IL FULMINE, BELIZE
Il racconto inizia a Nicholas Caye, una delle isole del piccolo arcipelago delle Sapodillas, nell’estrema propaggine meridionale della barriera corallina del Belize, la seconda più lunga al mondo dopo quella australiana, e prosegue nelle acque, altrettanto
turchesi, dell’ancoraggio di San Pedro, nella parte più settentrionale della barriera, al confine con il Messico. È il primo di due fulmini che hanno colpito la barca a distanza di sedici anni, due esperienze che ricordiamo ancora vivamente e, comprensibilmente, con una certa apprensione.
Nikola Tesla |
«Il fulmine muove l’universo» Eraclito fu il primo a dichiarare. Il grande Tesla sarebbe stato d’accordo.
A coloro che, come me, apprezzano la magnitudine
del genio di quest’ultimo, fa piacere immaginarselo a imbrigliare l’immensa
forza del fulmine nel suo laboratorio di Manhattan: immerso nella lettura,
seduto nel centro della stanza, col capo a pochi centimetri dal percorso fatale
delle continue scariche elettriche di milioni di volt generate dalle sue
apparecchiature.
Da parte mia, preferisco assistere
all’inquietante spettacolo degli effimeri, intermittenti frattali di luce,
dalla sicurezza di una gabbia di Faraday, come può essere un veicolo
parcheggiato o da dietro le finestre di una stanza, dopo aver disinserito tutti
gli elettrodomestici e, in particolare, l’antenna della televisione.
Le barche dei velisti permanenti, come noi, sono
molto più esposte ai fulmini; che un fulmine colpisca un’imbarcazione durante
un temporale, non è un evento così raro come si potrebbe pensare. Qualsiasi
protezione si abbia a bordo, è inefficace contro l’impatto diretto di una
saetta.
Poco dopo aver acquistato la barca a vela nel
Marina Municipale di New Orleans, in Louisiana, sentimmo dire che un catamarano
che si trovasse ormeggiato nel posto barca accanto, per qualche ragione
sconosciuta, verrebbe colpito per primo da un eventuale fulmine, fungendo in
tal modo da parafulmine per tutte le altre imbarcazioni nei posti adiacenti. In
un ancoraggio aperto, però, sembra che sia i monoscafi sia i multiscafi vengano
ugualmente presi di mira. Fa
rabbrividire anche il semplice racconto di una simile esperienza, sempre che
coloro che si trovavano a bordo siano ancora in grado di raccontarla.
Dividevamo l’idillico ancoraggio di Nicholas
Caye, un’isoletta di un piccolo arcipelago sulla barriera corallina
nell’estremo sud del Belize, con una coppia canadese reduce da Cuba, a bordo di
un catamarano di legno. Quando il capitano si mise a raccontare la loro
esperienza in quell’isola dei Caraibi, non poté omettere di descrivere come,
pochi giorni prima, in un ancoraggio dei Giardini della Regina – un luogo
conosciuto alla maggior parte dei cruisers dei Caraibi nord occidentali – la
loro imbarcazione fosse stata colpita da un fulmine. Sapevo che sarebbe stato
uno di quei racconti drammatici che fanno accapponare la pelle, ma lo
sollecitai comunque a entrare nei dettagli, desideroso di apprendere qualcosa
da testimoni oculari.
“Be’, ce la
cavammo con OTTO buchi nel legno della barca” disse con una buona dose di
ironia.
“Immagino che il fulmine scese per le sartie fino
alle placche di metallo e poi allo scafo sottostante. Cosa si deve fare in casi
simili? Sarà entrata molta acqua...”
“Be’, sì. Si devono tappare i buchi in qualche
modo, e in fretta, specialmente quelli sotto la linea di galleggiamento. Le
borse di plastica, tipo quelle dei supermercati, funzionano bene. Infilate a
forza nelle falle, sono una soluzione provvisoria rapida ed efficace.”
