Mi ritrovai in
piedi, senza rendermene conto, accanto alla finestra dell’autocaravan, a
guardare fuori, nel vuoto. Ero balzato dal sedile con un movimento istintivo,
automatico. Sentivo le gambe molli.
Il grido
imprevedibile, altissimo, isolato, carico di terrore, nella sua lancinante
incidenza, veniva da lontano, dallo spazio sopra il poggio. Eppure era chiaro,
inconfondibile: era la voce di Patrizia! Rabbrividii. Indeciso sul da farsi,
feci qualche passo avanti e indietro sul pavimento dell’autocaravan,
parcheggiata dal pomeriggio precedente nel pittoresco parcheggio.
Il giorno prima,
durante la nostra escursione verso questa destinazione turistica – in verità,
non troppo frequentata – bastò il suo nome, Porta del Diavolo, a evocare
immagini di un ingresso al mondo sotterraneo attraverso caverne, misteriosi
crateri sulfurei, fumarole e pozzi di fango ribollente. Ma, non appena
arrivammo alla fine della strada, che si apriva in una spianata asfaltata, un
parcheggio inclinato costruito sul fondo di una suggestiva conca tra alte
pareti rocciose a strapiombo, ci domandammo con stupore dove si trovasse l’ingresso
al regno del diavolo.
Per quanto
aguzzassimo lo sguardo, non riuscivamo a scorgere né caverne né crateri nel
suolo del parcheggio, fresco d’asfalto. C’era però un piccolo cartello, alla
base di una delle pareti rocciose, che ne indicava la direzione. Non verso il
basso, ma in alto, verso il cielo, accessibile attraverso alcune rampe di scale
ricavate con cura dalla roccia viva. Gli scalini biancastri, quasi marmorei, si
avvolgevano, salendo, come la spirale di una fisarmonica; alcune rampe erano
intuibili dal basso, altre scomparivano dietro una curva, riapparendo più in
alto. Quale porta del diavolo ci avrebbe aspettato lassù?
Il mistero ebbe
la sua naturale soluzione alla fine della scalinata, cinquanta metri più in
alto, in un bel pianoro, una terrazza naturale coperta di muschio. Sembrava di
essere arrivati sulla cima del mondo. Ma di sotto...
“Questa deve
essere la porta” commentai avvicinandomi al bordo della piccola spianata. “Patrizia,
da questa parte, vieni a vedere. Ma fai attenzione.”
“Accidenti!” esclamò
Patrizia riprendendo fiato. “Non è per chi soffre di vertigini!”
Un precipizio
verticale da togliere il fiato si apriva davanti al nostro sguardo incredulo,
scendendo nella valle sottostante, mille metri più in basso. Era come un grosso
buco cosmico incastonato tra una serie di basse colline e di picchi scoscesi. Lo
spiazzo era privo di qualsiasi misura di protezione, né una balaustra né una
staccionata!
“Ho le gambe
molli. Magnifico, anche se inquietante.”
“E inquietante è
giocoforza che sia. Altrimenti che porta del diavolo sarebbe?”
“Sì, quel che è
sicuro è che un salto fin laggiù aprirebbe letteralmente la porta all’altro
mondo!”
Quando il
mattino seguente mi rimbalzò nel cervello il grido sovrumano di Patrizia, la
mia mente reagì mettendo insieme in una frazione di secondo tutti i dettagli.
L’effetto fu un’ondata di panico. Che fosse caduta nel precipizio?
Una ventina di
minuti prima, mi aveva rivelato: “Voglio ritornare lassù. Vieni con me?”
“Be’” esitai,
“stamattina preferirei far pratica di disegno.”
“Va bene. Porto
Andrea con me.”
“Fai attenzione.
Goditi il panorama.”
Li seguii con lo
sguardo attraverso la finestra della dinette finché scomparvero dietro la prima
rampa di scale. L’improvviso grido lancinante mi aveva fatto balzare dal sedile
come una molla che fosse inaspettatamente saltata via da un giocattolo rotto.
Rifiutavo di
credere che fosse caduta nel vuoto. In piedi, in bilico sugli zoccoli di legno
che isolavano i piedi dal pavimento freddo del mattino, cercai di riordinare le
idee. Ma non ne ebbi il tempo. Fui sorpreso da un secondo urlo, che mi fece
salire il cuore in gola: così acuto e penetrante da rimbombare in ogni parte
del parcheggio.
