REINVENTANDO LA VELA? Baja California, Messico
Playa Escondida (La Spiaggia Nascosta) è uno dei gioielli
più preziosi, anche se poco conosciuti, della Baia della Concezione, un’ampia
insenatura creata dal Mare di Cortez sulla costa di quella stretta penisola –
lunga più di mille chilometri – che prende il nome di Baja California, la
prosecuzione messicana della California statunitense. Non è visibile dalla
strada principale.
Il tratto più elevato della deviazione sterrata che conduce
alla spiaggia, tagliato attraverso la roccia di due pareti convergenti, resta
in ombra anche durante le ore calde. All’improvviso, al culmine della salita,
come alla fine di una galleria, il mare azzurro e la spiaggia bianca e soffice
come la panna, si impongono alla vista con la forza di un’accecante visione.
Una visione da togliere il fiato.
Scendendo lungo il ripidissimo pendio, lo
sguardo abbraccia sempre più spiaggia, fino al limite occidentale della
mezzaluna, dove si arresta contro un piccolo promontorio che scende a lambire
l’acqua, di solito liscia come uno specchio nel corso delle frizzanti mattinate
invernali. Tra gli anfratti delle pareti rocciose, si sono fatte largo alcune
agavi e una minuscola palma, spruzzi di colore verde bottiglia che interrompono
il tipico sfondo rossiccio di quest’area desertica, lasciato immutato da
millenni di scarsissime piogge. La prima impressione è quella di essere arrivati
in un Eden incontaminato.
Parcheggiammo
l’autocaravan nell’angolino orientale, contro la parete rocciosa, in modo tale
da seguire la tacita regola di orientare verso il mare la panoramica finestra
sopra la dinette. Da quel punto, oltre il promontorio occidentale, era
riconoscibile, in lontananza, un’altra spiaggia di straordinaria bellezza, El
Coyote, a cui ho accennato in una storia precedente (si veda Libro II, Il viaggio continua): i locali
sostengono che i suoi profondi fondali nascondano il relitto di un galeone.
Non è facile comunicare a chi non c’è mai stato
il piacere di esplorare col kayak una spiaggia dopo l’altra, di tuffarsi a
raccogliere dal fondo vongole e capesante a pochi metri dalla riva e l’euforia
di osservare, per molte notti di seguito, un fenomeno chiamato fosforescenza notturna dell’acqua, ma più
appropriatamente bioluminescenza, che
in queste acque raggiunge un’intensità spesso maggiore che altrove. L’abbiamo
visto in Marocco, nel Mediterraneo e nei Caraibi, ma l’alloro spetta senz’altro
a Playa Escondida.
È altresì vero che ogni bella faccia di una
medaglia ha il suo rovescio, che qualche volta non è altrettanto seducente.
Durante il giorno, pagaiando nelle acque circostanti, a volte io e Patrizia
eravamo costretti ad attraversare estesi tratti di mare ricoperti da una melma
rossa e densa, viscida, disgustosa e spessa alcuni centimetri, che, solcata
dalla piccola imbarcazione, rivelava una consistenza biancastra e gelatinosa e
insozzava la tela dello scafo. Pablo, il nostro stagionato amico pescatore
menzionato in più di una storia nel Libro
II - Il viaggio continua, ci
aveva spiegato che si trattava di uova di certe creature marine…
Sì, di giorno non era un grande spettacolo, ma di
notte…! Proprio a questa sgradevole
fanghiglia erano dovuti i più spettacolari fenomeni di luminescenza. La
normale brillantezza notturna, nella maggior parte dei casi, è attribuibile al
plancton (che, quando viene stimolato da onde, barche o altri fattori, emette
luce), ma è generalmente più debole, e si esaurisce piuttosto in fretta quando
la superficie dell’acqua viene solleticata.
Era bello sbizzarrirsi a sperimentare: per esempio, ogni volta che
lanciavamo nell’acqua manciate di sabbia o ciottoli e piatti pluririmbalzanti
sulla liscia superficie liquida, centinaia di minuscole meteore verde
fosforescente scintillavano nel buio.
