LA VISITA - Francoforte, Germania
Prima di presentare la parte conclusiva della nostra avventura archeologica (Quel muro di Troia, parte seconda) relativa al racconto precedente N° 7, vi propongo un racconto intitolato “La visita”. Esso è ambientato interamente dentro il nostroautocaravan, parcheggiato per l’inverno in uno dei campeggi di Francoforte, con una bella vista sul fiume. Si tratta di un’illustrazione emblematica , attraverso il giudizio di conoscenti, del nostro stato d'animo sia durante le “vacanze” sia nei periodi lavorativi.
La costante opprimente cappa di nubi, che doveva
nascondere il sole per i tre mesi invernali successivi, manteneva l’aria
pomeridiana a una sgradevole temperatura di dieci gradi sotto lo zero. Durante
la notte, il termometro sarebbe sceso sotto i venti.
Nonostante il campeggio di Francoforte fosse quasi pieno
di roulotte, autocaravan e camper non ci era stato difficile trovare un
accogliente angolino vicino al tronco di un nodoso albero secolare: quasi un
promemoria, privo di foglie com’era, di una natura che si era già preparata
alla sopravvivenza invernale.
Lunghe stalattiti di ghiaccio penzolavano come
trasparenti dita gocciolanti dal vetroresina della mansarda dell’autocaravan,
sopra il tetto della cabina di guida. Non si scioglievano nemmeno a
mezzogiorno. Che due adoratori del sole come noi avessero scelto una fetta del
pianeta così scialba, cupa e opprimente per passarci un inverno, poteva
apparire, a prima vista, una decisione un po’ bizzarra. Ma, come ho già
spiegato nella storia precedente, eravamo mossi da due forti motivazioni legate
sia al perfezionamento del tedesco orale sia al viaggio nel Nuovo Mondo,
previsto per l’anno seguente. Quel cielo, di un costante monocromatico umore
grigio che sembrava aver perduto i suoi confini per scendere in basso a
irrigidire persone e cose, per contrasto evocava il cielo quasi sempre terso e
azzurrissimo e la natura a tinte vibranti dei due inverni precedenti nel
meridione della Turchia, sul Mediterraneo orientale.
Queste ultime immagini, più passavano i giorni più
diventavano dubbi del passato. Non ci restava che adattarci, nel modo più
pratico e rapido possibile, all’insolita situazione che noi stessi avevamo
creato: per esempio, non avevamo altra opzione se non quella di mantenere
acceso il riscaldamento a gas dell’autocaravan ventiquattro ore al giorno, sia
per consentire ad Andrea di vivere in un ambiente gradevole durante le nostre
ore di lavoro, sia per evitare che le tubature, gelando, finissero per
creparsi.
Com’era gratificante entrare dall’umido freddo glaciale
della strada, che penetrava dentro le ossa, in un ambiente accogliente a una
costante temperatura di ventitré gradi!
Quella sera, alle nove, avevamo già abbassato il tavolino
della dinette e ci eravamo seduti sul risultante letto. Avremmo passato
un’oretta immersi in un sottofondo di musica classica, prima di spegnere la
luce. Il mattino seguente ci saremmo alzati alle cinque per prendere il tram
che ci avrebbe portati al lavoro, in centro.
Patrizia prese un libro dallo scaffale e incominciò a
leggere. Io avevo in mente un progetto diverso.
“Che cosa fai in quella posizione?” chiese ben presto
Patrizia, abbassando il libro.
“Be’, la vedi questa?” le dissi attraendo la sua
attenzione su un’escrescenza di un paio di centimetri nella parte interna della
gamba sinistra, appena sopra il ginocchio. “Ce l’ho da anni. Ho deciso che è
venuta l’ora di liberarmene.”
“Scherzi, vero?”
“No, dico sul serio. Diciamo che farò un piccolo
esperimento. A dire la verità, non sono affatto convinto che funzioni, ma non
costa niente provare.”
Patrizia sollevò curiosa le sopracciglia e posò il libro
sulla trapunta.
“Sai dov’è il coltello grande?” le domandai, sedendomi
sul bordo del letto e infilando un piede dentro una pantofola felpata.
“Ancora nel lavandino, credo. Non ti vuoi tagliare via
quel coso, vero?”