Preoccupato, commentai: “Spero proprio non capiti
anche a noi. Lo scafo interno della nostra barca, come quello di molte altre, è
ricoperto di tanto teak, rivestimenti e mobili, che sarebbe un grosso problema
determinare in fretta da dove entra l’acqua nel caso di un buco nello scafo.
Per non parlare dell’impatto di un fulmine durante la notte!”
Foto aerea di Ambergris Caye |
Quando ci allontanammo da quell’ancoraggio il
cielo, privo di nuvole, ci fece ben presto dimenticare quella conversazione;
fino a due settimane più tardi, subito dopo aver ancorato ad Ambergris Caye,
tra il villaggio di San Pedro e la barriera corallina, nel Belize
settentrionale.
Il cielo plumbeo non prometteva niente di buono.
Valutai la situazione dal pozzetto, osservando la volta grigia sopra la
barriera corallina e tenendo d’occhio in particolare lo spostamento di una
nuvola spettrale, nera e bassa, che si estendeva per quasi tutto l’orizzonte.
La superficie dell’acqua, che cominciò a incresparsi sotto una brezza leggera,
cambiò colore, da acquamarina a verde bottiglia, facendo presagire una burrasca
imminente con forti venti a raffiche e pioggia.
D’improvviso la lama accecante di una saetta squarciò il cielo con il
boato metallico di un trilione di martelli. Le viscere della terra sussultarono sotto la possente
esplosione. C’era mancato
poco! Consapevoli del fatto che simili fondali corallini piatti impedivano
all’ancora di scavare in profondità, subito dopo aver ormeggiato alla fonda, ci
eravamo tuffati per controllare la tenuta dell’ancora e avevamo infilato una
delle marre dentro un buchetto di un paio di centimetri.
Adesso incrociavamo le dita con giustificata
inquietudine. Infatti, arare in quel
fondale voleva dire andare incontro a un disastro. Benché i nostri precedenti
in tal senso erano pressoché immacolati, devo tuttavia aver provato un momento
di panico, perché, una volta risaliti nel pozzetto, feci una cosa che non avevo
mai fatto prima d’allora: accesi il motore come precauzione contro i forti
venti a venire.
“Patrizia, evita di toccare strutture di metallo
o sartie, qui nel pozzetto o dentro. Stai lontana dall’albero. I fulmini non
perdonano.”
“Lo so. Come potrei dimenticare quello che
accadde a Charlie, ti ricordi, quel signore sulla Island Queen che abbiamo conosciuto a Placencia? Senza rendersene
conto afferrò lo strallo di poppa per mantenersi in equilibrio. È parzialmente
sordo, adesso, e gli è andata bene. Il suo compagno non fu così fortunato: non
sopravvisse e...”
Non riuscì a finire la frase. Una saetta ci accecò per un battito di ciglia,
mentre uno scoppio nelle viscere della barca provocò uno spasmodico balzo all’indietro, un
raggomitolamento di entrambi e urla di terrore.
Nello stesso istante, il maschio di una
connessione elettrica sotto il soffitto di tela del tendalino fu sputato fuori
dalla presa di corrente con la violenza di un proiettile dalla canna di un
fucile. Dentro, sopra la cuccetta di tribordo dove i due cani si erano
appisolati, una plafoniera rotonda fu proiettata giù dal soffitto e rimase
appesa ai fili elettrici trenta centimetri più in basso. I poveri animali
saltarono giù d’acchito e si sistemarono nel divano di fronte. Non c’era dubbio
che si fosse trattato di un impatto diretto.
L’odore caratteristico della plastica fusa nel
pannello elettrico della centralina di navigazione indicava che i danni si
erano estesi a questo settore. In seguito dovemmo prendere atto che la radio di
bordo era inservibile. Anche l’ecoscandaglio fu danneggiato irreparabilmente.