Ci piaceva anche porre sull’acqua il kayak, una notte dopo l’altra, con il
solo scopo di osservare l’onda di prua trasformarsi in una straordinaria
sorgente di luce. Più la velocità aumentava, più luce si produceva.
Ogni volta che le pagaie toccavano l’acqua, si generavano piccoli mulinelli
luminosi ed effimere scintille. Queste, scivolando lungo i manici dei remi
doppi, simili a minuscole lucciole, finivano per ricadere nell’acqua o sul
fondo del kayak.
Ma non era solo “l’effetto
pagaia” a creare il
magico incanto. No, c’era luminescenza anche sotto la superficie, a un paio di
metri di profondità!
E ogni volta che ci tuffavamo nudi riemergevamo esultanti,
stupefatti che il nostro rimescolare l’acqua ci consentisse di vedere due cose
inimmaginabili: la sabbia del fondo illuminata a giorno e i nostri genitali fosforescenti.
Altrettanto
memorabili erano le escursioni a piedi nel vicino deserto, lungo sentieri
panoramici che assomigliano a giardini, tra piante spinose e alberi di ogni
tipo, alcuni dei quali carichi di succulenti frutti commestibili e bacche. Ogni
volta ammiravamo con sorpresa la varietà e la densità della vegetazione del
deserto: creosoto, agave, ocotillo, palo adan, mesquite, artiglio del diavolo,
vischio del deserto, cactus a barilotto, fico d’india, fiori vestiti da colori
sia sgargianti sia dimessi, floridi cardoni e altre piante e alberi, troppo
numerosi da menzionare. Molti dei sentieri in questa zona corrono lungo la
dorsale di basse ondulazioni che permettono a tratti una vista da cartolina
delle sottostanti spiagge, tutte candide come la neve, incastonate tra piccoli
promontori di roccia rossastra.
Un pomeriggio, al nostro ritorno da
un’escursione, ci accorgemmo di avere visite: cento metri più lontano, vicino
alla battigia, era parcheggiato un veicolo con la trazione sulle quattro ruote
il cui rimorchio sosteneva una piccola barca a vela.
Il mattino seguente, verso le sette, mentre
assaporavamo – insieme all’aria fresca – un buon cappuccino dentro
l’autocaravan ancora all’ombra della parete rocciosa alle nostre spalle, ci
attendeva una sorpresa: da dietro il promontorio, attraverso la finestra della
dinette, vedemmo comparire le sagome di alcuni delfini. Uscimmo con le tazze in
mano e ci affrettammo a sederci sulla battigia, allungando i piedi nell’acqua.
Comparvero subito altri delfini, alcuni seguiti
dai loro piccoli, lasciandosi dietro una sottile scia sull’acqua liscia e
immobile, che rispecchiava il cielo. Si muovevano in lenta processione, da
sinistra a destra, e la pelle arcuata del dorso, affiorando lucida e levigata,
rifletteva lampi di luce sotto il sole radente.
Incominciai a contarli. Ogni dieci o giù di lì,
alzavo lo sguardo per incontrare gli occhi di Patrizia che, come me ugualmente
stupita, ritornava a osservare con occhi spalancati. Mi fermai a settanta! Mai,
prima o dopo di allora, includendo i ventiquattro anni di navigazione in barca
a vela, incontrammo un branco di tali dimensioni. Sfilarono davanti a noi a un
centinaio di metri dalla spiaggia, con il loro incedere elegante e lento, la
coda che tagliava la superficie dell’acqua senza uno spruzzo, sfiatando a turno
nel riemergere: i soli orchestratori del silenzio di quel magico mattino.
Ruppero la fila continua e ordinata in un tratto
di mare a circa cinquecento metri dall’estremità occidentale della spiaggia,
per disporsi in circolo e cominciare a muoversi in una specie di misteriosa
danza. Cinque minuti più tardi erano ancora là. Trasmettevano un senso di
armonia e di profonda calma.
