Storia # 17, Il clacson - Melbourne, Australia |
Questa è la terza (e l’ultima) storia tratta da Il nostro canto libero, con il permesso di Europa Edizioni, che ringrazio per la collaborazione.
Camper Westfalia con il soffitto rialzabile (poop-up-roof) identico al
nostro, con il quale abbiamo percorso l’Australia da costa a costa. Il curioso
paraurti è a prova di impatto con i canguri e per questo si chiama “roo-bar” cioè
“kangaroo-bar”.
Il racconto che segue è ambientato dentro il camper, parcheggiato a lato di una strada del centro di Melbourne. Il protagonista è il nostro cane di allora (anni ottanta), Andrea, un incrocio tra la madre labrador e il padre weimaraner, che appare in cinque storie de Il nostro canto libero e in altre quattro del secondo libro Il viaggio continua.
Fabrizio Accorsi
Avevo addestrato Andrea a rispondere Si con la zampa destra all’offerta di un biscotto o
di altro cibo che gradiva, e No con la sinistra all’offerta di un mezzo limone,
una sigaretta, alcool o altre cose sgradevoli. Ovviamente, in circostanze
normali, non aveva bisogno della tavola con il Sí e il No scritti davanti a lui.
Rispondeva Sí allungando la zampa nella mia mano e si asteneva per dire No. Tuttavia,
per facilitare ai lettori del giornale la comprensione delle varie azioni, ho
dovuto apportare, come vedete, una modifica al modo usuale di rispondere di
Andrea (modifica alla quale lui si adattò con
entusiasmo – avrebbe fatto qualsiasi cosa per una ricompensa in cibo, cosa che
facilitò enormemente l’addestramento).
Nella storia che segue, invece, la zampa viene utilizzata in modo diverso: per
suonare il clacson. Buona lettura!
All’uscita
dal solito mega centro commerciale di Melbourne, Andrea aspettava come di
consueto seduto dietro alle grandi porte scorrevoli di vetro, impegnato nel suo
gioco preferito. Di tanto in tanto si alzava, faceva qualche passo verso l’entrata
e le faceva aprire; ma sempre senza entrare. Con il semplice impiego del metodo
della prova ed errore, aveva capito qual era il limite entro cui sedere senza
far scattare le porte.
La
prima volta gli avevamo detto di aspettare fuori. Però, quando le porte si
spalancarono al nostro passaggio, cercò di seguirci. Lo riportammo oltre l’ingresso,
spiegandogli che ai cani non era permesso entrare. Non visti, lo osservammo poi
dall’interno: non c’era dubbio che avesse capito e deciso di ubbidire, ma il
«gioco delle porte» risultò una tentazione irresistibile. D’altra parte, era un
gioco innocuo e potevamo ben fargli una concessione. Nella marea di gente che
entrava e usciva, molti non lo notavano nemmeno, mentre alcuni si fermavano
addirittura a osservare il suo comportamento: c’era chi si guardava intorno
inquieto, come a cercare il proprietario di un cane che si era perso; qualcuno
lo accarezzava e gli rivolgeva la parola; i bambini ne erano affascinati e
dovevano essere trascinati via dai genitori.
Stracarichi
come sempre di borse della spesa, anche quella volta ci incamminammo verso il
camper, parcheggiato in una strada laterale. Avevamo appena posato le borse sul
pavimento della dinette e preso posto nella cabina di guida, quando vidi
arrivare il mio amico Spiros, proprietario e preside della già menzionata
scuola greca, il quale si fermò accanto al mio finestrino.
Andrea,
nel frattempo, esausto per aver bruciato tante energie col suo gioco, era
collassato ai piedi di Patrizia.
«Ti
canis?» (come va/stai?), salutò in
greco.
D’istinto,
abbassai lo sguardo. Vidi i muscoli di Andrea contrarsi mentre reprimeva l’impulso
di saltar su e guardare fuori dal finestrino. Stavolta si sedette e sollevò la
testa verso di noi, cercando il contatto oculare con un’espressione
interrogativa.
Ci sono o non ci sono i cani, stavolta?
sembrava chiedere. Ma aveva già capito che non ce n’erano.
Pensavo
con soddisfazione, ma anche con incredulità, che gli ci era voluta una sola
volta per superare il riflesso condizionato creato dal suono della parola canis, identica a cani, che aveva pronunciato Georgios alcuni giorni prima in
circostanze simili. Lo rassicurammo che, come nell’altra occasione, si trattava
di un falso allarme, che non c’erano cani nella strada. Rimase seduto. Spiros
non capiva.
