LA FOTO QUI SOPRA racchiude per noi una significativa
simbologia personale, direttamente collegata alle riflessioni che farò in questo post. Il pulpito piegato è il
risultato di un piccolo incidente di cui è stato protagonista, più di
venticinque anni fa, il precedente proprietario statunitense di Beguine, la
nostra barca a vela.
“Un giorno, mentre entrava a vela nel Marina di New
Orleans, con l’assistenza di un marinaio inesperto, andò a incagliarsi nelle
rocce dell’entrata adiacenti all’edificio della Guardia Costiera! E il colpo
piegò il pulpito nel modo che vedete. La
multa che gli venne inflitta era l’ultima delle sue preoccupazioni. La vergogna
che provò fu superata soltanto dal timore che il colore giallo dello scafo
rivelasse il nome della barca e che la storia dello stupido arenamento
cominciasse a circolare tra i velisti. Fatto sta che, prima che fosse troppo
tardi per la sua reputazione, fece ridipingere di bianco le fiancate e cambiò
il nome della barca!”
Vi domanderete perché non
l’abbiamo mai aggiustato quando avremmo poturo farlo noi stessi in meno di
un’ora. Non l’abbiamo fatto perché non avevamo una motivazione sufficientemente
forte per farlo. Mi spiego: il pulpito nella nostra barca non ha nessuna
funzione se non quella estetica. Ma qual è
di solito la motivazione generale che “esige” di fare la riparazione? Che
appunto si tratta di qualcosa che si deve fare. Che la barca perde di valore,
in caso di rivendita. Che è una questione di
estetica. Ebbene, ci sono tanti modi per soddisfare il vero senso estetico di
una persona, come dipingere, suonare uno strumento, fare artigianato, ascoltare
musica, ecc., ecc. Quindi, alla fine, la motivazione prevalente rimane quella
solita: “Lo faccio perché, altrimenti, gli altri cruisers storcono il naso e
incominciano a criticare.” E quindi, alla fine mi adatto al giudizio altrui che
limita la mia libertà di decisione.
Al di là del vivere in barca; al di là del
vivere/viaggiare in barca; al di là delle specializzazioni e della solidità
psicologica che comporta il viaggiare in barca; al di là dei problemi dello
spazio vitale, del comfort e della gestione del tempo; oltre tutto questo, ci
sono le terre inesplorate e i mari incommensurabili dell’immaginazione e della
creativià. Più
lontano, più lontano, dove il sogno confina
con l’Utopia, si apre un territorio a cui tutti anelano senza sapere come
arrivarci: il Regno della Felicità. Saliamo a bordo di una grande barca
virtuale comune e cominciamo ad esplorare insieme, con la consapevolezza che
l’iniziale cooperazione, consistente nella condivisione delle informazioni,
dovrà fare posto, a poco a poco, a un cammino da percorrere da soli. Come non
si può costruire una casa sulle macerie di una vecchia, cosí non è saggio
costruire una filosofia di vita personale mirata al raggiungimento della
felicità che non abbia prima sgombrato le macerie di un sitema decrepito che
finora ha soffocato perfino l’aspirazione a percorrere questo legittimo
sentiero.
IL
SIGNIFICATO DI “VIAGGIO”
Motivazione,
successo, viaggio e felicità
Il valore della motivazione
A ventitrè anni, dopo la laurea in Lingue, decisi di studiare il giapponese. Ma, chi l’avrebbe detto,
fu proprio nel corso dell’apprendimento di quella lingua che presi coscienza
del valore cruciale della motivazione. Utilizzavo da otto mesi l’unico metodo allora sul mercato,
il Linguaphone, tre ore al giorno, domeniche comprese, quando mi accorsi con
sorpresa e rammarico che, tra le molte soddisfacenti attività che svolgevo in quel periodo, che includevano
l’insegnamento dell’inglese, facevo dell’apprendimento di quella lingua, allora
una cosa alquanto rara a cui dedicarsi, la fonte principale del mio “star bene”.
Mi ci appoggiavo come ci si appoggia a stampelle, ne facevo la sorgente della
sicurezza personale, una falsa sicurezza che nasceva quasi esclusivamente
dall’ammirazione altrui, dato che quello studio non l’avevo intrapreso per una
ragione funzionale e giustificabile, come sarebbe stato il caso in cui avessi
progettato di utilizzare quella lingua entro breve tempo in Giappone.