“Che ne dici, andiamo?” suggerì Patrizia.
“Perché no? Mettiamo il kayak nell’acqua.”
Questo kayak doppio, di cinque metri e mezzo di
lunghezza, che smontato si poteva infilare in due grandi borse, era
un’imitazione americana di hypalon, con una struttura di alluminio, del noto
Klepper tedesco, ma con un costo al dettaglio di soli duemila dollari, la metà
del prezzo dell’originale. La sua caratteristica più attraente era il timone a
piedi, che potevo azionare dal sedile posteriore. Questo facilitava sia il
mantenere una direzione in linea retta, sia girare. Inoltre, l’enorme spazio
tra i due sedili consentiva al nostro cane, Andrea, di sistemarsi comodamente
ai miei piedi.
Proprio nel momento in cui stavamo mettendo la
piccola imbarcazione nell’acqua, notammo che i nostri vicini, che in linea
d’aria si trovavano a una minore distanza dai delfini, avevano scaricato la
loro barca a vela dal rimorchio e si accingevano ad avviarsi a motore in quella
direzione.
Mentre remavamo a ritmo sostenuto, pensavo che ci
era capitata una bella fortuna e speravo che i graziosi mammiferi non se ne
andassero da un momento all’altro. Quando raggiungemmo la nostra destinazione e
ci avvicinammo alla barca a vela già ancorata, non si erano mossi di là,
continuavano a nuotare in cerchio, adesso sia intorno alla barca a vela sia al
nostro kayak: era uno spettacolo meraviglioso, un incontro ravvicinato colmo di
dettagli imprevedibili.
Ci presentammo alla giovane coppia. Dopo un po’,
il giovane si mise la maschera e si tuffò. Ogni volta che riemergeva, aveva
qualcosa da raccontare. Era eccitante. Noi, nella fretta, avevamo dimenticato l’attrezzatura
e pertanto eravamo bloccati in superficie. Però lo spettacolo era ugualmente
gratificante.
Dopo la partenza dei delfini, rimanemmo lì per un
po’ a chiacchierare. Fu allora che, ispirato dalla vista della loro imbarcazione,
domandai: “Perché non ci insegnate a costruire una vela per il nostro kayak?”
“Perché no?” disse il tipo. “Dunque… fatemi
pensare... la brezza non dovrebbe tardare... Sentite, facciamo un paio d’ore di
vela... Quando ritorniamo, veniamo da voi. Avete un paio di forbici?”
“Certo.”
“Molto bene. Abbiamo anche bisogno di una lenza
per tirare su e giù la vela e di qualcosa da usare come albero.”
“Da qualche parte devo avere un rotolo di filo da
pesca, anche se non pesco con la lenza. Per quanto riguarda l’albero, ho notato
una dozzina di pezzi di legno che qualcuno ha abbandonato proprio dietro il
nostro autocaravan, ai piedi della parete rocciosa. Sono listelli ricavati
dalla struttura interna di un cardone.”
“Perfetto, è proprio quello che ci vuole: lunghi
e flessibili” osservò. “Da parte mia, ho ancora un paio di borse della
spazzatura e duct tape” aggiunse.
Quella era la prima volta che sentivamo la parola
magica: “duct tape”, il nastro isolante grigio onnipresente in tutte le barche
a vela e a motore.
“Costruiremo uno spinnaker, non sarà difficile.”
Mentre loro prendevano il largo a motore e noi
remavamo in direzione del nostro autocaravan, ci domandavamo stupiti se uno
spinnaker non fosse una vela un po’ troppo pericolosa per cominciare…
Verso le undici la piccola barca a vela solcò la sabbia della battigia e,
poco dopo, il giovane si avviò da solo nella nostra direzione. Dopo aver steso
sulla sabbia due di quelle enormi borse nere come la pece che gli americani
usano per l’immondizia, disse:
“Tagliate qui… E qui… Bene… Adesso qui… Così va
bene. Ora dobbiamo mettere un pezzo di nastro isolante qui, nell’angolo,
seguendo le linee di forza. Altrimenti il vento la strappa in brandelli…
Perfetto. Adesso fate lo stesso con le altre due estremità… Così… Bene. Rinforziamo
un po’ questo anello. Di qui partirà la corda che terrete in mano. Quest’altro
anello serve per fissarci la lenza alza-vela… Rinforzatelo ancora un po’ con il
tape. OK. Perfetto.”