“Neanche per sogno, non ti preoccupare” la rassicurai,
dirigendomi verso la cucina. “Ho in mente qualcosa di meno invasivo.”
“Vuoi metà della mia arancia?”
“Perché no? Ho sete.”
“Sembra che il riscaldamento stasera renda l’aria qui
dentro più secca del solito... ”
Risalii sul letto per riassumere la stessa posizione.
“Il dilemma riguarda la mano... ” avevo sollevato
entrambe le mani, con le palme in alto, e cominciato a muoverle avanti e
indietro chiedendomi ad alta voce: “Questa?” quando la mano si trovava vicino
al petto “O questa? Questa o quella?”
“Stai muovendo le mani come fanno i cuccioli quando
succhiano la tetta, solo con le mani al rovescio!”
“Userò la destra. I conoscitori sostengono che,
nell’uomo, la mano destra è quella che dà. E il dito?... Forse l’indice?... ”
Patrizia fissava la mia mano destra, che con il palmo
verso l’alto esaminavo da vicino, un dito dopo l’altro, come se la stessi
vedendo per la prima volta.
“No, sceglierò il medio. È più grande e, trovandosi nel
centro, soddisfa il mio senso innato di simmetrica eleganza.”
“Ma che cosa dici?”
“L’idea è quella di pompare sull’escrescenza l’abbondante
bioenergia che irradia dal mio dito medio!”
“E se non avessi nessuna bioenergia?”
“In questo caso” dissi, lanciandole un’occhiata di
traverso, “qualcun altro dovrà farlo in mia vece.”
“Non guardare me. Nemmeno per sogno! Fammi ritornare a
leggere... ”
Sollevai il dito medio e lo posi vicino all’escrescenza.
Subito si presentò un altro dilemma. Ma era normale, sorgono sempre numerosi
dilemmi quando non si conosce assolutamente nulla della materia e non si ha,
pertanto, altra scelta se non quella di cercare di risolvere i problemi
nell’ordine in cui si presentano.
La musica classica nel sottofondo produceva un piacevole
effetto rilassante.
“Toccare o non toccare. Questo è il problema!”
Patrizia sbirciò da sopra gli occhiali. “Mi sembra una
storpiatura gratuita... quello là si rigira nella tomba... Comunque, toccare è
sempre meglio!”
“Salvo eccezioni” commentai, ignorando l’allusione. “In
questo caso è meglio non toccare. Qualora il flusso dell’energia si estendesse
davvero alcuni centimetri oltre la punta delle dita, come ho letto più volte,
sarebbe più armonico e più elegante, per non dire più ‘scientifico’, evitare di
toccare. Nel caso di risultati positivi, il semplice fatto di non toccare
confermerebbe non solo l’esistenza dell’energia, ma anche la sua estensione
oltre la punta delle dita.”
Ma un dilemma ne creava un altro: dovevo mantenere il
dito immobile sopra l’escrescenza oppure muoverlo? E se lo avessi mosso, avrei
dovuto farlo soltanto sopra o anche tutto intorno? E se avessi ruotato il dito
lungo il perimetro dell’escrescenza, avrei dovuto eseguire una rotazione oraria
o antioraria? Tutte queste potenziali variabili mi facevano impazzire. Eppure,
quando si prepara un esperimento bisogna esserne consapevoli per evitare
conclusioni arbitrarie.
Decisi, infine, di alternare tra il mantenere fermo il
dito e il ruotarlo in senso antiorario. Non c’era nessun serio motivo per
quest’ultima scelta, se non un’ulteriore ragione di armonia: se i venti e gli
uragani nell’emisfero settentrionale si muovono in senso antiorario e l’acqua
del lavandino si dilegua in un vortice antiorario, ci deve pur essere una
ragione. E poi, perché sottovalutare il fatto che ho sempre mescolato il caffè
in senso antiorario, almeno nell’emisfero settentrionale? Sì, era meglio
tenerne conto e non disturbare l’ordine naturale...
Basta così! Il troppo stroppia, si potrebbe cadere nello
stesso dilemma del millepiedi: riflettere troppo a lungo su quale piede muovere
per primo, potrebbe sortire l’effetto di congelare l’azione. Incominciamo, una
volta per tutte, in un modo o nell’altro.
