sabato 30 maggio 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 18: La porta del diavolo




 “Aaaaaah!...” 
Mi ritrovai in piedi, senza rendermene conto, accanto alla finestra dell’autocaravan, a guardare fuori, nel vuoto. Ero balzato dal sedile con un movimento istintivo, automatico. Sentivo le gambe molli.

Il grido imprevedibile, altissimo, isolato, carico di terrore, nella sua lancinante incidenza, veniva da lontano, dallo spazio sopra il poggio. Eppure era chiaro, inconfondibile: era la voce di Patrizia! Rabbrividii. Indeciso sul da farsi, feci qualche passo avanti e indietro sul pavimento dell’autocaravan, parcheggiata dal pomeriggio precedente nel pittoresco parcheggio.

Il giorno prima, durante la nostra escursione verso questa destinazione turistica – in verità, non troppo frequentata – bastò il suo nome, Porta del Diavolo, a evocare immagini di un ingresso al mondo sotterraneo attraverso caverne, misteriosi crateri sulfurei, fumarole e pozzi di fango ribollente. Ma, non appena arrivammo alla fine della strada, che si apriva in una spianata asfaltata, un parcheggio inclinato costruito sul fondo di una suggestiva conca tra alte pareti rocciose a strapiombo, ci domandammo con stupore dove si trovasse l’ingresso al regno del diavolo.



Per quanto aguzzassimo lo sguardo, non riuscivamo a scorgere né caverne né crateri nel suolo del parcheggio, fresco d’asfalto. C’era però un piccolo cartello, alla base di una delle pareti rocciose, che ne indicava la direzione. Non verso il basso, ma in alto, verso il cielo, accessibile attraverso alcune rampe di scale ricavate con cura dalla roccia viva. Gli scalini biancastri, quasi marmorei, si avvolgevano, salendo, come la spirale di una fisarmonica; alcune rampe erano intuibili dal basso, altre scomparivano dietro una curva, riapparendo più in alto. Quale porta del diavolo ci avrebbe aspettato lassù?

Il mistero ebbe la sua naturale soluzione alla fine della scalinata, cinquanta metri più in alto, in un bel pianoro, una terrazza naturale coperta di muschio. Sembrava di essere arrivati sulla cima del mondo. Ma di sotto...

“Questa deve essere la porta” commentai avvicinandomi al bordo della piccola spianata. “Patrizia, da questa parte, vieni a vedere. Ma fai attenzione.”

“Accidenti!” esclamò Patrizia riprendendo fiato. “Non è per chi soffre di vertigini!”

Un precipizio verticale da togliere il fiato si apriva davanti al nostro sguardo incredulo, scendendo nella valle sottostante, mille metri più in basso. Era come un grosso buco cosmico incastonato tra una serie di basse colline e di picchi scoscesi. Lo spiazzo era privo di qualsiasi misura di protezione, né una balaustra né una staccionata!

“Ho le gambe molli. Magnifico, anche se inquietante.”

“E inquietante è giocoforza che sia. Altrimenti che porta del diavolo sarebbe?”

“Sì, quel che è sicuro è che un salto fin laggiù aprirebbe letteralmente la porta all’altro mondo!”

Quando il mattino seguente mi rimbalzò nel cervello il grido sovrumano di Patrizia, la mia mente reagì mettendo insieme in una frazione di secondo tutti i dettagli. L’effetto fu un’ondata di panico. Che fosse caduta nel precipizio?

Una ventina di minuti prima, mi aveva rivelato: “Voglio ritornare lassù. Vieni con me?”

“Be’” esitai, “stamattina preferirei far pratica di disegno.”

“Va bene. Porto Andrea con me.”

“Fai attenzione. Goditi il panorama.”

Li seguii con lo sguardo attraverso la finestra della dinette finché scomparvero dietro la prima rampa di scale. L’improvviso grido lancinante mi aveva fatto balzare dal sedile come una molla che fosse inaspettatamente saltata via da un giocattolo rotto.

Rifiutavo di credere che fosse caduta nel vuoto. In piedi, in bilico sugli zoccoli di legno che isolavano i piedi dal pavimento freddo del mattino, cercai di riordinare le idee. Ma non ne ebbi il tempo. Fui sorpreso da un secondo urlo, che mi fece salire il cuore in gola: così acuto e penetrante da rimbombare in ogni parte del parcheggio.