Una volta che lo spinnaker fu finito, ci mostrò
come issarlo e ammainarlo. Il kayak si trovava ancora a secco sulla battigia.
Il vento era completamente cessato.
“E nel caso ci sia troppo vento? O una raffica?
Che cosa dobbiamo fare?”
“Facile, mollate la lenza, la vela si sposterà più
in fuori e smetterà di tirare. Eviterete di rovesciarvi. Fate così. Vedete?
Capito?”
“Capito. Sembra facile… Troppo vento… bisogna
mollare…”
Il giorno seguente, di mattina presto, come al
solito non c’era vento. Anzi, non si era ancora levata nemmeno una leggera
brezza. Però, dopo circa un’ora, alcune increspature sulla superficie
dell’acqua ci predisposero a ben sperare. Sollevammo in due il kayak
trasportandolo, con l’ottimismo dei principianti, nell’acqua bassa e portandoci
dietro le pagaie. Niente. Qualsiasi increspatura era scomparsa. Riportammo il
kayak dov’era prima. Nei tre giorni successivi, ripetemmo l’operazione varie
volte, con gli stessi risultati. Che il vento fosse scomparso dalla faccia
della terra? Nel frattempo la coppia se n’era andata.
Il quarto giorno, c’era finalmente una brezza
accettabile già di mattina. Con l’entusiasmo di velisti esperti, rimettemmo in
mare il kayak, con l’intenzione di provare nell’acqua bassa, a pochi metri
dalla spiaggia e di spostarci paralleli a questa. Se ci fossimo capovolti, almeno
saremmo potuti stare in piedi e riportare facilmente a terra il kayak per le
eventuali riparazioni.
D’improvviso il vento aumentò, gonfiando la vela.
“Molla! Molla!” gridava Patrizia sopra ogni
raffica. E io mollavo. “Ci rovesciaaaamo! È molto instabile. Qui spacchiamo
tutto!”
Lasciai andare molte volte, sempre una frazione
di secondo prima del disastro. “Far vela” risultò sinonimo di “mollare”, almeno
per l’ottanta per cento del tempo.
“Diavolo. Quello è matto. È una vela pericolosa.
Tanto più montata su un kayak dalle fiancate di tela soltanto venti centimetri
sopra il pelo dell’acqua. È troppo difficile da manovrare. Se continuiamo cosi,
prima o poi succederà un macello.”
Dopo un’ora ne avevamo abbastanza. “Meglio essere
prudenti e non strafare. L’importante è non esserci rovesciati… finora. È già
qualcosa, per essere il primo giorno. Ritorniamo a terra.”
I giorni seguenti proseguimmo con la pratica.
Anche se non scuffiammo mai, ci andammo vicini più di una volta.
“E se provassimo a costruire vele meno
pericolose? Quelle normali, voglio dire, le vele triangolari…” osservò
Patrizia.
“Sono d’accordo. Ma non ho nessuna idea
dell’altezza della vela nel cateto verticale, quello lungo l’albero, e della
sua lunghezza sul boom. È così che si
chiama, no? Chissà come si dice in italiano.”
“Inoltre abbiamo bisogno di un supporto per
l’albero. Non possiamo continuare a sostenerlo noi: è ridicolo! Oltre a essere
faticoso.”
“Perché non andiamo fino all’altra spiaggia a
est, sono solo un paio di chilometri via mare. Ci chiariremo le idee mentre
remiamo fin là. Qualcosa ci verrà in mente.”
L’altra spiaggia era appena più turistica, si fa per dire. Un paio di
ospiti avevano preso in affitto dei bungalows piuttosto spartani.
