martedì 7 gennaio 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 8 La visita, Francoforte - Germania



LA VISITA - Francoforte, Germania

Prima di presentare la parte conclusiva della  nostra avventura archeologica (Quel muro di Troia, parte seconda) relativa al racconto precedente N° 7, vi propongo un racconto intitolato “La visita”. Esso è ambientato  interamente dentro il nostro
autocaravan, parcheggiato per l’inverno in uno dei campeggi di Francoforte, con una bella vista sul fiume. Si tratta di un’illustrazione emblematica , attraverso il giudizio di conoscenti, del nostro stato d'animo sia durante le “vacanze” sia nei periodi lavorativi.



La costante opprimente cappa di nubi, che doveva nascondere il sole per i tre mesi invernali successivi, manteneva l’aria pomeridiana a una sgradevole temperatura di dieci gradi sotto lo zero. Durante la notte, il termometro sarebbe sceso sotto i venti.

Nonostante il campeggio di Francoforte fosse quasi pieno di roulotte, autocaravan e camper non ci era stato difficile trovare un accogliente angolino vicino al tronco di un nodoso albero secolare: quasi un promemoria, privo di foglie com’era, di una natura che si era già preparata alla sopravvivenza invernale.

Lunghe stalattiti di ghiaccio penzolavano come trasparenti dita gocciolanti dal vetroresina della mansarda dell’autocaravan, sopra il tetto della cabina di guida. Non si scioglievano nemmeno a mezzogiorno. Che due adoratori del sole come noi avessero scelto una fetta del pianeta così scialba, cupa e opprimente per passarci un inverno, poteva apparire, a prima vista, una decisione un po’ bizzarra. Ma, come ho già spiegato nella storia precedente, eravamo mossi da due forti motivazioni legate sia al perfezionamento del tedesco orale sia al viaggio nel Nuovo Mondo, previsto per l’anno seguente. Quel cielo, di un costante monocromatico umore grigio che sembrava aver perduto i suoi confini per scendere in basso a irrigidire persone e cose, per contrasto evocava il cielo quasi sempre terso e azzurrissimo e la natura a tinte vibranti dei due inverni precedenti nel meridione della Turchia, sul Mediterraneo orientale.

Queste ultime immagini, più passavano i giorni più diventavano dubbi del passato. Non ci restava che adattarci, nel modo più pratico e rapido possibile, all’insolita situazione che noi stessi avevamo creato: per esempio, non avevamo altra opzione se non quella di mantenere acceso il riscaldamento a gas dell’autocaravan ventiquattro ore al giorno, sia per consentire ad Andrea di vivere in un ambiente gradevole durante le nostre ore di lavoro, sia per evitare che le tubature, gelando, finissero per creparsi.

Com’era gratificante entrare dall’umido freddo glaciale della strada, che penetrava dentro le ossa, in un ambiente accogliente a una costante temperatura di ventitré gradi!

Quella sera, alle nove, avevamo già abbassato il tavolino della dinette e ci eravamo seduti sul risultante letto. Avremmo passato un’oretta immersi in un sottofondo di musica classica, prima di spegnere la luce. Il mattino seguente ci saremmo alzati alle cinque per prendere il tram che ci avrebbe portati al lavoro, in centro.

Patrizia prese un libro dallo scaffale e incominciò a leggere. Io avevo in mente un progetto diverso.

“Che cosa fai in quella posizione?” chiese ben presto Patrizia, abbassando il libro.

“Be’, la vedi questa?” le dissi attraendo la sua attenzione su un’escrescenza di un paio di centimetri nella parte interna della gamba sinistra, appena sopra il ginocchio. “Ce l’ho da anni. Ho deciso che è venuta l’ora di liberarmene.”

“Scherzi, vero?”

“No, dico sul serio. Diciamo che farò un piccolo esperimento. A dire la verità, non sono affatto convinto che funzioni, ma non costa niente provare.”

Patrizia sollevò curiosa le sopracciglia e posò il libro sulla trapunta.

“Sai dov’è il coltello grande?” le domandai, sedendomi sul bordo del letto e infilando un piede dentro una pantofola felpata.

“Ancora nel lavandino, credo. Non ti vuoi tagliare via quel coso, vero?”

“Neanche per sogno, non ti preoccupare” la rassicurai, dirigendomi verso la cucina. “Ho in mente qualcosa di meno invasivo.”

