martedì 10 marzo 2020

PENSIERI-4: Adattamento e libertà (alla fonda o in un Marina?)



Ancorare alla fonda è ritenuto sicuro, o quasi, solo da pochi cruisers, mentre la maggioranza lo considera pericoloso.

La piccola insenatura nella quale siamo ancorati mentre scrivo, è una delle decine di baie di quello splendido complesso di fiumi e laghi conosciuto come Rio Dulce, nella parte del Guatemala che si affaccia sui Caraibi Nord-Occidentali.
Quasi ogni baia sui due lati dello spettacolare ponte a una campata sul fiume, ospita decine di Marina, con centinaia di barche di live-aboards (persone che vivono a bordo permanentemente o per la stagione). Ma questi Marina sono un'eccezione. Risalendo a nord verso gli Stati Uniti, il primo Marina si trova a Belize city e il successivo, se non vado errato, nell'isola di Cozumel, in Messico, molte centinaia di chilometri di più a nord. A est, in direzione di Panama, i Marina più vicini sono quelli dell'isola di Roatan, nelle Bay Islands dell’Honduras, a più di duecento chilometri di distanza. Però, come si può immaginare, disseminate sulle coste ci sono delle piccole baie più o meno protette, adatte per ancorare la notte.

Ma qui nel Rio Dulce i velisti che come noi non utilizzano i Marina, sono l'eccezione, direi meno del cinque per cento rispetto a coloro che preferiscono la "sicurezza" e la "comodità" di un ormeggio in banchina. Tuttavia, se si esamina il concetto generale di sicurezza e comfort, si scoprono cose interessanti: Per esempio, per la maggior parte della gente di barca il concetto primario di sicurezza risiede in due banalità: evitare il pericolo che l’ancora ari e ridurre al minimo la probabilità di furti dei motori dei loro dinghy. In realtà, quest'ultima convinzione è risultata illusoria. Anche un’indagine sommaria rivela infatti che i furti di motori sono molto più probabili in un Marina che alla fonda: soprattutto perché chi si ancora alla fonda fa maggiore attenzione e assicura costantemente il motore con catene, cavi e lucchetti. A trasmettere un’impressione fuorviante è il fatto che, per comprensibili motivi, i furti nei Marina non vengono pubblicizzati al pari di quelli che hanno luogo fuori. 


Anche il concetto di comfort è soggettivo e legato soprattutto a un condizionamento materialista-consumistico. Per la maggior parte dei cruisers significa avere a disposizione, in barca, esattamente le stesse cose che nel loro paese d’origine facevano parte del bagaglio domestico: frigorifero, aria condizionata, maxi schermi televisivi per guardare i video che hanno portato da casa... Ma, ripetere pedissequamente schemi noti, a mio parere, significa non cogliere il nocciolo del concetto di viaggio. In realtà la dinamica stimolante ed educativa del viaggio oscilla tra due poli d’equilibrio: ADATTAMENTO e LIBERTA’!
Prima di dire qualcosa sull’adattamento, chiarisco subito che utilizzo questo termine per includere tutto, proprio tutto, all’infuori dell’adattamento alle

ingiustizie, ai soprusi, agli inganni e alle menzogne, sia che tocchino direttamente il viaggiatore sia che provengano dai governi o dalle istituzioni religiose. In questo senso non ci dovrebbe essere adattamento ma denuncia.

Nei tropici un primo adattamento possibile, anzi auspicabile, è quello climatico, il che comporta l’evitare di rifugiarsi in ambienti dotati di aria condizionata, se mai ne avevamo l’abitudine prima di partire. Una delle prime decisioni che abbiamo preso all'arrivo ai tropici è stata lo smantellamento delle due unità di aria condizionata di cui era dotata la barca!

Subito dopo viene un adattamento più problematico: quello al modo di pensare della gente locale, che comporta in primo luogo l’evitare di congregarsi unicamente con i propri connazionali e fare un pensierino alla possibilità di imparare la lingua nazionale. L’adattamento al cibo locale, senz’altro più salubre del consueto scatolame proveniente dal Nord, rappresenta una specie di ponte verso la comprensione della mentalità locale.