Ci presentammo a una turista americana che se ne
stava sdraiata all’ombra di alcune giovani palme, in un angolino molto carino e
ventilato. Nel corso della conversazione, le raccontammo la nostra esperienza
con lo spinnaker e le domandammo se avesse una qualche idea delle proporzioni
delle vele.
“Nessuna idea, ma forse ho qualcosa che vi può
interessare. Datemi un minuto” disse alzandosi e scomparendo dietro la
cigolante porta incolore della capanna. Una bella sabbia bianca si stendeva
sotto i nostri piedi, soffice e quasi sensuale.
Quando ritornò, aveva in mano due riviste.
“Potete tenerle. Ci sono moltissime fotografie di barche con le vele spiegate.
Spero ci troviate qualcosa di utile.”
Adesso sì che avevamo qualcosa di concreto da cui
cominciare!
Di ritorno nell’autocaravan, misi le riviste sul
tavolo della dinette. Aprii la prima e cominciai a sfogliarne le pagine.
“Patrizia, deduco dalle descrizioni che l’orlo
verticale anteriore di una vela triangolare si chiama luff (inferitura). L’orlo
inferiore si chiama foot (piede). Temo che dovremo imparare numerose parole
tecniche. Anche se nessuna ci aiuterà minimamente a costruire le vele. A ogni
modo, quello che ci serve adesso è determinare il rapporto approssimativo tra
il luff e il foot. È senz’altro costante...”
C’erano decine di fotografie. Scelsi le più
chiare e procedetti alle misurazioni.
“OK. Patrizia, adesso che mi sono fatto un’idea
del rapporto tra le dimensioni delle vele che, come immaginavo, è quasi
costante” dissi alla fine, “devo concentrarmi sul modo di rendere l’albero
stabile. La difficoltà sta nel fatto che il kayak è quasi tutto di tela
(hypalon). Le uniche parti solide sono la struttura d’alluminio e questo coso
di metallo all’altezza del petto, di fronte al sedile anteriore: mi sembra che
si chiami cleat (galloccia).”
Ripresi fiato e proseguii: “Abbiamo ancora quel
vecchio apribottiglie? Voglio dire, per bottiglie di birra. Sì? Bene. Farò prima
un buco per fissarlo con una vite alla galloccia, poi ne farò un altro per far
passare una vite più piccola.”
“Perché?” domandò Patrizia.
“L’intenzione non è solo quella di fissare meglio
alla galloccia l’apribottiglie attraverso il quale passerà l’albero, ma anche
di usare la vite più piccola come vite di sicurezza, dato che questa, nel caso
di eccessiva pressione, cederà per prima salvaguardando il resto della
struttura.”
In basso, vicino al pavimento del kayak, collegai
due dei tubi laterali della struttura d’alluminio con un robusto listello di
legno trasversale. In quest’ultimo, nel centro, feci un buco appena più grande
del diametro dell’albero. Adesso avevo pertanto due buchi, a cinquanta
centimetri di distanza l’uno dall’altro: il buco nel listello di legno, in
basso, e quello dell’apribottiglie cinquanta centimetri più in alto, nei quali
avrei inserito l’albero.
“L’altro problema, Patrizia, è che il kayak è
privo di chiglia. Senza chiglia si può andare solo in favore di vento. Ma la
bellezza, direi il miracolo della vela, è proprio risalire il vento. Come fare?
Anche veleggiando a soli novanta gradi con il vento (intendevo ‘al traverso’),
si produrrà un intenso movimento laterale del kayak: ecco qui... si chiama leeway (scarroccio)... Questi termini
tecnici mi faranno impazzire.”
“Ho notato che le piccole barche a vela sono
dotate di una deriva centrale, che sale e scende” intervenne Patrizia. “Serve
per andare controvento?”
“Mi pare che quella dovrebbe essere la loro
funzione: ridurre lo scarroccio consentendo all’imbarcazione di andare più...
ah, qui dice ‘windwards’. Dev’essere quello che, per mancanza di un termine
adeguato, abbiamo chiamato ‘controvento’.”
