martedì 7 aprile 2020

PENSIERI-6: La motivazione del viaggio e la felicità (PRIMA PARTE)




LA FOTO QUI SOPRA racchiude per noi una significativa simbologia personale, direttamente collegata alle riflessioni che farò in questo post. Il pulpito piegato è il risultato di un piccolo incidente di cui è stato protagonista, più di venticinque anni fa, il precedente proprietario statunitense di Beguine, la nostra barca a vela.


“Un giorno, mentre entrava a vela nel Marina di New Orleans, con l’assistenza di un marinaio inesperto, andò a incagliarsi nelle rocce dell’entrata adiacenti all’edificio della Guardia Costiera! E il colpo piegò il pulpito nel modo che vedete. La multa che gli venne inflitta era l’ultima delle sue preoccupazioni. La vergogna che provò fu superata soltanto dal timore che il colore giallo dello scafo rivelasse il nome della barca e che la storia dello stupido arenamento cominciasse a circolare tra i velisti. Fatto sta che, prima che fosse troppo tardi per la sua reputazione, fece ridipingere di bianco le fiancate e cambiò il nome della barca!”

Vi domanderete perché non l’abbiamo mai aggiustato quando avremmo poturo farlo noi stessi in meno di un’ora. Non l’abbiamo fatto perché non avevamo una motivazione sufficientemente forte per farlo. Mi spiego: il pulpito nella nostra barca non ha nessuna funzione se non quella estetica. Ma qual è di solito la motivazione generale che “esige” di fare la riparazione? Che appunto si tratta di qualcosa che si deve fare. Che la barca perde di valore, in caso di rivendita. Che è una questione di estetica. Ebbene, ci sono tanti modi per soddisfare il vero senso estetico di una persona, come dipingere, suonare uno strumento, fare artigianato, ascoltare musica, ecc., ecc. Quindi, alla fine, la motivazione prevalente rimane quella solita: “Lo faccio perché, altrimenti, gli altri cruisers storcono il naso e incominciano a criticare.” E quindi, alla fine mi adatto al giudizio altrui che limita la mia libertà di decisione.

Al di là del vivere in barca; al di là del vivere/viaggiare in barca; al di là delle specializzazioni e della solidità psicologica che comporta il viaggiare in barca; al di là dei problemi dello spazio vitale, del comfort e della gestione del tempo; oltre tutto questo, ci sono le terre inesplorate e i mari incommensurabili dell’immaginazione e della creativià. Più lontano, più lontano, dove il sogno confina con l’Utopia, si apre un territorio a cui tutti anelano senza sapere come arrivarci: il Regno della Felicità. Saliamo a bordo di una grande barca virtuale comune e cominciamo ad esplorare insieme, con la consapevolezza che l’iniziale cooperazione, consistente nella condivisione delle informazioni, dovrà fare posto, a poco a poco, a un cammino da percorrere da soli. Come non si può costruire una casa sulle macerie di una vecchia, cosí non è saggio costruire una filosofia di vita personale mirata al raggiungimento della felicità che non abbia prima sgombrato le macerie di un sitema decrepito che finora ha soffocato perfino l’aspirazione a percorrere questo legittimo sentiero.


IL SIGNIFICATO DI “VIAGGIO”


Motivazione, successo, viaggio e felicità
 

Il valore della motivazione


A ventitrè anni, dopo la laurea in Lingue, decisi di studiare il giapponese. Ma, chi l’avrebbe detto, fu proprio nel corso dell’apprendimento di quella lingua che presi coscienza del valore cruciale della motivazione. Utilizzavo da otto mesi l’unico metodo allora sul mercato, il Linguaphone, tre ore al giorno, domeniche comprese, quando mi accorsi con sorpresa e rammarico che, tra le molte soddisfacenti attività che svolgevo in quel periodo, che includevano l’insegnamento dell’inglese, facevo dell’apprendimento di quella lingua, allora una cosa alquanto rara a cui dedicarsi, la fonte principale del mio “star bene”. Mi ci appoggiavo come ci si appoggia a stampelle, ne facevo la sorgente della sicurezza personale, una falsa sicurezza che nasceva quasi esclusivamente dall’ammirazione altrui, dato che quello studio non l’avevo intrapreso per una ragione funzionale e giustificabile, come sarebbe stato il caso in cui avessi progettato di utilizzare quella lingua entro breve tempo in Giappone.

