di un
disastroso lavaggio del cervello che ha subito per generazioni, può accettare scelte cosí dolorose. Per non parlare della libertà di esercitarsi con uno
strumento musicale o cantare, cose che alla fonda si possono fare senza il
pericolo di disturbare i vicini.
Ma libertà significa anche
assumersi delle responsabilità e adattarsi a fare delle scelte: noi abbiamo di buon grado rinunciato alla
piccola comodità di un frigorífero, a causa dell’alto consumo di energia elettrica, in
favore di un miglior uso dell’elettricità delle batterie: abbiamo ritenuto infatti più importante avere sufficienti riserve elettriche da poter azionare con un inverter gli
utensili da lavoro (seghe elettriche, trapani) gli elettrodomestici (frullatori
e processori di alimenti) due laptop e due Kindle e provare la gioa di sentirci
indipendenti anziché infilarci in un Marina per mancanza di elettricità. Alla fonda non abbiamo mai
avuto problemi energetici seri, se si eccettua un giorno o due, di tanto in
tanto, quando il sole, scarso per alcuni giorni di seguito durante i fronti
freddi, non riesce a ricaricare completamente le batterie attraverso i pannelli
solari. In quei
casi dobbiamo limitare l’uso dei computer a poche ore al giorno.
I collegamenti con l’Internet non sono quasi mai
problematici. Negli ancoraggi estremamente isolati, essi dipendono dalla
distanza dell’ancoraggio dalle antenne e dalla compagnia telefonica di propria
scelta. La luce per leggere e lavorare di notte nel pozzetto è una luce LED più brillante di quelle
domestiche. Se non si gradiscono i “vicini” (cioè le barche ancorate
intorno), si può sempre tirare su l’ancora e
scegliere di riancorare più lontano. Anche se questo è accaduto soltanto una volta in vent’anni, ciò che conta è, come sempre, non precludersi la libertà di scelta.
Per la maggior parte del tempo, viviamo fuori nel nostro
grande pozzetto, da cui la vista, non limitata da quattro pareti, spazia sempre
lontano. E cosí il pensiero. È sempre gratificante
arrivare a posare lo sguardo sulle rive del fiume, soprattutto i tratti che,
non ancora contaminati dall’urbanizzazione, sono rimasti verdi e riposanti, e,
più oltre, sulle soffuse colline azzurrate e le montagne evanescenti che fanno
loro da sfondo. Ma anche riprovare l’ebbrezza del mare aperto, ogni volta che
usciamo di qui a vele spiegate. Ah, la suggestione e il potere evocativo degli
immensi spazi vuoti che danno l’impressione di accarezzare l’orizzonte! Negli
ancoraggi marini lo spettacolo estetico dell’acqua, con le sue incredibili
sfumature di colore sempre mutevoli, suscita un senso di meraviglia e al tempo
stesso rilassa le membra, e appagando sensi e mente, aiuta quest’ultima sia a
focalizzarsi sia a dilatarsi. In certi ancoraggi notturni isolati, il buio di
un cielo senza stelle e un silenzio cosí assoluto da apparire quasi pesante, sono diventati proverbiali e
rimarranno incisi nella memoria di chi ha fatto l’esperienza anche una sola
notte.
È rivitalizzante, di tanto in tanto, concedersi
una sosta dal lavoro per osservare i tipici kayak di legno che in certi ancoraggi
scivolano silenziosi accanto alla barca, costruiti, in un tempo non lontano,
con l’abbondante mogano rosso locale, oggi con
un legno più a buon mercato ma anche più anemico. Salutarne gli occupanti
incoraggiandoli con un sorriso ad avvicinarsi è una delle opzioni, ma se desideriamo rimanere soli, possiamo semplicemente
tirar giù i teli laterali che scendono dal tendalino e
isolarci dal mondo. Questo è un piccolo ma significativo assaggio di ciò che intendo per Libertà, una conquista personale progressiva che è diventata un elemento fondamentale che nessuno di noi due ritiene
negoziabile. Di fatto, in assenza di scelte, non esiste né libertà ne morale.
Ma se la libertà, a livello personale, comincia dalla protezione della privacy, essa è, ovviamente, molto più di questo. Oggi più che mai, sia per i più consapevoli tra coloro che vivono in seno alla società sia per chi come noi ne
vive ai margini (ma si tiene in comunicazione attraverso la rete), il bene in
assoluto più prezioso, che potrebbe però venire intaccato da un
momento all’altro, è la libertà di espressione, la
quale è la misura del livello di democrazia reale di un
popolo. In una democrazia vera, nessuno viene
ostracizzato per manifestare un’opinione. Nessuno viene ostracizzato per criticare
razionalmente gli errori e gli orrori dell’establishment. Nessuno viene
ostracizzato per essere “diverso”. Ed è il dovere dei pochi che sono consapevoli del valore democratico della
critica far sentire la loro voce e coscientizzare gli altri. Ma se questa fosse
la misura di una democrazia reale, guardandosi intorno è lecito parlare di vere democrazie?