“Almeno non è
morta” fu la mia prima rassicurante deduzione mentre saltavo fuori, oltre lo
scalino esterno dell’autocaravan, e abbandonavo sull’asfalto, uno dopo l’altro,
gli zoccoli. Raggiunsi di corsa il primo scalino. Mi tranquillizzava il fatto
che gli spessi calzini mi avrebbero almeno protetto i piedi dalle pietruzze
sparse dovunque e dal ghiaino dei pianali, tra una rampa e l’altra.
Svelto. Più svelto! cercavo di
imporre alla mia volontà, mentre correvo verso il cielo. Ogni secondo è cruciale! Da allora mi ero quasi convinto che
Patrizia fosse caduta almeno per alcuni metri, si fosse miracolosamente
aggrappata a un cespuglio provvidenziale che sporgeva dal primo tratto di
roccia quasi verticale e stesse combattendo contro la gravità, terrorizzata
dalla vista del vuoto sottostante. Quanto avrebbe potuto resistere? Ce l’avrei
fatta ad arrivare in tempo? Oramai senza fiato, spaventato a morte e
preoccupato dell’eventualità di arrivare tardi, accelerai la corsa quasi oltre
i limiti. Diavolo, se avessi pensato a portare una corda! Adesso era troppo
tardi.
Una breve rampa
di scale mi condusse più in alto, sulla seconda terrazza. Mi fermai per
riprendere fiato: mancava molto alla cima. Il cuore batteva nel petto e
martellava le tempie come se volesse uscirne. Mi affrettai a salire di nuovo.
Dopo poco, mi trovavo quasi a metà strada. I secondi passavano troppo in fretta
e io mi sentivo inadeguatamente lento. Forza,
ogni secondo conta. Non puoi permetterti di fermarti di nuovo.
Poi un suono
ovattato, molto al di sopra della testa, attirò la mia attenzione. Mi fermai e
tesi l’orecchio. Il livello del rumore aumentava ogni secondo di più. E a un
certo punto mi resi conto che non si trattava di un rumore, ma di una specie di
ritmica filastrocca:
“Merda, merda... Aaah!... Merda,
merda... Aaah!” Sollevai lo sguardo e quello che vidi mi strappò
un sorriso. Perfettamente sincronizzato con ogni due “merda”, c’era un “aaah”
di dolore e, ogni volta che Patrizia scendeva due scalini, un rimbalzare
sincronizzato dei suoi meloni nudi.
La scena sarebbe stata da filmare.
Anche lei era
senza fiato. Subito dopo, notai il cane correre giù per le scale precedendola
di qualche passo.
Patrizia
indossava un paio di calzoncini corti e, a petto nudo, usava la sua T-shirt
come arma improvvisata per infliggere all’aria circostante colpi pieni d’ira.
Ogni colpo era accompagnato da un “merda”.
Persino Andrea
aveva il suo daffare: quando mi fu vicino, vidi che anche lui combatteva
istericamente contro gli intrusi con improvvisi scatti del muso, cercando di
afferrarli coi denti. C’erano insetti simili ad api tutto intorno. Ciò che
preoccupava erano le loro mostruose dimensioni. Gliene rimossi in fretta un
paio dal pelo, vicino alla testa, e poi mi affrettai a soccorrere Patrizia.
Ne aveva ancora
parecchi che le ronzavano attorno: alcuni le camminavano sulla schiena, altri
sulle braccia. Impigliati nei lunghi capelli sciolti, ce n’erano altri che
cercavano invano di liberarsi. Patrizia urlava di dolore. Affondai le dita tra
le ciocche, dove ce n’erano molti, prendendoli in mano per districarli dal
groviglio; quando le sollevai i capelli, ne vidi alcuni sul collo. Infine, ne
rimossi un paio che si erano incollati alla sua maglietta. Come c’era da
aspettarsi, ricevetti anch’io delle pizzicate in entrambe le mani.
“Cos’è
successo?” domandai quando gli insetti se ne furono andati.
“Avevo appena
raggiunto il pianoro sulla cima e mi ero seduta per godermi la vista, quando
udii un ronzio indistinto alle mie spalle, dalla parte degli scalini. Il rumore
aumentava di volume. Qualcosa si stava avvicinando. Mi voltai e, subito dopo,
la vidi: proprio al di sopra del sentiero, una enorme nube nera, compatta,
ronzava minacciosa, dirigendosi nella mia direzione dagli ultimi scalini.”