“Temo che sia fuori luogo anche solo prendere in
considerazione di fare un buco nel pavimento d’hypalon del kayak per infilarci
una tavola, una deriva, vero?”
“Ovvio. Però... mi hai dato l’idea... Perché non
fissare alla galloccia una robusta tavola trasversale, in posizione
orizzontale? Nell’asse, che sporgerà sui due lati sopra l’acqua, potrei
tagliare una feritoia per inserirci un altro piano, stavolta verticale. In
mancanza di una deriva centrale, se ne potrebbero costruire due laterali: una
su ogni lato. Che te ne pare?”
“Sì, potrebbe funzionare. Ma le borse della
spazzatura per costruire le vele? E il duct tape?” chiese Patrizia.
“Duct tape o un altro nastro isolante sarà certo
reperibile a Mulege.”
“OK. Ma le borse della spazzatura per le vele?”
“È probabile che non le troveremo. A ogni modo,
non si può mai dire. I messicani useranno pure qualcosa per metterci la
spazzatura! L’unica possibilità è comunque a Mulege, quando andremo a riempire
i serbatoi d’acqua e a fare provviste. Altrimenti saremmo costretti a comprare
quello che hanno sempre usato i vecchi lupi di mare: stoffa! Loro non avevamo
mica a disposizione la tecnologia delle borse di plastica!”
Fu una gradita sorpresa scoprire che non solo
esistevano le borse della spazzatura, ma che erano addirittura di un bel colore
celeste acquamarina. E trovammo perfino il duct tape!
Prudentemente, costruimmo la prima vela non
troppo grande. Quando la provammo, ci accorgemmo che era sicura e maneggevole,
ma anche che, se avessimo voluto andare più forte e nutrire qualche speranza di
risalire il vento, avremmo dovuto aumentarne la superficie velica.
Avevo già costruito la tavola orizzontale e le
due derive laterali con compensato in vendita nella stessa ferramenta di
Mulege. Però, dopo aver provato a navigare, non ne fui troppo soddisfatto,
perché quelle derive, essendo fisse, mancavano di versatilità.
“La prossima volta che andiamo a Mulege, dobbiamo
comprare due chiavistelli. Peccato, altre due settimane di attesa!”
“Non credo. Dovremmo averli da qualche parte.”
Patrizia frugò dappertutto e alla fine trovò i catenacci,
che fissai alle estremità del ripiano orizzontale. Trapanai, poi, tre fori su
una linea verticale in ciascuna delle due derive per fermarle nella posizione
desiderata coi saliscendi. Adesso le derive potevano essere abbassate in tre
posizioni diverse: bassa, media e alta. Niente male, almeno in teoria.
Quando ampliammo la seconda vela, il rendimento
migliorò, ma la superficie velica era ancora insufficiente; la terza, di
dimensioni ancora superiori, sembrava finalmente quella adeguata.
A Mulege, un’oasi di spettacolare bellezza, una
quarantina di chilometri a nord, avevamo comprato del materiale trasparente e
adesso era una gioia per gli occhi godersi una piena visuale laterale durante
la navigazione. Costruii perfino un piccolo jib(fiocco) trasparente con un materiale ancor più di qualità.
Quasi ogni giorno, mettevamo il Kayak in acqua e
facevamo pratica per molte ore.
Non nascondevo una certa soddisfazione dopo la
costruzione dell’ultima vela. “Ecco come si chiama in inglese: ‘main’(randa).
Forse perché è la vela più grande. Un’altra parola da aggiungere al nostro
vocabolario tecnico. Queste riviste ci sono state davvero utili.”
“Mi sembra che funzioni” manifestò Patrizia
durante una delle prove. “Ho l’impressione che si risalga il vento. Magari
pochissimo... ma…”
“C’è anche una leggera corrente la maggior parte
delle volte, in uno dei tacks (bordi), a complicare le cose… Devo escogitare
una prova tale da fornirmi una risposta inequivocabile una volta per tutte:
risaliamo o no il vento?”