Trovai deludente e preocupante l’essermici appoggiato sopra proprio nello stesso modo in cui un ricco si appoggia al suo denaro e potere o un giocatore di calcio o un cantante alla venerazione dei suoi tifosi.

Eppure queste sono tutte stampelle che non ci portano un passo più vicino alla felicità.

Qui sarebbe il caso di commentare sull’effetto catartico di liberazione da quelle catene e sulla gioia risultante dall’aver capito, con un proverbio tradizionale: “Dove l’ambizione finisce, là comincia la felicità".

Una cosa è sicura: l’ambizione di fare sfoggio di qualcosa, come avevo fatto per otto mesi, era prova sicura di mancanza di appagamento. Per fortuna, me ne resi conto relativamente presto nella mia vita proprio rispondendo alla domanda, che ci si dovrebbe sempre porre e alla quale si dovrebbe cercare di rispondere onestamente: “qual è la motivazione che mi ha spinto a questa decisione?” Quello stesso giorno smisi di studiare il giapponese.

Dunque la motivazione gioca un ruolo cruciale per definire il livello morale delle nostre azioni. Non solo. Essa gioca un ruolo cruciale per il raggiungimento della felicità. Ma per avere qualche possibilità di capire, per poi agire nella pratica quotidiana, è necessario ridefinire il concetto di “successo”.

Nella Prefazione de Il nostro canto libero ho scritto: “E proprio il forte desiderio di liberazione dai condizionamenti e dalle paure – le catene che ci impediscono di amarci e di amare – si è rivelato la forza motrice del mio viaggio interiore e una straordinaria sorgente di gioia. La decisione cruciale, difficilmente revocabile, è stata di adottare la ricorrenza e il livello d’intensità di questa gioia come metro di giudizio del successo personale.”

Mi rendo conto che la cosa più difficile da spiegare, non diciamo da assimilare, è proprio il rapporto tra successo e felicità.

Come spiegare che la felicità non risiede nel “successo” come viene normalmente inteso, nella meta finale, ma nel viaggio, cioè nel godimento del processo: che è un viaggiare per il viaggiare? E che questo vale sia per un viaggio come spostamento sul pianeta, sia per il viaggio metaforico della vita? Ci provo:



Il puzzle della vita


Mi piace equiparare i 32 racconti del mio libro ai tasselli di un puzzle. Tutti sappiamo che nessuno compra un puzzle pre-assemblato, l’interesse ad acquistarlo risiede nel processo di montaggio più che nella figura finale. E la motivazione per l’acquisto è la promessa di un processo stimolante.

Ogni incastro riuscito del puzzle indica non solo metaforicamente, ma in pratica, una breve fase di una successione di piccoli frammenti significativi del vissuto. Ciascuno di questi scandisce il ritmo del momento presente, è a esso funzionale, ed è rappresentativo del piacere che deriva dall’appagamento immediato del desiderio. Questa gratificazione dà origine a una momentanea distensione, dopo di che il gioco ricomincia da capo, fino alla fine. Il risultato finale di aver composto il puzzle è inferiore, anzi trascurabile, di fronte alla soddisfazione che deriva da ogni singolo incastro riuscito, proprio perché, a puzzle ultimato, si esaurisce il desiderio di ricominciare. E qui finisce il raffronto con la vita. I tasselli del quotidiano, a differenza di quelli del puzzle, non si esauriscono con il tempo. Anzi, ogni frammento del vissuto genera a sua volta una rete sempre più ampia e complessa di esperienze e interrelazioni, perché ogni tassello del quotidiano gratificato crea altri desideri di appagamento e le possibilità di scelta si incrementano con il tempo, raffinando la scelta del desiderio.

Dopo questa premessa siamo in grado di definire la felicità? Forse sí.