Tuttavia, questo non era niente a paragone del terrore che provammo quando
vedemmo del fumo biancastro uscire dalla sentina, prodotto dell’impatto del
fulmine sul fondo di vetroresina. Poteva trattarsi di una cosa estremamente
seria. Il fulmine aveva viaggiato lungo l’albero di alluminio, fino allo scafo
sotto il piede dell’albero, producendo un foro? Con trepidazione sollevai uno
dei due pannelli di accesso alla sentina: la vetroresina, in quella parte molto
spessa, stava ancora fumando. Ma non era facile determinare subito se entrava
acqua, perché nella sentina, molto profonda, c’era sempre un po’ d’acqua
residua della doccia del bagno ed era necessario del tempo per la verifica. Mi
misi a contare i secondi.
“Wow, Patrizia, non sale!” annunciai dopo un
minuto. “Ci è andata bene!”
Esultanti, malgrado tutti gli altri danni, continuammo
a fare il punto sulla situazione. Se il fulmine non era riuscito ad
attraversare gli strati di vetroresina, dovevamo ringraziare queste prime
barche, costruite in un’epoca in cui la resistenza di tale materiale non era
ancora del tutto conosciuta, e i fabbricanti, per giocare sul sicuro, tendevano
a essere molto generosi nello spessore.
L’ironia fu che, su un totale di due fulmini,
prodotto del temporale più costipato a cui avessimo mai assistito, uno ci aveva
colpito! Quasi un record.
Non fu una sorpresa vedere che l’antenna della
radio, in testa d’albero, era sparita: era palese che fosse stata proprio
quella ad attirare il fulmine. Quando il temporale fu passato, ci impegnammo
entrambi in uno snorkeling meticoloso intorno alla barca in cerca dei resti
dell’antenna, che col loro colore nero avrebbero dovuto risultare ben visibili
contro il bianco del fondo corallino. Non riuscimmo a trovarne nemmeno un
frammento. Il fulmine l’aveva probabilmente fusa in blocco!
Nel corso della serata, una sgradevole sorpresa
ci mise di malumore. Durante l’ascolto di alcune cassette d’opera, che al
momento del temporale erano stipate nelle mensoline ai due lati della cuccetta
a V di prua, con rammarico dovemmo prendere atto che quelle che giacevano sui
ripiani di tribordo erano parzialmente o del tutto smagnetizzate: in pratica,
inservibili. Com’era potuto accadere? Ebbene, ogni volta, dopo esserci
ancorati, seguivamo la buona prassi di allontanare dall’albero tutte le corde e
le drizze di metallo per evitare di essere svegliati, durante le notti ventose,
dal loro irritante martellare contro l’alluminio dell’albero. Il danno alle
audiocassette era stato causato da una drizza di metallo che, scendendo dalla
testa dell’albero, finiva in un moschettone attaccato alla falchetta di
alluminio che corre lungo la parte esterna del ponte, la quale si trova, in
linea d’aria, solo pochi centimetri al di sopra delle mensole della cuccetta a
V. Il fulmine era sceso per quella “via metallica”. Purtroppo si trattava di un
danno irreparabile, una collezione unica di audiocassette raccolte nel corso di
due anni in Italia, in una pubblicazione non più reperibile sul mercato
(l’edizione Fabbri alla quale ho accennato durante l’intervista a Samuel Ramey,
nella storia # 11 del Libro II, Il viaggio continua).
Escluse le musicassette, il danno causato dal
fulmine ammontò a circa millecinquecento dollari americani. Un’inezia, se
paragonato a quello di amici che ebbero un danno di ventimila dollari. Però
loro erano assicurati, noi no!
Dopo aver fatto di nuovo il punto della
situazione, ci colpì un dettaglio apparentemente strano: né io né Patrizia
avevamo udito il colpo d’impatto del fulmine; in parole povere, non c’era stato
nessun boato di tuono! Avevamo avvertito soltanto il rumore simultaneo dei
dispositivi elettrici sputati fuori dai loro abitacoli e quello della parziale
fusione del pannello elettrico della Nav-station. In realtà, non avremmo dovuto
meravigliarcene: ciò è normale in caso di un colpo diretto, o quando la
distanza dell’osservatore è minore di trentaquattro metri dal luogo d’impatto
del fulmine. L’udito umano, infatti, non è in grado di percepire un rumore così
ravvicinato!
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