Procedendo a muovere il dito in tondo, in senso
antiorario, cercai di visualizzare un’energia naturale dotata del potere di
spingere i bordi dell’escrescenza dall’ esterno verso l’interno, con il
risultato di restringere quest’ultima di un’impercettibile inezia a ogni
rotazione del dito. Patrizia alzava ogni tanto lo sguardo dal libro con una
costante espressione divertita, che a tratti sembrava però mutarsi in uno
sguardo di solidale speranza.
Quando ci si impegna in qualcosa con molta intensità con
la segreta convinzione che debba necessariamente funzionare, si corre un grosso
rischio. Il rischio di abbandonare, prima o poi, l’obiettività di valutazione.
Essendone consapevole, quando dopo una ventina di minuti mi sembrò di vedere
che l’escrescenza si era ridotta, incominciai a dubitare dell’affidabilità
della mia vista e della mia capacità di giudizio.
“Patrizia, so che può sembrare incredibile, ma... è solo
la mia immaginazione o... è effettivamente più piccola? Ti dispiacerebbe darle
un’occhiata?”
Patrizia depose il volume e si avvicinò fino a sfiorarmi
la guancia coi capelli. Indugiò in quella posizione un tempo sufficiente a
farmi pensare che... Ma no, fu solo un breve istante...
Diede un’occhiata all’escrescenza, poi alzò lo sguardo:
“Be’” disse, “è decisamente più piccola!”
“Ne sei proprio sicura?”
“Sicurissima!”
“Sai cosa ti dico?” suggerii “Esaminala bene, dimensioni,
altezza, colore. Fra mezz’ora ti farò la stessa domanda.”
Ritornai al lavoro, speranzoso e motivato, concentrando
al massimo lo sguardo sulla protuberanza e continuando a ruotarvi il dito
sopra, senza toccarla.
Dopo una mezz’oretta non ebbi più dubbi. Non soltanto si
era ulteriormente ridotta, ma il colore era cambiato: era più rosa che
purpurea, e quasi a livello con la pelle circostante.
Patrizia confermò, stupefatta.
Nonostante fossero già le dieci passate, decisi di andare
avanti, se necessario fino allo sfinimento fisico, per determinare fino a che
punto si sarebbe ridotta; malgrado dovessi alzarmi alle cinque del mattino.
Un picchiettare alla porta mi fece volgere istintivamente
uno sguardo interrogativo verso Patrizia. Chi poteva bussare a quell’ora? Non
conoscevamo quasi nessuno nel campeggio. Certo doveva trattarsi di un errore o
di un’emergenza.
Aprii la porta. Imbacuccata in vestiti pesanti, se ne
stava in silenzio una coppia sorridente. Sotto la lama di luce che dall’interno
illuminava oltre lo scalino esterno dell’autocaravan, riconobbi con stupore Eva
e Baudo, i nostri amici olandesi che avevamo conosciuto in Turchia due inverni
prima. Entrarono, preceduti da una folata di aria gelida.
“Che bella sorpresa!” esclamammo all’unisono, prima di
scambiarci forti abbracci. Tolsi la trapunta e i cuscini dal letto, sollevai la
tavola centrale trasformando il letto in un tavolino e in due sedili doppi, e
li feci accomodare davanti a noi.
“Siamo arrivati a Francoforte stasera tardi. Siamo venuti
direttamente da Amsterdam per farvi visita. Alloggiamo all’hotel ... ” e nominò
una struttura poco distante dal nostro campeggio.
“C’è qualcosa che non va?”
“No, no, tutto bene. È una visita di piacere.”
Proprio in quel momento ricordai di aver scritto loro una
lettera un paio di settimane prima, chiarendo il motivo del nostro soggiorno a
Francoforte.

Io e Patrizia eravamo da qualche giorno parcheggiati
sulla laguna, quando arrivò un camper che si fermò poco lontano. Eva, che aveva
notato la nostra targa, era venuta a dirci “salve” in italiano.
Le due settimane che avevamo passato insieme,
condividendo a volte bagni di mare e di sole, passeggiate, conversazioni e cene
nell’uno o nell’altro camper con la tipica cucina dei due Paesi, ma sempre in
pieno rispetto dell’altrui privacy, se n’erano andati con quella rapidità
sorprendente che fa immancabilmente esclamare con stupore che “il tempo è
volato via”.