Ritornando al mio suggerimento di coinvolgere se stessi
in una lotta interiore sia contro le paure sia contro le ingiustizie, rifletto
sul fatto scontato che questo equivale a viaggiare controcorrente. Con le
evidenti conseguenze che ne derivano...
Dal pozzetto da cui sto scrivendo scorgo un branco di pesci che risalgono
alla superficie attirati dagli avanzi di cibo che Patrizia ha appena gettato
nell’acqua. Sono le nostre mascotte provvisorie. In queste acque interne, è molto comune vedere cormorani, pellicani, pappagalli e avvistare lamantini
o tartarughe. E, negli ancoraggi marini anche fregate, gabbiani, razze di vario
tipo e delfini. Quest’ultimi, individuati dai nostri tre cani, e attratti dal
loro abbaiare, si avvicinano spesso alla nostra barca a vela, dando origine,
ogni tanto, a spettacoli di piroette sopra la superficie dell’acqua.
Qualche volta rifletto, con
un certo disagio, sulla sottigliezza e fragilità della corda che mantiene
ancorata la barca. Un nonnulla potrebbe reciderla. Io ci leggo una metafora
della vita, nella quale una linea altrettanto sottile, uno spartiacque
insignificante, sembra correre e fluttuare tra i poli opposti del successo e
del fallimento, del bene e del male, del piacere e della paura, della salute e
della malattia e, perfino della vita e della morte.
Nel corso degli anni io e Patrizia abbiamo adattato
(vorrei dire condizionato, per scelta)
la nostra mente a vivere in tale "relativa insicurezza" che, alla
fine, abbiamo perduto la percezione
dell’insicurezza, perché, la “prova ed errore” durante tanti anni, un giorno
dopo l’altro, rinforza il concetto che tutto continui a funzionare a nostro
vantaggio. C’è ovviamente sempre la possibilità di qualche grosso inconveniente, nel peggiore dei casi
anche un disastro, ma ci piace pensare che non succederà. O, qualora succedesse, che possediamo i mezzi
potenziali per farne fronte nel modo più efficace possibile. E
imparare qualcosa. Scrive Claudio Pagliara: “La
persona che possiede una sicurezza interiore è convinta che, qualunque cosa accada, sarà
capace di reagire perché ha completa fiducia in se stessa e nelle sue potenzialità.
Non teme l’ignoto… al contrario, considera l’ignoto come fonte di piacere e di
crescita.” (The healing path, Kindle 692-694)
Tutto sommato, possiamo dire di aver raggiunto il nostro obiettivo:
"giocare" il gioco della vita vivendo ogni singolo giorno in uno
stato di relativa insicurezza, di cui
non solo non sentiamo il peso, ma dentro la quale non abbiamo difficoltà a rilassarci. E il rilassamento è già godimento della vita.
Forse intendeva qualcosa di simile o di parallelo, chi
scrisse che la condizione di vita ideale non è tanto vivere nella calma,
ma permanere calmi e sereni durante la tempesta. La tempesta, nel nostro caso è, metaforicamente, lo stato di volontaria precarietà o insicurezza esterna permanente, il cui valore pratico è fondamentale in quanto si configura non solo come il più potente antidoto alle paure, ma viene annullato dalla sicurezza interiore
dalla quale deriva la fiducia nelle nostre potenzialità.
Tutto nella vita è relativo e ha un significato diverso
per individui diversi. Non perché la menzogna
abbia lo stesso valore della verità, ma perché, lo si riconosca o meno, tutto viene filtrato attraverso
i propri condizionamenti culturali. Da quella gabbia invisible, giudichiamo e
prendiamo decisioni. Coloro che non possono fare a meno dei Marina ci
giudicano temerari. Noi pensiamo invece che chi vive in barca in un Paese
straniero dovrebbe rendersi conto di avere un’occasione unica di liberarsi dai
o, almeno, di mettere a fuoco, i numerosi condizionamenti che ha ereditato
dalla cultura d’origine. Come si può sperare di progredire sulla via della conoscenza e di affinamento della
coscienza se si fanno esattamente le stesse cose di sempre?”
Chi non se ne rende conto, può davvero affermare di aver vissuto?
Fabrizio Accorsi
Fabrizio Accorsi
Nessun commento:
Posta un commento