L’adattamento a tutto ciò che esula dagli schemi abituali, comporta l’esercizio della propria flessibilità, apertura mentale e sviluppo della propria disponibilità e umanità. Quando il soggiorno in un paese straniero è abbastanza prolungato, l’adattamento dovrebbe includere l'apprendimento degli elementi basilari della lingua locale per poter comunicare con la popolazione autoctona almeno a livello elementare.

Certo sarebbe ottimale apprendere la lingua a un livello da consentirci di seguire le notizie radiofoniche nazionali. Una lingua è il compendio, cristallizzato in parole, suoni, espressioni, e modi di dire, di una civiltà, la quale ha impiegato millenni a raggiungere un certo grado di sviluppo storico. Apprenderne la lingua significa aprire le porte di quella civiltà e quindi della mentalità di un popolo. Forse non c’è esperienza umana più stimolante e gratificante: è un’avventura in sé, un viaggio dentro il viaggio!
Se i popoli che si visitano sono in via di sviluppo la cosa assume un interesse ancora maggiore, perché in questi Paesi risulta più facile al viaggiatore l’identificazione dei condizionamenti socioculturali e religiosi, in quanto sono essi sono quasi sempre simili a quelli che prevalevano nel nostro paese d’origine alcuni decenni prima. In queste giovani democrazie, tutto è pmarcato e macroscopicamente visibile, inclusa la corruzione. Per contro diventano comprensibili anche certe dinamiche di potere che forse nel nostro paese d’origine ci erano “sfuggite” o avevamo date per scontate, le quali ci possono apparire adesso sotto una luce ben diversa.

In questi Paesi, come incentivo di crescita interiore, si possono rilevare e valutare criticamente sia quei condizionamenti negativi che noi abbiamo auspicabilmente superato (violazioni ai diritti umani di ogni tipo, linciaggio, abuso infantile, sfruttamento lavorativo di minori, per esempio), sia quelli che per entrambi i popoli permangono condizionamenti negativi comuni, ancora da superare. Come ho accennato al volo nella storia # 27 di Il nostro canto libero, è più facile individuare in un’altra cultura sia i condizionamenti positivi sia quelli negativi. Nella nostra cultura d’origine, non è raro che “sfugga alla nostra percezione” quello che in un’altra cultura salterebbe all’occhio come inammissibile o addirittura moralmente spregevole e penalmente condannabile.

Accennavo più sopra agli adattamenti. Degli adattamenti possibili forse non ce n’è nessuno che dia una misura efficace dell’apertura mentale del viaggiatore come l’adattamento al cibo locale. Purtroppo c’è chi fatica a rendersi conto che la maggior parte del cibo che apprezziamo nel nostro Paese d’origine è diventato di nostro gradimento solo dopo un lungo processo di adattamento: ciò evidenzia che la maggior parte dei sapori sono sapori acquisiti: o, espresso in modo diverso, fanno parte di un condizionamento culturale. Senz’altro uno dei più grandi! 


Il condizionamento dovuto alla ripetizione ha un potere inimmaginabile e pervade ogni manifestazione della vita politica, religiosa e culturale! Nella maggioranza dei casi, sfortunatamente, la ripetizione è la chiave del successo nella diffusione e nell’accettazione delle idee, indipendentemente dal loro contenuto di attendibilità e verità.

Ma c’è anche un aspetto positivo che riguarda la ripetizione. Non mi riferisco in questo caso a quella verbale, ma a quella empirica. Per esempio, la consapevolezza del valore della ripetizione ci renderà più pazienti e disponibili quando ci troveremo davanti a un cibo esotico sconosciuto. Invece di limitarsi a storcere il naso, dovremmo proporci di provarlo e provarlo di nuovo in circostanze diverse anche nel caso non sia stato di nostro gradimento a un primo approccio. Tra l’altro, una preparazione diversa può fare la differenza nel nostro verdetto, proprio come interpreti, direttore d’orchestra, scenografia e regia diversi possono fare una grande differenza nell’apprezzamento di un’opera lirica sia sconosciuta sia nota.