“Vuoi metà della mia arancia?”

“Perché no? Ho sete.”

“Sembra che il riscaldamento stasera renda l’aria qui dentro più secca del solito... ”

Risalii sul letto per riassumere la stessa posizione.

“Il dilemma riguarda la mano... ” avevo sollevato entrambe le mani, con le palme in alto, e cominciato a muoverle avanti e indietro chiedendomi ad alta voce: “Questa?” quando la mano si trovava vicino al petto “O questa? Questa o quella?”

“Stai muovendo le mani come fanno i cuccioli quando succhiano la tetta, solo con le mani al rovescio!”

“Userò la destra. I conoscitori sostengono che, nell’uomo, la mano destra è quella che dà. E il dito?... Forse l’indice?... ”

Patrizia fissava la mia mano destra, che con il palmo verso l’alto esaminavo da vicino, un dito dopo l’altro, come se la stessi vedendo per la prima volta.

“No, sceglierò il medio. È più grande e, trovandosi nel centro, soddisfa il mio senso innato di simmetrica eleganza.”

“Ma che cosa dici?”

“L’idea è quella di pompare sull’escrescenza l’abbondante bioenergia che irradia dal mio dito medio!”

“E se non avessi nessuna bioenergia?”

“In questo caso” dissi, lanciandole un’occhiata di traverso, “qualcun altro dovrà farlo in mia vece.”

“Non guardare me. Nemmeno per sogno! Fammi ritornare a leggere... ”

Sollevai il dito medio e lo posi vicino all’escrescenza. Subito si presentò un altro dilemma. Ma era normale, sorgono sempre numerosi dilemmi quando non si conosce assolutamente nulla della materia e non si ha, pertanto, altra scelta se non quella di cercare di risolvere i problemi nell’ordine in cui si presentano.

La musica classica nel sottofondo produceva un piacevole effetto rilassante.

“Toccare o non toccare. Questo è il problema!”

Patrizia sbirciò da sopra gli occhiali. “Mi sembra una storpiatura gratuita... quello là si rigira nella tomba... Comunque, toccare è sempre meglio!”

“Salvo eccezioni” commentai, ignorando l’allusione. “In questo caso è meglio non toccare. Qualora il flusso dell’energia si estendesse davvero alcuni centimetri oltre la punta delle dita, come ho letto più volte, sarebbe più armonico e più elegante, per non dire più ‘scientifico’, evitare di toccare. Nel caso di risultati positivi, il semplice fatto di non toccare confermerebbe non solo l’esistenza dell’energia, ma anche la sua estensione oltre la punta delle dita.”

Ma un dilemma ne creava un altro: dovevo mantenere il dito immobile sopra l’escrescenza oppure muoverlo? E se lo avessi mosso, avrei dovuto farlo soltanto sopra o anche tutto intorno? E se avessi ruotato il dito lungo il perimetro dell’escrescenza, avrei dovuto eseguire una rotazione oraria o antioraria? Tutte queste potenziali variabili mi facevano impazzire. Eppure, quando si prepara un esperimento bisogna esserne consapevoli per evitare conclusioni arbitrarie.

Decisi, infine, di alternare tra il mantenere fermo il dito e il ruotarlo in senso antiorario. Non c’era nessun serio motivo per quest’ultima scelta, se non un’ulteriore ragione di armonia: se i venti e gli uragani nell’emisfero settentrionale si muovono in senso antiorario e l’acqua del lavandino si dilegua in un vortice antiorario, ci deve pur essere una ragione. E poi, perché sottovalutare il fatto che ho sempre mescolato il caffè in senso antiorario, almeno nell’emisfero settentrionale? Sì, era meglio tenerne conto e non disturbare l’ordine naturale...

Basta così! Il troppo stroppia, si potrebbe cadere nello stesso dilemma del millepiedi: riflettere troppo a lungo su quale piede muovere per primo, potrebbe sortire l’effetto di congelare l’azione. Incominciamo, una volta per tutte, in un modo o nell’altro.

Procedendo a muovere il dito in tondo, in senso antiorario, cercai di visualizzare un’energia naturale dotata del potere di spingere i bordi dell’escrescenza dall’ esterno verso l’interno, con il risultato di restringere quest’ultima di un’impercettibile inezia a ogni rotazione del dito. Patrizia alzava ogni tanto lo sguardo dal libro con una costante espressione divertita, che a tratti sembrava però mutarsi in uno sguardo di solidale speranza.