“Almeno non è morta” fu la mia prima rassicurante deduzione mentre saltavo fuori, oltre lo scalino esterno dell’autocaravan, e abbandonavo sull’asfalto, uno dopo l’altro, gli zoccoli. Raggiunsi di corsa il primo scalino. Mi tranquillizzava il fatto che gli spessi calzini mi avrebbero almeno protetto i piedi dalle pietruzze sparse dovunque e dal ghiaino dei pianali, tra una rampa e l’altra.

Svelto. Più svelto! cercavo di imporre alla mia volontà, mentre correvo verso il cielo. Ogni secondo è cruciale! Da allora mi ero quasi convinto che Patrizia fosse caduta almeno per alcuni metri, si fosse miracolosamente aggrappata a un cespuglio provvidenziale che sporgeva dal primo tratto di roccia quasi verticale e stesse combattendo contro la gravità, terrorizzata dalla vista del vuoto sottostante. Quanto avrebbe potuto resistere? Ce l’avrei fatta ad arrivare in tempo? Oramai senza fiato, spaventato a morte e preoccupato dell’eventualità di arrivare tardi, accelerai la corsa quasi oltre i limiti. Diavolo, se avessi pensato a portare una corda! Adesso era troppo tardi.

Una breve rampa di scale mi condusse più in alto, sulla seconda terrazza. Mi fermai per riprendere fiato: mancava molto alla cima. Il cuore batteva nel petto e martellava le tempie come se volesse uscirne. Mi affrettai a salire di nuovo. Dopo poco, mi trovavo quasi a metà strada. I secondi passavano troppo in fretta e io mi sentivo inadeguatamente lento. Forza, ogni secondo conta. Non puoi permetterti di fermarti di nuovo.

Poi un suono ovattato, molto al di sopra della testa, attirò la mia attenzione. Mi fermai e tesi l’orecchio. Il livello del rumore aumentava ogni secondo di più. E a un certo punto mi resi conto che non si trattava di un rumore, ma di una specie di ritmica filastrocca:

“Merda, merda... Aaah!... Merda, merda... Aaah!” Sollevai lo sguardo e quello che vidi mi strappò un sorriso. Perfettamente sincronizzato con ogni due “merda”, c’era un “aaah” di dolore e, ogni volta che Patrizia scendeva due scalini, un rimbalzare sincronizzato dei suoi meloni nudi. La scena sarebbe stata da filmare.

Anche lei era senza fiato. Subito dopo, notai il cane correre giù per le scale precedendola di qualche passo.

Patrizia indossava un paio di calzoncini corti e, a petto nudo, usava la sua T-shirt come arma improvvisata per infliggere all’aria circostante colpi pieni d’ira. Ogni colpo era accompagnato da un “merda”.

Persino Andrea aveva il suo daffare: quando mi fu vicino, vidi che anche lui combatteva istericamente contro gli intrusi con improvvisi scatti del muso, cercando di afferrarli coi denti. C’erano insetti simili ad api tutto intorno. Ciò che preoccupava erano le loro mostruose dimensioni. Gliene rimossi in fretta un paio dal pelo, vicino alla testa, e poi mi affrettai a soccorrere Patrizia.

Ne aveva ancora parecchi che le ronzavano attorno: alcuni le camminavano sulla schiena, altri sulle braccia. Impigliati nei lunghi capelli sciolti, ce n’erano altri che cercavano invano di liberarsi. Patrizia urlava di dolore. Affondai le dita tra le ciocche, dove ce n’erano molti, prendendoli in mano per districarli dal groviglio; quando le sollevai i capelli, ne vidi alcuni sul collo. Infine, ne rimossi un paio che si erano incollati alla sua maglietta. Come c’era da aspettarsi, ricevetti anch’io delle pizzicate in entrambe le mani.

“Cos’è successo?” domandai quando gli insetti se ne furono andati.