Nel corso degli anni ho incontrato viaggiatori che, dopo mesi di permanenza in un Paese straniero, non hanno mostrato nessun interesse a provare un cibo esotico, un frutto o una verdura sconosciuta. A volte non ne sospettano neppure l’esistenza. È ovvio che chi non rimane aperto a cercare, non trova! Se mi fosse concesso di generalizzare, un’operazone comunque sempre rischiosa, direi che, salvo eccezioni, queste persone NON sono favorevoli ai cambiamenti. Si tratta spesso di conservatori molto poco tolleranti o, peggio, di fondamentalisti che si schierano per partito preso sempre a favore dello status quo. Dal rifiuto di provare cibi nuovi, al rifiuto di esaminare idee nuove e progressiste, il passo è breve. In effetti, entrambi i rifiuti riflettono la medesima struttura mentale. Mentre su una mente aperta il nuovo, anche concettuale, si traduce sempre in un’avventura affascinante ed eccitante da vivere e godere fino in fondo, come per esempio l’apprendimento di una lingua straniera, invece sul conservatore esso ha l’effetto contrario di disturbo e spiazzamento. L’irrazionale rifiuto a priori di quest’ultimo di capire e di confrontarsi, deriva dal fatto che il diverso e il nuovo, percepiti come una minaccia più o meno latente, sono occasione di dissonanza nella sua granitica personalità. Se il rifiuto è uno dei modi di ristabilire l’equilibrio, esso chiude tuttavia ogni sentiero non solo all’apertura sul mondo esterno, ma soprattutto su quello interiore: è la fine degli interessi e quindi dello sviluppo mentale.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale con il cibo, devo dire di essere stato cresciuto con piatti di carne e ancora carne, quasi privi di verdure, anche se abbondanti di frutta fresca. Nel corso degli anni ho educato il palato ai cibi più disparati, verdure di ogni tipo, frutti e bevande esotici. Ho provato di tutto. Alla domanda se c’è qualcosa che non sia di mio gradimento, devo pensarci su. In realtà si contano sulle dita di mezza mano le verdure che mi piacciono un pò meno delle altre. E lo stesso discorso vale per Patrizia.
Anche ancorare richiede adattamento. Ancorare bene è una grande responsabilità perché una procedura operativa sbagliata (specialmente quelle cronicamente sbagliate) può significare perdere o danneggiare la propria barca o quella di qualcun altro: eventualità meno rara di quanto si possa immaginare.

Dal punto di vista psicologico, ancorare alla fonda sottintende la disponibilità ad affrontare le paure: prima di tutte la paura di arare quando si alza il vento. Ma anche paura dei furti, paura che qualcuno ci sbatta addosso, che ci assalti, possibilità non cosí infrequente nelle acque del Centro America, paura della… paura. Non c’è punizione più severa che un essere umano possa infliggersi che vivere nella paura. Per apprezzare e godere la vita e avere una qualche possibilità di essere felici, non conosco altra via che liberarsi dalle paure.

Il secondo concetto a cui ho fatto cenno è quello della LIBERTA'. Per “libertà” intendo in primo luogo la capacità di non farsi limitare né dai propri simili né da strutture sociali. Per portare un semplicissimo esempio personale, trovo che ci siano molti vantaggi ad ancorare alla fonda anziché in un Marina qui nei tropici. La differenza è spesso una piacevole brezza contro un calore torrido, insopportabile. E assenza di insetti. Senza contare il disagio di essere ormeggiati a una banchina di un Marina a meno di un paio di metri di distanza da un’altra barca ed entro il raggio vocale di una mezza dozzina di imbarcazioni. Forse il nostro costante auto-addestramento alla libertà ci ha davvero viziato! 

Per venire al sodo, è molto probabile che il nostro rifiuto sia influenzato dall’impossibilità di capire come la gente, comprese le coppie giovani, possa sentirsi libera in un ambiente cosí congestionato. Per esempio, come poter fare l'amore in qualsiasi momento del giorno o della notte in un Marina, in cui si è costretti a relegare in secondo piano il proprio godimento físico al punto di reprimere gemiti e urla di piacere ogni volta che si presentino spontanei? Scusate,
ma questo non solo è spiacevole, non è nemmeno sano! Non ce ne vogliano certi lettori se affermo che qualche volta abbiamo pensato che solo chi è stato condizionato a vedere l’Eros in una luce negativa, a causa di un disastroso lavaggio del cervello che ha subito per generazioni, può accettare scelte cosí dolorose. Per non parlare della libertà di esercitarsi con uno strumento musicale o cantare, cose che alla fonda si possono fare senza il pericolo di disturbare i vicini.

