Sono molto affezionato a una breve storia di pesca subacquea che ha come teatro d’azione le acque della Costa Rica. La bellissima distesa bianco-aranciato, che avevamo scelto per un soggiorno di tre mesi, ha un nome suggestivo: Playa del Coco. Dalla dinette dell’autocaravan, parcheggiato in alto, sopra l’anfiteatro naturale della spiaggia, la vista era gratificante: l’ampia baia protetta, con un paio di isolotti sullo sfondo, ospitava alcune barche a vela; le insenature limitrofe, incastonate da promontori rocciosi, invitavano a escursioni in kayak; il vento di terra manteneva la superficie del mare un calmo invitante azzurro; i fondali, abbondanti di pesce promettevano interessanti esplorazioni. Però l’acqua invernale, gelata, suggeriva l’impiego di una muta abbastanza spessa per fare pesca subacquea .
Quasi ogni mattina scendevo per il dolce pendio, fino alla battigia, vicino al vecchio pontile non più in uso. È là che mi mettevo la muta, gli stivaletti, la cintura con i pesi, la maschera e le pinne.
Non diversamente dal solito, anche quella mattina seguii quello che, ai non addetti ai lavori, avrebbe potuto sembrare un elaborato cerimoniale. In effetti, stavo per risciacquare l’ultimo pezzo dell’attrezzatura – la maschera – dopo averci sputato dentro, quando un giovane americano, che aveva osservato tutto molto attentamente dal vecchio pontile su cui prendeva il sole, proprio sopra la mia testa, disse senza salutare:
“Ha intenzione
di prendere qualcosa?” Considerai la domanda: così formulata mi parve
abbastanza strana, e conclusi che contenesse un’intenzionale dose di ironia.
“Chissà!” risposi telegraficamente, entrando in breve contatto visivo con le sue pupille, tre metri più in alto.
Mentre mi inginocchiavo nell’acqua cristallina, mi domandai perché avevo già caricato il fucile prima di entrare nell’acqua, un’abitudine che consideravo pessima e potenzialmente pericolosa.
Il mio pensiero ritornò per un attimo al giovane sul pontile: curioso, doveva essere un nuovo arrivato. Non solo perché la sua pelle era ancora troppo bianca, ma perché non avrebbe fatto una simile domanda se avesse bazzicato quella spiaggia. In tal caso, mi avrebbe visto uscire ogni giorno da quelle acque con una o due borse piene di pesce. Peccato, pensavo, che non sarebbe stato presente al mio ritorno. A meno che non avesse voluto prendersi una memorabile scottatura.
Rimanendo inginocchiato, infilai la maschera e misi la testa sott’acqua per controllare che non imbarcasse acqua: la barba non garantiva sempre una tenuta stagna.
Poi diedi un’occhiata davanti a me, verso il largo, prima di cominciare a nuotare. Dovetti farmi forza per reprimere un movimento brusco. In meno di mezzo metro d’acqua, un pesce argentato, lungo più di settanta centimetri, mi dava tranquillamente il fianco. Pensai al tipo sul pontile e bisbigliai a me stesso: Devi assolutamente cacciare questo pesce. Non puoi permetterti di sbagliare.
Cambiai poco alla volta posizione, puntando il fucile verso la mia vittima con un impercettibile movimento continuo. Rimase immobile. Il colpo lo colse di sorpresa e invano cercò di scuotersi di dosso l’asta, sollevando nel fondo una nuvola di sabbia bianca. Mi avvicinai, strisciando la pancia sul fondo, e lo afferrai per la coda con una mano, mentre con l’altra sorreggevo l’asta che lo aveva trafitto. Forse era trascorso meno di un minuto.
Mi rimisi in ginocchio, poi mi alzai in piedi e uscii dall’acqua. Sollevando lo sguardo verso il mio testimone, che rimase muto come un pesce, gli feci un sorriso d’intesa, dicendogli mentre me ne andavo: “Uno snook. Per oggi ho finito. Buona giornata!”
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