Secondo la mia esperienza personale, la felicità è una dimensione interiore, una dimensione pressoché costante in cui ci si è calati, ma della fragilità dei petali di un fiore, e che si deve irrigare e curare con saggezza e misura, indipendentemente da quello che si ha o si spera, uno stato di coscienza che nasce dalla consapevolezza di riuscire naturalmente e senza sforzo a mettere in pratica i nostri valori, senza contrasti morali o complessi di colpa. E i nostri valori possono essere messi in pratica solo nel PRESENTE! (ricordare il discorso sul puzzle).

Anche Seneca aveva sottolineato il rapporto tra felicità e presente: “La felicità vera è godere del presente, senza ansiosa dipendenza nel futuro.” Se mi fosse permesso un ribaltamento di un noto detto, “Volere è potere”, fra l’altro dato per scontato, la felicità non può essere raggiunta da chi sia convinto che “volere è potere”. La felicità non si raggiunge con la forza di volontà. Anzi, chi più si sforza a cercarla, più se ne allontana.

Dice un detto orientale "La felicità vola via da coloro che più la vogliono". (Proverbio laotiano). O secondo un proverbio tradizionale: "La ricerca della felicità porta direttamente alla miseria." Ogni cultura sembra essere d'accordo sul concetto che "La felicità non è un cavallo che si possa imbrigliare.” (Proverbio russo).

La felicità è già lí, a portata di mano, per coloro il cui motto è diventato “potere è volere!” Solo quando “si può” in modo naturale, agevolmente e senza sforzo, cioè quando si è raggiunto il livello di coscienza idoneo, si ha il diritto di “volere”. Il che significa, espresso in modo diverso, fare il passo secondo la gamba. Nel lavoro, ad esempio, non può essere felice chi occupa un posto che non merita, di cui non ha competenza, perché questo violerebbe il concetto di giustizia personale oltre a quello di giustizia sociale. La corruzione rampante in Italia e nel terzo mondo deriva proprio dalla violazione dei due principi suddetti.

Tutte le culture del pianeta hanno espresso il concetto che per avere una qualche possibilità di essere felici si deve seguire una via di mezzo. Trovo straordinario che questo concetto sia naturalmente incorporato nella lingua inglese, nell’espressione “happy medium” (via di mezzo), ma nessuno, finora, sembra averci fatto caso!
Un proverbio finlandese dice: “La felicità è un luogo fra il troppo poco e il troppo.” Oppure, espresso in un altro modo: “Chi conosce il limite conosce la felicità.” (Proverbio cinese). Questo è anche il concetto dell’aurea mediocritas degli antichi Romani.

Che la felicità non risiede nel successo, nella meta finale, ma nel viaggio, cioè nel godimento del processo, è noto da tempo immemorabile ai saggi di tutte le culture del pianeta. Un proverbio finlandese recita: “La felicità non deriva dalla felicità in sé, ma dal viaggio per conseguirla”. Ho citato questo proverbio per il suo accento sul viaggio, anche se mi lascia perplesso la formulazione della prima parte, che cade in un ragionamento circolare.

Mi piace il seguente detto indiano, per il rilievo che dà al presente. Se ciò che conta è il processo, è indubbio che questo deve tradursi nel vivere il momento presente: “L’ieri è solo un sogno, il domani solo una visione. Ma un oggi ben vissuto rende ogni ieri un sogno di felicità e ogni domani una visione di speranza. Guarda bene, pertanto, all’oggi.” Il che è sintetizzato nel “carpe diem” latino.

In breve, ciò che uno fa per raggiungere la felicità è irrilevante, perché destinato al fallimento. Ciò che rende felici è il godimento del processo e il processo non può che essere correlato al momento presente.

Il successo nel vivere nel presente i nostri valori, il successo di godere della risoluzione immediata dei piccoli problemi di ogni giorno, non il successo nel realizzare i nostri progetti è dunque il segreto della felicità: se c’è un segreto. Che delusione per la grande maggioranza e che gioia per i pochi che hanno capito!

Ma, come dice il poeta, non si può desiderare qualcosa che non si crede possibile o rimpiangere quello che non si ha mai provato. E questa forma di protezione è in un certo senso confortante, altrimenti ci sarebbe da spararsi!

Nel prossimo post seguirà la SECONDA PARTE, la parte più “pratica”, intitolata:

OSTACOLI DA SUPERARE LUNGO IL SENTIERO DELLA FELICITA'

Fabrizio Accorsi

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