Trovai
deludente e preocupante l’essermici appoggiato sopra proprio nello stesso modo
in cui un ricco si appoggia al suo denaro e potere o un giocatore di calcio o
un cantante alla venerazione dei suoi tifosi.
Eppure
queste sono tutte stampelle che non ci portano un passo più vicino alla felicità.
Qui
sarebbe il caso di commentare sull’effetto catartico di liberazione da quelle
catene e sulla gioia risultante dall’aver capito, con un proverbio
tradizionale: “Dove l’ambizione finisce, là comincia
la felicità".
Una
cosa è sicura: l’ambizione di fare sfoggio di qualcosa, come avevo fatto per otto
mesi, era prova sicura di mancanza di appagamento. Per fortuna, me ne resi
conto relativamente presto nella mia vita proprio rispondendo alla domanda, che
ci si dovrebbe sempre porre e alla quale si dovrebbe cercare di rispondere
onestamente: “qual è la motivazione che mi ha spinto a questa decisione?”
Quello stesso giorno smisi di studiare il giapponese.
Dunque
la motivazione gioca un ruolo cruciale per definire il livello morale delle
nostre azioni. Non solo. Essa gioca un ruolo cruciale per il raggiungimento
della felicità. Ma per avere qualche possibilità di
capire, per poi agire nella pratica quotidiana, è necessario ridefinire il concetto di “successo”.
Nella
Prefazione de Il nostro canto libero
ho scritto: “E proprio il forte desiderio di liberazione dai condizionamenti e
dalle paure – le catene che ci impediscono di amarci e di amare – si è rivelato
la forza motrice del mio viaggio interiore e una straordinaria sorgente di
gioia. La decisione cruciale, difficilmente revocabile, è stata di adottare la
ricorrenza e il livello d’intensità di questa gioia come metro di giudizio del
successo personale.”
Mi
rendo conto che la cosa più difficile da spiegare, non diciamo da assimilare, è
proprio il rapporto tra successo e felicità.
Come
spiegare che la felicità non risiede nel
“successo” come viene normalmente inteso, nella meta finale, ma nel viaggio,
cioè nel godimento del processo: che è un viaggiare per il viaggiare? E che
questo vale sia per un viaggio come spostamento sul pianeta, sia per il viaggio
metaforico della vita? Ci provo:
Il puzzle della
vita
Mi piace equiparare i 32 racconti del mio libro ai
tasselli di un puzzle. Tutti sappiamo che nessuno compra un puzzle
pre-assemblato, l’interesse ad acquistarlo risiede nel processo di montaggio
più che nella figura finale. E la motivazione per l’acquisto è la promessa di
un processo stimolante.
Ogni incastro riuscito del puzzle indica non solo
metaforicamente, ma in pratica, una breve fase di una successione di piccoli
frammenti significativi del vissuto. Ciascuno di questi scandisce il ritmo del
momento presente, è a esso funzionale, ed è rappresentativo del piacere che
deriva dall’appagamento immediato del desiderio. Questa gratificazione dà
origine a una momentanea distensione, dopo di che il gioco ricomincia da capo,
fino alla fine. Il risultato finale di aver composto il puzzle è inferiore,
anzi trascurabile, di fronte alla soddisfazione che deriva da ogni singolo
incastro riuscito, proprio perché, a puzzle ultimato, si esaurisce il desiderio
di ricominciare. E qui finisce il raffronto con la vita. I tasselli del
quotidiano, a differenza di quelli del puzzle, non si esauriscono con il tempo.
Anzi, ogni frammento del vissuto genera a sua volta una rete sempre più ampia e
complessa di esperienze e interrelazioni, perché ogni tassello del quotidiano
gratificato crea altri desideri di appagamento e le possibilità di scelta si
incrementano con il tempo, raffinando la scelta del desiderio.
Dopo questa premessa siamo in grado di definire la
felicità? Forse sí.
Secondo
la mia esperienza personale, la felicità è una
dimensione interiore, una dimensione pressoché
costante in cui ci si è calati, ma della fragilità
dei petali di un fiore, e che si deve irrigare e curare con saggezza e misura,
indipendentemente da quello che si ha o si spera, uno stato di coscienza che
nasce dalla consapevolezza di riuscire naturalmente e senza sforzo a mettere in
pratica i nostri valori, senza contrasti morali o complessi di colpa. E i
nostri valori possono essere messi in pratica solo nel PRESENTE! (ricordare il
discorso sul puzzle).