Quando ci si impegna in qualcosa con molta intensità con la segreta convinzione che debba necessariamente funzionare, si corre un grosso rischio. Il rischio di abbandonare, prima o poi, l’obiettività di valutazione. Essendone consapevole, quando dopo una ventina di minuti mi sembrò di vedere che l’escrescenza si era ridotta, incominciai a dubitare dell’affidabilità della mia vista e della mia capacità di giudizio.

“Patrizia, so che può sembrare incredibile, ma... è solo la mia immaginazione o... è effettivamente più piccola? Ti dispiacerebbe darle un’occhiata?”

Patrizia depose il volume e si avvicinò fino a sfiorarmi la guancia coi capelli. Indugiò in quella posizione un tempo sufficiente a farmi pensare che... Ma no, fu solo un breve istante...

Diede un’occhiata all’escrescenza, poi alzò lo sguardo:

“Be’” disse, “è decisamente più piccola!”

“Ne sei proprio sicura?”

“Sicurissima!”

“Sai cosa ti dico?” suggerii “Esaminala bene, dimensioni, altezza, colore. Fra mezz’ora ti farò la stessa domanda.”

Ritornai al lavoro, speranzoso e motivato, concentrando al massimo lo sguardo sulla protuberanza e continuando a ruotarvi il dito sopra, senza toccarla.

Dopo una mezz’oretta non ebbi più dubbi. Non soltanto si era ulteriormente ridotta, ma il colore era cambiato: era più rosa che purpurea, e quasi a livello con la pelle circostante.

Patrizia confermò, stupefatta.

Nonostante fossero già le dieci passate, decisi di andare avanti, se necessario fino allo sfinimento fisico, per determinare fino a che punto si sarebbe ridotta; malgrado dovessi alzarmi alle cinque del mattino.

Un picchiettare alla porta mi fece volgere istintivamente uno sguardo interrogativo verso Patrizia. Chi poteva bussare a quell’ora? Non conoscevamo quasi nessuno nel campeggio. Certo doveva trattarsi di un errore o di un’emergenza.

Aprii la porta. Imbacuccata in vestiti pesanti, se ne stava in silenzio una coppia sorridente. Sotto la lama di luce che dall’interno illuminava oltre lo scalino esterno dell’autocaravan, riconobbi con stupore Eva e Baudo, i nostri amici olandesi che avevamo conosciuto in Turchia due inverni prima. Entrarono, preceduti da una folata di aria gelida.

“Che bella sorpresa!” esclamammo all’unisono, prima di scambiarci forti abbracci. Tolsi la trapunta e i cuscini dal letto, sollevai la tavola centrale trasformando il letto in un tavolino e in due sedili doppi, e li feci accomodare davanti a noi.

“Siamo arrivati a Francoforte stasera tardi. Siamo venuti direttamente da Amsterdam per farvi visita. Alloggiamo all’hotel ... ” e nominò una struttura poco distante dal nostro campeggio.

“C’è qualcosa che non va?”

“No, no, tutto bene. È una visita di piacere.”

Proprio in quel momento ricordai di aver scritto loro una lettera un paio di settimane prima, chiarendo il motivo del nostro soggiorno a Francoforte.


Ci eravamo conosciuti sulla bianca lingua sabbiosa di Oludeniz, una paradisiaca laguna sulla costa mediterranea della Turchia, uno specchio d’acqua salata di un profondo blu, comunicante col mare verde-azzurro, ai piedi delle colline che, sul lato opposto, a quattordici chilometri da lì, abbracciano la città-porto di Fethiye. Le sue tombe spettacolari, tutte scavate in una
rossastra parete rocciosa verticale, le più elaborate delle quali furono disegnate per assomigliare a templi ellenistici – con tanto di colonne e porticati – si ergono appena fuori dal porto, ancora quasi intatte, possenti testimoni del passato millenario della bella Telmesso (antico nome di Fethiye).

Io e Patrizia eravamo da qualche giorno parcheggiati sulla laguna, quando arrivò un camper che si fermò poco lontano. Eva, che aveva notato la nostra targa, era venuta a dirci “salve” in italiano.

