venerdì 22 novembre 2019

CITTADINI DEL MONDO N° 2 Il fulmine - Belize



IL FULMINE, BELIZE

Il racconto inizia a Nicholas Caye, una delle isole del piccolo arcipelago delle Sapodillas, nell’estrema propaggine meridionale della barriera corallina del Belize, la seconda più lunga al mondo dopo quella australiana, e prosegue nelle acque, altrettanto
turchesi, dell’ancoraggio di San Pedro, nella parte più settentrionale della barriera, al confine con il Messico. È il primo di due fulmini che hanno colpito la barca a distanza di sedici anni, due esperienze che ricordiamo ancora vivamente e, comprensibilmente, con una certa apprensione.



Nikola Tesla

 «Il fulmine muove l’universo» Eraclito fu il primo a dichiarare. Il grande Tesla sarebbe stato d’accordo.


A coloro che, come me, apprezzano la magnitudine del genio di quest’ultimo, fa piacere immaginarselo a imbrigliare l’immensa forza del fulmine nel suo laboratorio di Manhattan: immerso nella lettura, seduto nel centro della stanza, col capo a pochi centimetri dal percorso fatale delle continue scariche elettriche di milioni di volt generate dalle sue apparecchiature.


Da parte mia, preferisco assistere all’inquietante spettacolo degli effimeri, intermittenti frattali di luce, dalla sicurezza di una gabbia di Faraday, come può essere un veicolo parcheggiato o da dietro le finestre di una stanza, dopo aver disinserito tutti gli elettrodomestici e, in particolare, l’antenna della televisione.

Le barche dei velisti permanenti, come noi, sono molto più esposte ai fulmini; che un fulmine colpisca un’imbarcazione durante un temporale, non è un evento così raro come si potrebbe pensare. Qualsiasi protezione si abbia a bordo, è inefficace contro l’impatto diretto di una saetta.

Poco dopo aver acquistato la barca a vela nel Marina Municipale di New Orleans, in Louisiana, sentimmo dire che un catamarano che si trovasse ormeggiato nel posto barca accanto, per qualche ragione sconosciuta, verrebbe colpito per primo da un eventuale fulmine, fungendo in tal modo da parafulmine per tutte le altre imbarcazioni nei posti adiacenti. In un ancoraggio aperto, però, sembra che sia i monoscafi sia i multiscafi vengano ugualmente presi di mira. Fa rabbrividire anche il semplice racconto di una simile esperienza, sempre che coloro che si trovavano a bordo siano ancora in grado di raccontarla.


Dividevamo l’idillico ancoraggio di Nicholas Caye, un’isoletta di un piccolo arcipelago sulla barriera corallina nell’estremo sud del Belize, con una coppia canadese reduce da Cuba, a bordo di un catamarano di legno. Quando il capitano si mise a raccontare la loro esperienza in quell’isola dei Caraibi, non poté omettere di descrivere come, pochi giorni prima, in un ancoraggio dei Giardini della Regina – un luogo conosciuto alla maggior parte dei cruisers dei Caraibi nord occidentali – la loro imbarcazione fosse stata colpita da un fulmine. Sapevo che sarebbe stato uno di quei racconti drammatici che fanno accapponare la pelle, ma lo sollecitai comunque a entrare nei dettagli, desideroso di apprendere qualcosa da testimoni oculari.

“Be’, ce la cavammo con OTTO buchi nel legno della barca” disse con una buona dose di ironia.

“Immagino che il fulmine scese per le sartie fino alle placche di metallo e poi allo scafo sottostante. Cosa si deve fare in casi simili? Sarà entrata molta acqua...”

“Be’, sì. Si devono tappare i buchi in qualche modo, e in fretta, specialmente quelli sotto la linea di galleggiamento. Le borse di plastica, tipo quelle dei supermercati, funzionano bene. Infilate a forza nelle falle, sono una soluzione provvisoria rapida ed efficace.”