Enfatizzò queste ultime parole con gesti nell’aria, come a voler mimare
quell’immenso sciame impazzito. Poi riprese: “Avevo solo due possibilità, dal
momento che mettermi in salvo correndo verso il precipizio non era un’opzione.
La prima era sdraiarmi con la pancia per terra, rimanere immobile con le mani
sulla testa e aspettare che lo sciame passasse oltre. Ma così facendo avrei
lasciato Andrea indifeso. La seconda alternativa era cercare di aprirmi la
strada attraverso lo sciame. Così ho fatto. Alcuni degli insetti, probabilmente
disorientati, tornarono indietro e mi inseguirono giù per le scale,
attaccandomi da ogni parte. Fu allora che, per evitare ulteriori punture, mi
tolsi la maglietta per cercare di allontanarli.”
Nel frattempo
eravamo arrivati al parcheggio. Appena entrammo nell’autocaravan, Patrizia
afferrò subito una bottiglia che conteneva un liquido blu e cominciò a
spruzzarselo sul collo, sulla schiena e sulla testa.
“Non è un
detergente per i vetri?” le chiesi.
“Sì, è il solito
Windex. Contiene ammoniaca, dovrebbe prevenire il rigonfiamento dei tessuti.”
Anche Andrea fu abbondantemente nebulizzato.
Anche Andrea fu abbondantemente nebulizzato.
Con calma,
determinammo che Patrizia aveva ricevuto almeno venticinque punture e Andrea
una mezza dozzina. Io ne contai cinque sulle mani.
La mascella di
Andrea cominciò a gonfiarsi qualche tempo dopo, ma apparve subito chiaro che un
altro po’ di Windex sarebbe riuscito a tenere sotto controllo l’infiammazione.
La cosa
preoccupante erano i numerosi bozzi di Patrizia. Che non fosse allergica era
evidente. In tal caso, una sola puntura sarebbe stata sufficiente a causare uno
shock anafilattico, e questo non era successo. Ed era una fortuna, perché a
quel tempo non avevamo ancora scoperto l’efficacia degli antistaminici in casi
simili. Uno di questi, prelevato dal kit di emergenza della barca a vela, quasi
vent’anni più tardi, avrebbe salvato la vita a uno dei nostri cani su
un’isoletta deserta. Fu una questione di minuti, aveva già la lingua grigia!
Patrizia continuava
a sentirsi bene. Però, una settimana più tardi, tutte le dita dei piedi
incominciarono a gonfiarsi e a coprirsi di uno strano colore blu-viola
scurissimo; le dita infiammate presentavano un alone rosso-marrone tutto
intorno all’area viola.
Discutemmo sulla
possibile origine di quella cosa orribile, che non prometteva niente di buono.
Infine ci rassicurammo ipotizzando che il corpo, incapace di liberarsi dalla
straordinaria quantità di tossine causate dal veleno degli insetti, con
l’ausilio della gravità le aveva spinte nel punto più lontano dagli organi
vitali. Per un mese intero Patrizia non riuscì a mettersi le scarpe, dovendo
usare esclusivamente ciabatte aperte.
Da allora, ogni
qualvolta sente un ronzio lontano anche di un paio di api, si fa prendere dal
panico e, se si trova in un bosco, tende a fare una grossa deviazione o a
tornare indietro, piuttosto che ritrovarsi in una situazione simile. Ma
Patrizia non fu la sola a comportarsi così. Nemmeno Andrea aveva dimenticato.
È venuto il
momento di dare a chi legge un’idea delle dimensioni di quegli insetti: api,
vespe o qualunque cosa fossero.
Un giorno, da
qualche parte in Centro America, ce ne stavamo in piedi a pochi passi dal retro
dell’autocaravan, quando, d’improvviso, Andrea prese la corsa per saltare
dentro attraverso la porta aperta e rifugiarsi sotto il tavolo. Non ci fu
difficile determinare la ragione del suo insolito comportamento, perché, un
attimo dopo, vedemmo spostarsi nella nostra direzione una enorme nube nera di
insetti. Erano decine di migliaia, di dimensioni mostruose, e, all’ultimo
momento, si divisero in due per evitare le pareti dell’autocaravan e proseguire
il volo a gran velocità. Ma noi non ci eravamo mossi, perché ci era stato
facile identificarli: erano innocue libellule!
La porta del diavolo oggi |
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