Anche
Seneca aveva sottolineato il rapporto tra felicità
e presente: “La felicità vera è godere del
presente, senza ansiosa dipendenza nel futuro.” Se mi fosse permesso un
ribaltamento di un noto detto, “Volere è potere”, fra l’altro dato per
scontato, la felicità non può essere raggiunta da chi sia convinto che “volere
è potere”. La felicità non si raggiunge con
la forza di volontà. Anzi, chi più si sforza
a cercarla, più se ne allontana.
Dice
un detto orientale "La felicità vola via da coloro che più la
vogliono". (Proverbio laotiano). O secondo un proverbio tradizionale:
"La ricerca della felicità porta direttamente alla miseria." Ogni
cultura sembra essere d'accordo sul concetto che "La felicità non è un
cavallo che si possa imbrigliare.” (Proverbio russo).
La
felicità è già lí,
a portata di mano, per coloro il cui motto è diventato “potere è volere!” Solo
quando “si può” in modo naturale,
agevolmente e senza sforzo, cioè quando si è raggiunto il livello di coscienza
idoneo, si ha il diritto di “volere”. Il che significa, espresso in modo
diverso, fare il passo secondo la gamba.
Nel lavoro, ad esempio, non può essere
felice chi occupa un posto che non merita, di cui non ha competenza, perché questo violerebbe il concetto di giustizia
personale oltre a quello di giustizia sociale. La corruzione rampante in Italia
e nel terzo mondo deriva proprio dalla violazione dei due principi suddetti.
Tutte
le culture del pianeta hanno espresso il concetto che per avere una qualche
possibilità di essere felici si deve seguire
una via di mezzo. Trovo straordinario
che questo concetto sia naturalmente incorporato nella lingua inglese,
nell’espressione “happy medium” (via
di mezzo), ma nessuno, finora, sembra averci fatto caso!
Un
proverbio finlandese dice: “La felicità è un
luogo fra il troppo poco e il troppo.” Oppure, espresso in un altro modo: “Chi
conosce il limite conosce la felicità.”
(Proverbio cinese). Questo è anche il concetto dell’aurea mediocritas degli
antichi Romani.
Che
la felicità non risiede nel successo, nella
meta finale, ma nel viaggio, cioè nel godimento del processo, è noto da tempo
immemorabile ai saggi di tutte le culture del pianeta. Un proverbio finlandese
recita: “La felicità non deriva dalla
felicità in sé,
ma dal viaggio per conseguirla”. Ho citato questo proverbio per il suo accento
sul viaggio, anche se mi lascia perplesso la formulazione della prima parte,
che cade in un ragionamento circolare.
Mi
piace il seguente detto indiano, per il rilievo che dà
al presente. Se ciò che conta è il
processo, è indubbio che questo deve tradursi nel vivere il momento presente:
“L’ieri è solo un sogno, il domani solo una visione. Ma un oggi ben vissuto
rende ogni ieri un sogno di felicità e ogni
domani una visione di speranza. Guarda bene, pertanto, all’oggi.” Il che è
sintetizzato nel “carpe diem” latino.
In
breve, ciò che uno fa per raggiungere la
felicità è irrilevante, perché destinato al fallimento. Ciò che rende felici è il godimento del processo e
il processo non può che essere correlato al
momento presente.
Il
successo nel vivere nel presente i
nostri valori, il successo di godere della risoluzione immediata dei piccoli
problemi di ogni giorno, non il successo nel realizzare i nostri progetti è
dunque il segreto della felicità: se c’è un
segreto. Che delusione per la grande maggioranza e che gioia per i pochi che
hanno capito!
Ma,
come dice il poeta, non si può desiderare qualcosa che non si crede possibile o
rimpiangere quello che non si ha mai provato. E questa forma di protezione è in
un certo senso confortante, altrimenti ci sarebbe da spararsi!
Nel prossimo post seguirà la SECONDA PARTE, la parte più “pratica”, intitolata:
Nel prossimo post seguirà la SECONDA PARTE, la parte più “pratica”, intitolata:
OSTACOLI DA SUPERARE LUNGO IL SENTIERO DELLA FELICITA'
Fabrizio Accorsi
Nessun commento:
Posta un commento