Le due settimane che avevamo passato insieme, condividendo a volte bagni di mare e di sole, passeggiate, conversazioni e cene nell’uno o nell’altro camper con la tipica cucina dei due Paesi, ma sempre in pieno rispetto dell’altrui privacy, se n’erano andati con quella rapidità sorprendente che fa immancabilmente esclamare con stupore che “il tempo è volato via”.

“Che magnifica sorpresa!”

“Che bel calduccio qui dentro” disse Eva, togliendosi il cappotto. Baudo mi passò la sciarpa ma tenne per un po’ la giacca.

Patrizia preparò qualcosa da sgranocchiare e io sturai una bottiglia di vino rosso.

La serata proseguì costellata di bei ricordi e di emozioni, proprio come tutte le riunioni tra vecchi amici che si rincontrano dopo un periodo di separazione, e la reciproca compagnia fu tanto godibile che non ci rendemmo conto che il tempo era già volato (sic!) ben oltre la mezzanotte.

Poi arrivò il momento cruciale. Prima di partire, Eva domandò:

“Volete sapere la ragione principale della nostra visita?”

“Ignoravo che aveste una ragione specifica” devo aver commentato, accigliandomi. Ma poi vidi Eva ancora rilassata, con un sorriso enigmatico. E tuttavia esitava.

“Qual è?” chiese Patrizia “Non lasciarci sulle spine.”

“Quando ci siamo conosciuti a Fethiye eravate in vacanza, proprio come lo eravamo noi. Vi trovammo a vostro agio e rilassati e ci domandammo quale sarebbe stato il vostro stato d’animo durante un periodo lavorativo. Da qualche tempo ci aveva preso la curiosità di verificare di persona. L’occasione si è presentata quando ci avete scritto che lavoravate a Francoforte da un paio di mesi. Ecco perché siamo arrivati qui senza preavviso.”

“Birichini. E che cosa avete scoperto?” chiesi con una certa aspettativa.

“Abbiamo scoperto che non c’è nessuna differenza. Siete proprio gli stessi!”

“Questo sì che è un bel complimento! Grazie.”

Anche Patrizia apprezzò molto. Personalmente, lo considero il secondo più bel complimento che abbiamo ricevuto come coppia in quarantuno anni di viaggi. Da allora, non potemmo fare a meno di notare quello che Eva e Baudo avevano già scoperto prima di noi. Quando le persone ritornano a lavorare dopo una vacanza, più o meno lunga, generalmente diventano persone diverse: o ritornano quelle di prima. La loro mancanza di disponibilità viene generalmente espressa nel ritornello “Non ho tempo!” La disponibilità viene degradata fino a sfiorare lo zero, l’interesse personale diventa, o ritorna a essere, la motivazione principale.

Quando se ne andarono, diedi un’occhiata alla sveglia. Era l’una del mattino.

“Andiamo a letto, faremo sogni d’oro dopo tante emozioni. Ci aspettano quattro ore di sonno concentrato, fino a quando suona la sveglia.”

L’indomani mattina, alle cinque, eravamo riposati e più ottimisti che mai, mentre il ricordo della bellissima notte precedente continuava ad aleggiare nel cuore e nella mente.

Solo quando fui completamente vestito mi ricordai dell’escrescenza. Mi calai i pantaloni per controllare. Non riuscii a rinvenirne neppure le tracce. Era completamente scomparsa!



N.d.A. Se il mio brillante exploit medico (guarire un’escrescenza senza toccarla) fosse giunto all’orecchio della comunità scientifica, non ho dubbi che mi sarebbe stato conferito il Premio Nobel IG (dove “IG” sta per “IGnobile”), il quale, invece, molti anni più tardi toccò a qualcun altro, come si legge su Wikipedia, alla voce IG Nobel Prizes: «Il Premio Nobel IG del 1998 fu assegnato a Dolores Krieger, Professoressa Emerita dell’Università di New York per avere dimostrato i meriti del tocco terapeutico, un metodo con il quale le infermiere manipolano i campi energetici dei pazienti evitando accuratamente ogni contatto fisico con quei pazienti!»

Una precisazione per chi non conosce l’inglese. “Nobel”, il cognome che diede origine al famoso premio, si pronuncia esattamente come noble (nobile). Gli inventori del “Premio IGnoble” (ignobile), hanno giocato umoristicamente sull’identità di pronuncia di Nobel (nobel/noble) e il suo contrario “Ignobile”.

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