Dopo aver piantato due stecchi sul fondo,
nell’acqua poco profonda, a cento metri l’uno dall’altro e altri due sulla
spiaggia alla stessa altezza, misurai la distanza tra le aste sulla mezzaluna
della spiaggia. Poi, dopo aver determinato a quanti metri corrispondevano cento
remate, contammo il numero delle vogate mentre procedevamo verso il largo,
cominciando da un punto predeterminato vicino alla riva. Adesso avevamo il
raggio del settore di circonferenza. Ritornammo a vela verso la spiaggia, di
bolina, facemmo due bordi e marcammo il punto preciso dove eravamo sbarcati.
Dividendo per due e calcolando i gradi corrispondenti all’arco di
circonferenza, potevamo farci un’idea abbastanza accurata se risalivamo o meno
il vento.
“Cinque gradi! Siamo andati di bolina!” urlai di
gioia dopo la prima volta. Risaliamo il vento di cinque gradi! Questa è
un’impresa storica!”
Confermai questo dato molte volte. In seguito
appresi che quei cinque gradi venivano, in realtà, universalmente chiamati ottantacinque gradi. Ma, al momento, non
ero a conoscenza dei calcoli convenzionali e mi sembrava logico partire dai
novanta gradi per calcolare il guadagno effettivo controvento.
Quando raggiungemmo i dieci-dodici gradi
controvento (il che voleva dire che risalivamo a settantotto-ottanta gradi) mi
sentii estremamente felice.
Avevamo programmato già da tempo di navigare a
vela da Playa Escondida alla caletta de Los Muertitos (descritta nel secondo
libro della serie Cittadini del mondo),
dove il nostro amico Pablo, il pescatore di razze e squali, aveva stabilito la
sua sede permanente in una capanna al limitare della mezzaluna sabbiosa. Una
mattina, ritenendo che si fossero presentate, dopo molti giorni di attesa,
condizioni meteorologiche favorevoli, issammo la vela. A dire il vero, nel
tratto iniziale di mare, per le prime due ore, la brezza era così debole che
avanzavamo a malapena, rischiando di essere trascinati indietro dalla leggera
corrente. Poi si levò una brezza tesa che ben presto raggiunse i venti nodi,
cominciando a formare onde di notevole altezza.
Dopo che due onde consecutive allagarono il
kayak, convenimmo che, se volevamo procedere fino a destinazione, ogni volta
che arrivava un’onda di traverso avremmo dovuto sporgerci dalla parte opposta,
per rialzare il lato sopravvento di una misura sufficiente a impedire all’acqua
di entrare. Era un’impresa non da poco, considerando che le fiancate di hypalon
si trovavano soltanto una ventina di centimetri sopra il pelo dell’acqua. Sorprendentemente
ci volle meno di quanto pensassimo a entrare nel gioco. Fu senz’altro un’imprudenza eccitante, una volta appurato il
suo buon esito e che quindi la paura, pur sempre presente nel background,
poteva venire esorcizzata con l’azione, ma che non ripeterei mai più.
Il mare era così agitato che, durante i nove
chilometri che ci separavano dalla nostra destinazione, non incrociammo né
vedemmo in lontananza una sola barca di pescatori. Ma a questo era meglio non
pensare.
Avevamo sistemato nel kayak una buona scorta di
galloni d’acqua potabile, provviste e utensili per cucinare, un fornellino e
una tenda – senza contare il nostro cane Andrea – per renderci conto se, in
futuro, sarebbe stato fattibile navigare a pieno carico, di baia in baia, lungo
le quaranta miglia della Baia della Concezione, dove era impossibile
l’approvvigionamento sia di cibo sia di acqua.
