martedì 16 aprile 2019

Storia # 17, Il clacson - Melbourne, Australia

Storia # 17, Il clacson - Melbourne, Australia


  Questa è la terza (e l’ultima) storia tratta da Il nostro canto libero, con il permesso di Europa Edizioni, che ringrazio per la collaborazione.




Camper Westfalia con il soffitto rialzabile (poop-up-roof) identico al nostro, con il quale abbiamo percorso l’Australia da costa a costa. Il curioso paraurti è a prova di impatto con i canguri e per questo si chiama “roo-bar” cioè “kangaroo-bar”.

 Il racconto che segue è ambientato dentro il camper, parcheggiato a lato di una strada del centro di Melbourne. Il protagonista è il nostro cane di allora (anni ottanta), Andrea, un incrocio tra la madre labrador e il padre weimaraner, che appare in cinque storie de Il nostro canto libero e in altre quattro del secondo libro Il viaggio continua.

 Fabrizio Accorsi




 Avevo addestrato Andrea a rispondere Si con la zampa destra all’offerta di un biscotto o di altro cibo che gradiva, e No con la sinistra all’offerta di un mezzo limone, una sigaretta, alcool o altre cose sgradevoli. Ovviamente, in circostanze normali, non aveva bisogno della tavola con il Sí e il No scritti davanti a lui. Rispondeva Sí allungando la zampa nella mia mano e si asteneva per dire No. Tuttavia, per facilitare ai lettori del giornale la comprensione delle varie azioni, ho dovuto apportare, come vedete, una modifica al modo usuale di rispondere di Andrea (modifica alla quale lui si adattò con entusiasmo – avrebbe fatto qualsiasi cosa per una ricompensa in cibo, cosa che facili enormemente l’addestramento). Nella storia che segue, invece, la zampa viene utilizzata in modo diverso: per suonare il clacson. Buona lettura!




  Storia # 17, Il clacson - Melbourne, Australia


 All’uscita dal solito mega centro commerciale di Melbourne, Andrea aspettava come di consueto seduto dietro alle grandi porte scorrevoli di vetro, impegnato nel suo gioco preferito. Di tanto in tanto si alzava, faceva qualche passo verso l’entrata e le faceva aprire; ma sempre senza entrare. Con il semplice impiego del metodo della prova ed errore, aveva capito qual era il limite entro cui sedere senza far scattare le porte.

 La prima volta gli avevamo detto di aspettare fuori. Però, quando le porte si spalancarono al nostro passaggio, cercò di seguirci. Lo riportammo oltre l’ingresso, spiegandogli che ai cani non era permesso entrare. Non visti, lo osservammo poi dall’interno: non c’era dubbio che avesse capito e deciso di ubbidire, ma il «gioco delle porte» risultò una tentazione irresistibile. D’altra parte, era un gioco innocuo e potevamo ben fargli una concessione. Nella marea di gente che entrava e usciva, molti non lo notavano nemmeno, mentre alcuni si fermavano addirittura a osservare il suo comportamento: c’era chi si guardava intorno inquieto, come a cercare il proprietario di un cane che si era perso; qualcuno lo accarezzava e gli rivolgeva la parola; i bambini ne erano affascinati e dovevano essere trascinati via dai genitori.

 Stracarichi come sempre di borse della spesa, anche quella volta ci incamminammo verso il camper, parcheggiato in una strada laterale. Avevamo appena posato le borse sul pavimento della dinette e preso posto nella cabina di guida, quando vidi arrivare il mio amico Spiros, proprietario e preside della già menzionata scuola greca, il quale si fermò accanto al mio finestrino.

 Andrea, nel frattempo, esausto per aver bruciato tante energie col suo gioco, era collassato ai piedi di Patrizia.

«Ti canis?» (come va/stai?), salutò in greco.

 D’istinto, abbassai lo sguardo. Vidi i muscoli di Andrea contrarsi mentre reprimeva l’impulso di saltar su e guardare fuori dal finestrino. Stavolta si sedette e sollevò la testa verso di noi, cercando il contatto oculare con un’espressione interrogativa.