Ma libertà significa anche assumersi delle responsabilità e adattarsi a fare delle scelte: noi abbiamo di buon grado rinunciato alla piccola comodità di un frigorífero, a causa dell’alto consumo di energia elettrica, in favore di un miglior uso dell’elettricità delle batterie: abbiamo ritenuto infatti più importante avere sufficienti riserve elettriche da poter azionare con un inverter gli utensili da lavoro (seghe elettriche, trapani) gli elettrodomestici (frullatori e processori di alimenti) due laptop e due Kindle e provare la gioa di sentirci indipendenti anziché infilarci in un Marina per mancanza di elettricità. Alla fonda non abbiamo mai avuto problemi energetici seri, se si eccettua un giorno o due, di tanto in tanto, quando il sole, scarso per alcuni giorni di seguito durante i fronti freddi, non riesce a ricaricare completamente le batterie attraverso i pannelli solari. In quei casi dobbiamo limitare l’uso dei computer a poche ore al giorno.
I collegamenti con l’Internet non sono quasi mai problematici. Negli ancoraggi estremamente isolati, essi dipendono dalla distanza dell’ancoraggio dalle antenne e dalla compagnia telefonica di propria scelta. La luce per leggere e lavorare di notte nel pozzetto è una luce LED più brillante di quelle domestiche. Se non si gradiscono i “vicini” (cioè le barche ancorate intorno), si può sempre tirare su l’ancora e scegliere di riancorare più lontano. Anche se questo è accaduto soltanto una volta in vent’anni, ciò che conta è, come sempre, non precludersi la libertà di scelta.

Per la maggior parte del tempo, viviamo fuori nel nostro grande pozzetto, da cui la vista, non limitata da quattro pareti, spazia sempre lontano. E cosí il pensiero. È sempre gratificante arrivare a posare lo sguardo sulle rive del fiume, soprattutto i tratti che, non ancora contaminati dall’urbanizzazione, sono rimasti verdi e riposanti, e, più oltre, sulle soffuse colline azzurrate e le montagne evanescenti che fanno loro da sfondo. Ma anche riprovare l’ebbrezza del mare aperto, ogni volta che usciamo di qui a vele spiegate. Ah, la suggestione e il potere evocativo degli immensi spazi vuoti che danno l’impressione di accarezzare l’orizzonte! Negli ancoraggi marini lo spettacolo estetico dell’acqua, con le sue incredibili sfumature di colore sempre mutevoli, suscita un senso di meraviglia e al tempo stesso rilassa le membra, e appagando sensi e mente, aiuta quest’ultima sia a focalizzarsi sia a dilatarsi. In certi ancoraggi notturni isolati, il buio di un cielo senza stelle e un silenzio cosí assoluto da apparire quasi pesante, sono diventati proverbiali e rimarranno incisi nella memoria di chi ha fatto l’esperienza anche una sola notte.
È rivitalizzante, di tanto in tanto, concedersi una sosta dal lavoro per osservare i tipici kayak di legno che in certi ancoraggi scivolano silenziosi accanto alla barca, costruiti, in un tempo non lontano, con l’abbondante mogano rosso locale, oggi con

un legno più a buon mercato ma anche più anemico. Salutarne gli occupanti incoraggiandoli con un sorriso ad avvicinarsi è una delle opzioni, ma se desideriamo rimanere soli, possiamo semplicemente tirar giù i teli laterali che scendono dal tendalino e isolarci dal mondo. Questo è un piccolo ma significativo assaggio di ciò che intendo per Libertà, una conquista personale progressiva che è diventata un elemento fondamentale che nessuno di noi due ritiene negoziabile. Di fatto, in assenza di scelte, non esiste né libertà ne morale.

Ma se la libertà, a livello personale, comincia dalla protezione della privacy, essa è, ovviamente, molto più di questo. Oggi più che mai, sia per i più consapevoli tra coloro che vivono in seno alla società sia per chi come noi ne vive ai margini (ma si tiene in comunicazione attraverso la rete), il bene in assoluto più prezioso, che potrebbe però venire intaccato da un momento all’altro, è la libertà di espressione, la quale è la misura del livello di democrazia reale di un popolo. In una democrazia vera, nessuno viene ostracizzato per manifestare un’opinione. Nessuno viene ostracizzato per criticare razionalmente gli errori e gli orrori dell’establishment. Nessuno viene ostracizzato per essere “diverso”. Ed è il dovere dei pochi che sono consapevoli del valore democratico della critica far sentire la loro voce e coscientizzare gli altri. Ma se questa fosse la misura di una democrazia reale, guardandosi intorno è lecito parlare di vere democrazie?