“Avevo appena raggiunto il pianoro sulla cima e mi ero seduta per godermi la vista, quando udii un ronzio indistinto alle mie spalle, dalla parte degli scalini. Il rumore aumentava di volume. Qualcosa si stava avvicinando. Mi voltai e, subito dopo, la vidi: proprio al di sopra del sentiero, una enorme nube nera, compatta, ronzava minacciosa, dirigendosi nella mia direzione dagli ultimi scalini.” Enfatizzò queste ultime parole con gesti nell’aria, come a voler mimare quell’immenso sciame impazzito. Poi riprese: “Avevo solo due possibilità, dal momento che mettermi in salvo correndo verso il precipizio non era un’opzione. La prima era sdraiarmi con la pancia per terra, rimanere immobile con le mani sulla testa e aspettare che lo sciame passasse oltre. Ma così facendo avrei lasciato Andrea indifeso. La seconda alternativa era cercare di aprirmi la strada attraverso lo sciame. Così ho fatto. Alcuni degli insetti, probabilmente disorientati, tornarono indietro e mi inseguirono giù per le scale, attaccandomi da ogni parte. Fu allora che, per evitare ulteriori punture, mi tolsi la maglietta per cercare di allontanarli.”

Nel frattempo eravamo arrivati al parcheggio. Appena entrammo nell’autocaravan, Patrizia afferrò subito una bottiglia che conteneva un liquido blu e cominciò a spruzzarselo sul collo, sulla schiena e sulla testa.

“Non è un detergente per i vetri?” le chiesi.

“Sì, è il solito Windex. Contiene ammoniaca, dovrebbe prevenire il rigonfiamento dei tessuti.”
Anche Andrea fu abbondantemente nebulizzato.

Con calma, determinammo che Patrizia aveva ricevuto almeno venticinque punture e Andrea una mezza dozzina. Io ne contai cinque sulle mani.

La mascella di Andrea cominciò a gonfiarsi qualche tempo dopo, ma apparve subito chiaro che un altro po’ di Windex sarebbe riuscito a tenere sotto controllo l’infiammazione.

La cosa preoccupante erano i numerosi bozzi di Patrizia. Che non fosse allergica era evidente. In tal caso, una sola puntura sarebbe stata sufficiente a causare uno shock anafilattico, e questo non era successo. Ed era una fortuna, perché a quel tempo non avevamo ancora scoperto l’efficacia degli antistaminici in casi simili. Uno di questi, prelevato dal kit di emergenza della barca a vela, quasi vent’anni più tardi, avrebbe salvato la vita a uno dei nostri cani su un’isoletta deserta. Fu una questione di minuti, aveva già la lingua grigia!

Patrizia continuava a sentirsi bene. Però, una settimana più tardi, tutte le dita dei piedi incominciarono a gonfiarsi e a coprirsi di uno strano colore blu-viola scurissimo; le dita infiammate presentavano un alone rosso-marrone tutto intorno all’area viola.

Discutemmo sulla possibile origine di quella cosa orribile, che non prometteva niente di buono. Infine ci rassicurammo ipotizzando che il corpo, incapace di liberarsi dalla straordinaria quantità di tossine causate dal veleno degli insetti, con l’ausilio della gravità le aveva spinte nel punto più lontano dagli organi vitali. Per un mese intero Patrizia non riuscì a mettersi le scarpe, dovendo usare esclusivamente ciabatte aperte.

Da allora, ogni qualvolta sente un ronzio lontano anche di un paio di api, si fa prendere dal panico e, se si trova in un bosco, tende a fare una grossa deviazione o a tornare indietro, piuttosto che ritrovarsi in una situazione simile. Ma Patrizia non fu la sola a comportarsi così. Nemmeno Andrea aveva dimenticato.

È venuto il momento di dare a chi legge un’idea delle dimensioni di quegli insetti: api, vespe o qualunque cosa fossero.

Un giorno, da qualche parte in Centro America, ce ne stavamo in piedi a pochi passi dal retro dell’autocaravan, quando, d’improvviso, Andrea prese la corsa per saltare dentro attraverso la porta aperta e rifugiarsi sotto il tavolo. Non ci fu difficile determinare la ragione del suo insolito comportamento, perché, un attimo dopo, vedemmo spostarsi nella nostra direzione una enorme nube nera di insetti. Erano decine di migliaia, di dimensioni mostruose, e, all’ultimo momento, si divisero in due per evitare le pareti dell’autocaravan e proseguire il volo a gran velocità. Ma noi non ci eravamo mossi, perché ci era stato facile identificarli: erano innocue libellule!
La porta del diavolo oggi

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