Preoccupato, commentai: “Spero proprio non capiti anche a noi. Lo scafo interno della nostra barca, come quello di molte altre, è ricoperto di tanto teak, rivestimenti e mobili, che sarebbe un grosso problema determinare in fretta da dove entra l’acqua nel caso di un buco nello scafo. Per non parlare dell’impatto di un fulmine durante la notte!”


Foto aerea di Ambergris Caye
Quando ci allontanammo da quell’ancoraggio il cielo, privo di nuvole, ci fece ben presto dimenticare quella conversazione; fino a due settimane più tardi, subito dopo aver ancorato ad Ambergris Caye, tra il villaggio di San Pedro e la barriera corallina, nel Belize settentrionale.

Il cielo plumbeo non prometteva niente di buono. Valutai la situazione dal pozzetto, osservando la volta grigia sopra la barriera corallina e tenendo d’occhio in particolare lo spostamento di una nuvola spettrale, nera e bassa, che si estendeva per quasi tutto l’orizzonte. La superficie dell’acqua, che cominciò a incresparsi sotto una brezza leggera, cambiò colore, da acquamarina a verde bottiglia, facendo presagire una burrasca imminente con forti venti a raffiche e pioggia.

D’improvviso la lama accecante di una saetta squarciò il cielo con il boato metallico di un trilione di martelli. Le viscere della terra sussultarono sotto la possente esplosione. C’era mancato poco! Consapevoli del fatto che simili fondali corallini piatti impedivano all’ancora di scavare in profondità, subito dopo aver ormeggiato alla fonda, ci eravamo tuffati per controllare la tenuta dell’ancora e avevamo infilato una delle marre dentro un buchetto di un paio di centimetri.

Adesso incrociavamo le dita con giustificata inquietudine. Infatti, arare in quel fondale voleva dire andare incontro a un disastro. Benché i nostri precedenti in tal senso erano pressoché immacolati, devo tuttavia aver provato un momento di panico, perché, una volta risaliti nel pozzetto, feci una cosa che non avevo mai fatto prima d’allora: accesi il motore come precauzione contro i forti venti a venire.

“Patrizia, evita di toccare strutture di metallo o sartie, qui nel pozzetto o dentro. Stai lontana dall’albero. I fulmini non perdonano.”

“Lo so. Come potrei dimenticare quello che accadde a Charlie, ti ricordi, quel signore sulla Island Queen che abbiamo conosciuto a Placencia? Senza rendersene conto afferrò lo strallo di poppa per mantenersi in equilibrio. È parzialmente sordo, adesso, e gli è andata bene. Il suo compagno non fu così fortunato: non sopravvisse e...”

Non riuscì a finire la frase.  Una saetta ci accecò per un battito di ciglia, mentre uno scoppio nelle viscere della barca provocò uno spasmodico balzo all’indietro, un raggomitolamento di entrambi e urla di terrore.

Nello stesso istante, il maschio di una connessione elettrica sotto il soffitto di tela del tendalino fu sputato fuori dalla presa di corrente con la violenza di un proiettile dalla canna di un fucile. Dentro, sopra la cuccetta di tribordo dove i due cani si erano appisolati, una plafoniera rotonda fu proiettata giù dal soffitto e rimase appesa ai fili elettrici trenta centimetri più in basso. I poveri animali saltarono giù d’acchito e si sistemarono nel divano di fronte. Non c’era dubbio che si fosse trattato di un impatto diretto.

L’odore caratteristico della plastica fusa nel pannello elettrico della centralina di navigazione indicava che i danni si erano estesi a questo settore. In seguito dovemmo prendere atto che la radio di bordo era inservibile. Anche l’ecoscandaglio fu danneggiato irreparabilmente. Tuttavia, questo non era niente a paragone del terrore che provammo quando vedemmo del fumo biancastro uscire dalla sentina, prodotto dell’impatto del fulmine sul fondo di vetroresina. Poteva trattarsi di una cosa estremamente seria. Il fulmine aveva viaggiato lungo l’albero di alluminio, fino allo scafo sotto il piede dell’albero, producendo un foro? Con trepidazione sollevai uno dei due pannelli di accesso alla sentina: la vetroresina, in quella parte molto spessa, stava ancora fumando. Ma non era facile determinare subito se entrava acqua, perché nella sentina, molto profonda, c’era sempre un po’ d’acqua residua della doccia del bagno ed era necessario del tempo per la verifica. Mi misi a contare i secondi.