 Ritornando al mio suggerimento di coinvolgere se stessi in una lotta interiore sia contro le paure sia contro le ingiustizie, rifletto sul fatto scontato che questo equivale a viaggiare controcorrente. Con le evidenti conseguenze che ne derivano...  
Dal pozzetto da cui sto scrivendo scorgo un branco di pesci che risalgono alla superficie attirati dagli avanzi di cibo che Patrizia ha appena gettato nell’acqua. Sono le nostre mascotte provvisorie. In queste acque interne, è molto comune vedere cormorani, pellicani, pappagalli e avvistare lamantini o tartarughe. E, negli ancoraggi marini anche fregate, gabbiani, razze di vario tipo e delfini. Quest’ultimi, individuati dai nostri tre cani, e attratti dal loro abbaiare, si avvicinano spesso alla nostra barca a vela, dando origine, ogni tanto, a spettacoli di piroette sopra la superficie dell’acqua.
 Qualche volta rifletto, con un certo disagio, sulla sottigliezza e fragilità della corda che mantiene ancorata la barca. Un nonnulla potrebbe reciderla. Io ci leggo una metafora della vita, nella quale una linea altrettanto sottile, uno spartiacque insignificante, sembra correre e fluttuare tra i poli opposti del successo e del fallimento, del bene e del male, del piacere e della paura, della salute e della malattia e, perfino della vita e della morte.
Nel corso degli anni io e Patrizia abbiamo adattato (vorrei dire condizionato, per scelta) la nostra mente a vivere in tale "relativa insicurezza" che, alla fine, abbiamo perduto la percezione dell’insicurezza, perché, la “prova ed errore” durante tanti anni, un giorno dopo l’altro, rinforza il concetto che tutto continui a funzionare a nostro vantaggio. C’è ovviamente sempre la possibilità di qualche grosso inconveniente, nel peggiore dei casi anche un disastro, ma ci piace pensare che non succederà. O, qualora succedesse, che possediamo i mezzi potenziali per farne fronte nel modo più efficace possibile. E imparare qualcosa. Scrive Claudio Pagliara: La persona che possiede una sicurezza interiore è convinta che, qualunque cosa accada, sarà capace di reagire perché ha completa fiducia in se stessa e nelle sue potenzialità. Non teme l’ignoto… al contrario, considera l’ignoto come fonte di piacere e di crescita.” (The healing path, Kindle 692-694)
Tutto sommato, possiamo dire di aver raggiunto il nostro obiettivo: "giocare" il gioco della vita vivendo ogni singolo giorno in uno stato di relativa insicurezza, di cui non solo non sentiamo il peso, ma dentro la quale non abbiamo difficoltà a rilassarci. E il rilassamento è già godimento della vita.

Forse intendeva qualcosa di simile o di parallelo, chi scrisse che la condizione di vita ideale non è tanto vivere nella calma, ma permanere calmi e sereni durante la tempesta. La tempesta, nel nostro caso è, metaforicamente, lo stato di volontaria precarietà o insicurezza esterna permanente, il cui valore pratico è fondamentale in quanto si configura non solo come il più potente antidoto alle paure, ma viene annullato dalla sicurezza interiore dalla quale deriva la fiducia nelle nostre potenzialità.

Tutto nella vita è relativo e ha un significato diverso per individui diversi. Non perché la menzogna abbia lo stesso valore della verità, ma perché, lo si riconosca o meno, tutto viene filtrato attraverso i propri condizionamenti culturali. Da quella gabbia invisible, giudichiamo e prendiamo decisioni. Coloro che non possono fare a meno dei Marina ci giudicano temerari. Noi pensiamo invece che chi vive in barca in un Paese straniero dovrebbe rendersi conto di avere un’occasione unica di liberarsi dai o, almeno, di mettere a fuoco, i numerosi condizionamenti che ha ereditato dalla cultura d’origine. Come si può sperare di progredire sulla via della conoscenza e di affinamento della coscienza se si fanno esattamente le stesse cose di sempre?”
Chi non se ne rende conto, può davvero affermare di aver vissuto?

Fabrizio Accorsi

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