“Che magnifica sorpresa!”
“Che bel calduccio qui dentro” disse Eva, togliendosi il
cappotto. Baudo mi passò la sciarpa ma tenne per un po’ la giacca.
Patrizia preparò qualcosa da sgranocchiare e io sturai
una bottiglia di vino rosso.
La serata proseguì costellata di bei ricordi e di
emozioni, proprio come tutte le riunioni tra vecchi amici che si rincontrano
dopo un periodo di separazione, e la reciproca compagnia fu tanto godibile che
non ci rendemmo conto che il tempo era già volato (sic!) ben oltre la mezzanotte.
Poi arrivò il momento cruciale. Prima di partire, Eva
domandò:
“Volete sapere la ragione principale della nostra
visita?”
“Ignoravo che aveste una ragione specifica” devo aver
commentato, accigliandomi. Ma poi vidi Eva ancora rilassata, con un sorriso
enigmatico. E tuttavia esitava.
“Qual è?” chiese Patrizia “Non lasciarci sulle spine.”
“Quando ci siamo conosciuti a Fethiye eravate in vacanza,
proprio come lo eravamo noi. Vi trovammo a vostro agio e rilassati e ci
domandammo quale sarebbe stato il vostro stato d’animo durante un periodo
lavorativo. Da qualche tempo ci aveva preso la curiosità di verificare di
persona. L’occasione si è presentata quando ci avete scritto che lavoravate a
Francoforte da un paio di mesi. Ecco perché siamo arrivati qui senza
preavviso.”
“Birichini. E che cosa avete scoperto?” chiesi con una
certa aspettativa.
“Abbiamo scoperto che non c’è nessuna differenza. Siete
proprio gli stessi!”
“Questo sì che è un bel complimento! Grazie.”
Anche Patrizia apprezzò molto. Personalmente, lo
considero il secondo più bel complimento che abbiamo ricevuto come coppia in
quarantuno anni di viaggi. Da allora, non potemmo fare a meno di notare quello
che Eva e Baudo avevano già scoperto prima di noi. Quando le persone ritornano
a lavorare dopo una vacanza, più o meno lunga, generalmente diventano persone
diverse: o ritornano quelle di prima. La loro mancanza di disponibilità viene
generalmente espressa nel ritornello “Non ho tempo!” La disponibilità viene
degradata fino a sfiorare lo zero, l’interesse personale diventa, o ritorna a
essere, la motivazione principale.
Quando se ne andarono, diedi un’occhiata alla sveglia.
Era l’una del mattino.
“Andiamo a letto, faremo sogni d’oro dopo tante emozioni.
Ci aspettano quattro ore di sonno concentrato, fino a quando suona la sveglia.”
L’indomani mattina, alle cinque, eravamo riposati e più
ottimisti che mai, mentre il ricordo della bellissima notte precedente
continuava ad aleggiare nel cuore e nella mente.
Solo quando fui completamente vestito mi ricordai
dell’escrescenza. Mi calai i pantaloni per controllare. Non riuscii a
rinvenirne neppure le tracce. Era completamente scomparsa!
N.d.A. Se il mio brillante exploit medico (guarire
un’escrescenza senza toccarla) fosse giunto all’orecchio della comunità
scientifica, non ho dubbi che mi sarebbe stato conferito il Premio Nobel IG
(dove “IG” sta per “IGnobile”), il quale, invece, molti anni più tardi toccò a
qualcun altro, come si legge su Wikipedia, alla voce IG Nobel Prizes: «Il
Premio Nobel IG del 1998 fu assegnato a Dolores Krieger, Professoressa Emerita
dell’Università di New York per avere
dimostrato i meriti del tocco terapeutico, un metodo con il quale le infermiere
manipolano i campi energetici dei pazienti evitando accuratamente ogni contatto
fisico con quei pazienti!»
Una precisazione per chi non conosce l’inglese. “Nobel”, il cognome che diede origine al famoso
premio, si pronuncia esattamente come noble
(nobile). Gli inventori del “Premio IGnoble” (ignobile), hanno giocato
umoristicamente sull’identità di pronuncia di Nobel (nobel/noble) e il suo contrario “Ignobile”.
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