 Ci sono o non ci sono i cani, stavolta? sembrava chiedere. Ma aveva già capito che non ce n’erano.
Pensavo con soddisfazione, ma anche con incredulità, che gli ci era voluta una sola volta per superare il riflesso condizionato creato dal suono della parola canis, identica a cani, che aveva pronunciato Georgios alcuni giorni prima in circostanze simili. Lo rassicurammo che, come nell’altra occasione, si trattava di un falso allarme, che non c’erano cani nella strada. Rimase seduto. Spiros non capiva.
«Che cosa fa il Signor Andrea?» chiese.
 Gli raccontai l’episodio di cui era stato testimone Georgios: come Andrea era saltato su col muso fuori del finestrino, quando Georgios mi aveva salutato con la stessa frase in greco. E come adesso, invece, aveva represso l’impulso. Spiros non nascose il suo stupore. Nel frattempo Andrea, percependo che si parlava di lui, ci scrutava con interesse seguendo con lo sguardo chi parlava. Lo feci salire sulle ginocchia.
«Voglio mostrarti una cosa» dissi a Spiros. «Ma, per ciò che ho in mente, dovresti spostarti vicino alla porta di quel negozio, sul marciapiede. Mettiti là e ascolta i commenti della gente.» Mi abbassai fino a inginocchiarmi sul pavimento, per non essere più visibile da fuori, e così fece anche Patrizia, che aveva intuito le mie intenzioni. Andrea si sedette sul mio sedile.
 Chi camminava sul marciapiede era ora in grado di vedere soltanto la testa e il torso di un cane al di sopra del volante. Avevamo ripetuto questo gioco così tante volte, da poter prevedere le reazioni dei passanti in modo abbastanza preciso.
 Girai la chiave nella prima delle due posizioni possibili: adesso il circuito era chiuso e il clacson poteva essere attivato. Quando vidi venire avanti una coppia con una bambina, dissi ad Andrea di suonare il clacson. Nel Volkswagen, questo è un grosso «bottone» rotondo posizionato nel centro del volante: è abbastanza pesante per un cane, ed è necessaria molta pressione della zampa. Qualche volta Andrea ci riusciva al primo tentativo, altre volte al secondo. Da una fessura tra due pacchetti nel cruscotto, vidi la bambina voltarsi indietro dopo il primo suono e fermarsi a osservare con la bocca aperta il cane che continuava a suonare. Non sarebbe stata meno stupita se avesse visto un Marziano.
«Muoviti, perché ti fermi sempre?» la rimproverò la madre.
 «Mamma, c’è un cane che suona il clacson!» disse eccitata, senza staccare lo sguardo dall’animale.
«Certo, certo» commentò il padre. «Sbrigati.»
«Vi dico che c’è un cane che suona il clacson!» insistette la bambina, con voce stridula.
«Smettila di dire sciocchezze. I cani non suonano il clacson» i genitori continuarono a camminare.
«Perché non mi credete mai!» concluse, con un tono di rassegnazione che la diceva lunga.
Spiros udì la conversazione e sono sicuro che da buon insegnante, come me, ne fu turbato. Ebbe però la presenza di spirito, che io non avrei avuto, di correre dietro alla famiglia e di farla fermare. Disse loro, con molta circospezione: «Scusatemi, ma dice il vero. L’ho visto anch’io. Là, in quel camper.»
 La bambina si rivolse al suo salvatore con un’espressione di gratitudine, come Spiros mi fece sapere in un secondo tempo. I genitori sembravano disorientati. Era una dura lezione. Spiros li condusse gentilmente vicino al camper e li fece fermare sul marciapiede, all’altezza del mio finestrino. Capii le sue intenzioni e lo anticipai in ciò che mi avrebbe chiesto. Prima che parlasse, dissi: «Per favore, Andrea, suona il clacson, l’ultima volta.» Quando Andrea suonò il clacson, la madre, con gli occhi umidi, abbracciò la sua bambina. Spiros mi strizzò l’occhio con aria sorniona e soddisfatta.
 Alcuni anni dopo, in un altro continente, Patrizia ritornando da una passeggiata con Andrea mi disse che aveva una piccola storia da raccontare. Era seduta su una panchina di un parco quando una bambina, di non più di tre anni, si avvicinò e le domandò come si chiamava il cane.
«Andrea» aveva risposto Patrizia. La bimba lo accarezzò più volte, fece un paio di domande e poi se ne andò.
Erano trascorsi pochi minuti quando si avvicinò un signore, tenendo per mano la stessa bambina.
«È suo il cane?… Bel cane» commentò. «Come si chiama?».
«Andrea» replicò Patrizia.
Sembrava sollevato. «Di solito» dichiarò, «non dice bugie. Stavolta non ne ero sicuro al cento per cento. È un nome insolito per un cane… un nome di persona… Dovevo controllare…».
Sollevò la piccola, la strinse al petto e la baciò dicendole: «Avevi ragione, tesoro. Scusami per aver dubitato».



Questa rivista australiana, ha titolato l’articolo su Andrea: “Un cucciolo che si crede un essere umano”. È uno degli articoli sopravvissuti all’entropia galoppante. Ha sfidato 13 anni di viaggi in autocaravan e 24 di umidità nei tropici a bordo della barca a vela. È un miracolo che sia ancora leggibile!
 

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