Adesso, stracarichi com’eravamo, sarebbe stato
imprudente sbarcare in una delle tre o quattro spiagge sottovento che
incontrammo sul nostro cammino. Con onde simili che rompevano sulle spiagge dal
mare aperto, sbarcare avrebbe significato fracassare irreparabilmente la debole
struttura di alluminio. Chi ha letto il secondo libro della serie, Il viaggio continua, ricorderà dalla
storia # 18 “UNO SOLO” che Patrizia
si era a ragione rifiutata di mettere in acqua da sola il kayak, che in quel
momento si trovava sulle rocce, perché avrebbe dovuto trascinarlo, non
riuscendo a sollevarlo da sola. No, dovevamo resistere fino alla caletta
protetta di Pablo e, ogni volta che arrivava un’onda, continuare a piegarci sul
lato opposto!
Dopo aver raccontato a Pablo la nostra folle
impresa e dopo averlo messo al corrente della costruzione di vele sempre più
grandi, con l’obiettivo di navigare controvento, lui, mettendo a frutto
l’esperienza che aveva acquisito in vent’anni di barca a vela, disse:
“Ho buone notizie. Anni fa un turista americano
mi ha lasciato una vela di dacron di un vecchio windsurf. Non mi serve. Se la
volete, è vostra. Con quella, sarete in grado di andare ancora di più
controvento.”
“Di più? Ne è sicuro?”
“Sì, perché il vostro albero si trova molto in
avanti, perciò la vela vi consentirà di risalire bene il vento. Però…” esitò
interrompendosi.
“C’è un però?”
“Be’, sì, l’unica cosa è che dovete evitare di
usare le derive.”
“Questa è bella” esclamai rivolgendomi a
Patrizia. “Adesso andiamo controvento senza chiglia e senza derive!” Poi,
incredulo, domandai a Pablo:
“Com’è possibile risalire il vento senza derive?”
“Le derive” cominciò con la calma e la pazienza
di un esperto, “ridurrebbero la vostra velocità a tal punto che non sareste più
in grado di andare controvento nemmeno un po’!”
“Se lo dice lei...” commentai. Ma ero lungi
dall’esserne convinto.
Pablo si avviò verso la parte occidentale della
spiaggia, salì di un paio di metri più in alto passando davanti a un magnifico
esemplare di ocotillo dai rami carichi di fiorellini cremisi, ed entrò nella
modesta capanna nella quale abitava con la moglie, due figli maschi e una femmina.
Ritornò poco dopo con la vela.
“Stupenda!” osservai quando la depose sulla
spiaggia. “Finalmente una vera vela! Ma è un po’ grande, dovremmo tagliarla e
ricucirla... Patrizia, te la senti?”
“Ci proverò...”
Il vecchio lupo di mare aveva ragione e io non
riuscivo a crederci. Usando le derive, il kayak ritornava a guadagnare solo i
soliti cinque gradi; senza, invece, calcolai più volte una variazione fra i diciotto
e i venticinque gradi, secondo la velocità del vento e le maree. Ciò
significava da settantadue a sessantacinque gradi: risalivamo il vento quasi
quanto un grosso catamarano da crociera. Ma allora non lo sapevamo ancora.
La prima volta che risalimmo il vento con dei
bordi fra le barche a vela di “live-aboards” ancorate in una grande baia
protetta, ci accorgemmo ben presto che la gente sulla tolda si sbracciava per
farsi notare e poi ci gridava da lontano qualcosa come: “È un kayak?”
“È un kayak smontabile!” urlavo a mia volta con
orgoglio.
“Wow!” era l’apprezzamento abituale, accompagnato
dal pollice in alto, in puro stile americano.
Anni dopo, nel corso dei viaggi con la nostra
barca a vela, una sera fummo invitati a cena in un lussuoso catamarano, insieme
a un’altra coppia ormeggiata come noi in uno dei tanti ancoraggi protetti dalla
barriera corallina lungo la costa caraibica messicana.
Quando raccontai la storia di come avevamo
imparato a far vela, il nostro anfitrione commentò: “Siete i soli cruisers che
conosco ad aver reinventato la vela!”
Non era poi un brutto complimento per due
principianti come noi.
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