«Che
cosa fa il Signor Andrea?» chiese.
Gli
raccontai l’episodio di cui era stato testimone Georgios: come Andrea era
saltato su col muso fuori del finestrino, quando Georgios mi aveva salutato con
la stessa frase in greco. E come adesso, invece, aveva represso l’impulso.
Spiros non nascose il suo stupore. Nel frattempo Andrea, percependo che si
parlava di lui, ci scrutava con interesse seguendo con lo sguardo chi parlava.
Lo feci salire sulle ginocchia.
«Voglio
mostrarti una cosa» dissi a Spiros. «Ma, per ciò che ho in mente, dovresti
spostarti vicino alla porta di quel negozio, sul marciapiede. Mettiti là e
ascolta i commenti della gente.» Mi abbassai fino a inginocchiarmi sul
pavimento, per non essere più visibile da fuori, e così fece anche Patrizia,
che aveva intuito le mie intenzioni. Andrea si sedette sul mio sedile.
Chi
camminava sul marciapiede era ora in grado di vedere soltanto la testa e il
torso di un cane al di sopra del volante. Avevamo ripetuto questo gioco così
tante volte, da poter prevedere le reazioni dei passanti in modo abbastanza
preciso.
Girai
la chiave nella prima delle due posizioni possibili: adesso il circuito era
chiuso e il clacson poteva essere attivato. Quando vidi venire avanti una
coppia con una bambina, dissi ad Andrea di suonare il clacson. Nel Volkswagen, questo
è un grosso «bottone» rotondo posizionato nel centro del volante: è abbastanza
pesante per un cane, ed è necessaria molta pressione della zampa. Qualche volta
Andrea ci riusciva al primo tentativo, altre volte al secondo. Da una fessura
tra due pacchetti nel cruscotto, vidi la bambina voltarsi indietro dopo il
primo suono e fermarsi a osservare con la bocca aperta il cane che continuava a
suonare. Non sarebbe stata meno stupita se avesse visto un Marziano.
«Muoviti,
perché ti fermi sempre?» la rimproverò la madre.
«Mamma,
c’è un cane che suona il clacson!» disse eccitata, senza staccare lo sguardo
dall’animale.
«Certo,
certo» commentò il padre. «Sbrigati.»
«Vi
dico che c’è un cane che suona il clacson!» insistette la bambina, con voce
stridula.
«Smettila
di dire sciocchezze. I cani non suonano il clacson» i genitori continuarono a
camminare.
«Perché
non mi credete mai!» concluse, con un tono di rassegnazione che la diceva
lunga.
Spiros
udì la conversazione e sono sicuro che da buon insegnante, come me, ne fu
turbato. Ebbe però la presenza di spirito, che io non avrei avuto, di correre
dietro alla famiglia e di farla fermare. Disse loro, con molta circospezione:
«Scusatemi, ma dice il vero. L’ho visto anch’io. Là, in quel camper.»
La
bambina si rivolse al suo salvatore con un’espressione di gratitudine, come
Spiros mi fece sapere in un secondo tempo. I genitori sembravano disorientati.
Era una dura lezione. Spiros li condusse gentilmente vicino al camper e li fece
fermare sul marciapiede, all’altezza del mio finestrino. Capii le sue
intenzioni e lo anticipai in ciò che mi avrebbe chiesto. Prima che parlasse,
dissi: «Per favore, Andrea, suona il clacson, l’ultima volta.» Quando Andrea
suonò il clacson, la madre, con gli occhi umidi, abbracciò la sua bambina.
Spiros mi strizzò l’occhio con aria sorniona e soddisfatta.
Alcuni
anni dopo, in un altro continente, Patrizia ritornando da una passeggiata con
Andrea mi disse che aveva una piccola storia da raccontare. Era seduta su una
panchina di un parco quando una bambina, di non più di tre anni, si avvicinò e
le domandò come si chiamava il cane.
«Andrea»
aveva risposto Patrizia. La bimba lo accarezzò più volte, fece un paio di
domande e poi se ne andò.
Erano
trascorsi pochi minuti quando si avvicinò un signore, tenendo per mano la
stessa bambina.
«È
suo il cane?… Bel cane» commentò. «Come si chiama?».
«Andrea»
replicò Patrizia.
Sembrava
sollevato. «Di solito» dichiarò, «non dice bugie. Stavolta non ne ero sicuro al
cento per cento. È un nome insolito per un cane… un nome di persona… Dovevo
controllare…».
Sollevò
la piccola, la strinse al petto e la baciò dicendole: «Avevi ragione, tesoro.
Scusami per aver dubitato».
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