“Wow, Patrizia, non sale!” annunciai dopo un minuto. “Ci è andata bene!”

Esultanti, malgrado tutti gli altri danni, continuammo a fare il punto sulla situazione. Se il fulmine non era riuscito ad attraversare gli strati di vetroresina, dovevamo ringraziare queste prime barche, costruite in un’epoca in cui la resistenza di tale materiale non era ancora del tutto conosciuta, e i fabbricanti, per giocare sul sicuro, tendevano a essere molto generosi nello spessore.

L’ironia fu che, su un totale di due fulmini, prodotto del temporale più costipato a cui avessimo mai assistito, uno ci aveva colpito! Quasi un record.

Non fu una sorpresa vedere che l’antenna della radio, in testa d’albero, era sparita: era palese che fosse stata proprio quella ad attirare il fulmine. Quando il temporale fu passato, ci impegnammo entrambi in uno snorkeling meticoloso intorno alla barca in cerca dei resti dell’antenna, che col loro colore nero avrebbero dovuto risultare ben visibili contro il bianco del fondo corallino. Non riuscimmo a trovarne nemmeno un frammento. Il fulmine l’aveva probabilmente fusa in blocco!

Nel corso della serata, una sgradevole sorpresa ci mise di malumore. Durante l’ascolto di alcune cassette d’opera, che al momento del temporale erano stipate nelle mensoline ai due lati della cuccetta a V di prua, con rammarico dovemmo prendere atto che quelle che giacevano sui ripiani di tribordo erano parzialmente o del tutto smagnetizzate: in pratica, inservibili. Com’era potuto accadere? Ebbene, ogni volta, dopo esserci ancorati, seguivamo la buona prassi di allontanare dall’albero tutte le corde e le drizze di metallo per evitare di essere svegliati, durante le notti ventose, dal loro irritante martellare contro l’alluminio dell’albero. Il danno alle audiocassette era stato causato da una drizza di metallo che, scendendo dalla testa dell’albero, finiva in un moschettone attaccato alla falchetta di alluminio che corre lungo la parte esterna del ponte, la quale si trova, in linea d’aria, solo pochi centimetri al di sopra delle mensole della cuccetta a V. Il fulmine era sceso per quella “via metallica”. Purtroppo si trattava di un danno irreparabile, una collezione unica di audiocassette raccolte nel corso di due anni in Italia, in una pubblicazione non più reperibile sul mercato (l’edizione Fabbri alla quale ho accennato durante l’intervista a Samuel Ramey, nella storia # 11 del Libro II, Il viaggio continua).

Escluse le musicassette, il danno causato dal fulmine ammontò a circa millecinquecento dollari americani. Un’inezia, se paragonato a quello di amici che ebbero un danno di ventimila dollari. Però loro erano assicurati, noi no!

Dopo aver fatto di nuovo il punto della situazione, ci colpì un dettaglio apparentemente strano: né io né Patrizia avevamo udito il colpo d’impatto del fulmine; in parole povere, non c’era stato nessun boato di tuono! Avevamo avvertito soltanto il rumore simultaneo dei dispositivi elettrici sputati fuori dai loro abitacoli e quello della parziale fusione del pannello elettrico della Nav-station. In realtà, non avremmo dovuto meravigliarcene: ciò è normale in caso di un colpo diretto, o quando la distanza dell’osservatore è minore di trentaquattro metri dal luogo d’impatto del fulmine. L’udito umano, infatti, non è in grado di percepire un rumore così ravvicinato!
Il villaggio di San Pedro-Belize

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