mercoledì 1 aprile 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 17: Aragoste cubane, Cuba




Come buona parte dei Caraibi, Cuba negli anni Novanta era un paradiso per la pesca delle aragoste: aragoste del tipo “spiny lobster”. Questo crostaceo, che è principalmente notturno e durante il giorno si nasconde negli anfratti protetti delle barriere coralline, è ben noto per le sue periodiche migrazioni, che sembrano avvalersi dell’uso delle “mappe” dei campi magnetici della terra. A differenza dell’aragosta del Maine negli USA, essa è priva delle grandi chele colme di carne prelibata; comunque, nonostante ciò, la loro carne è quasi altrettanto deliziosa.


A Cuba esistevano restrizioni per la pesca dell’aragosta e, ai turisti che entravano nel Paese in barca a vela, l’agente ufficiale al porto d’entrata consigliava di mangiarle subito dopo averle pescate: per nessuna ragione di conservarle nel frigorifero di bordo. Quest’ultimo era un dettaglio che non ci preoccupava, dato che non abbiamo mai avuto un frigorifero nella cambusa della barca. Però, siccome i nostri amici canadesi che viaggiavano insieme a noi con la loro Beneteau 39 il frigo invece ce l’avevano, ci affrettammo a tradurre per loro questa importante informazione.

Le aragoste erano abbondanti dovunque in acque cubane e facili da pescare; erano saporite, ma non tanto quanto le deliziose aragoste della stessa specie di altre acque dei Caraibi. Quelle più grosse avevano un forte retrogusto d’erba, che richiedeva un certo adattamento delle papille gustative.

Avevo fatto pesca subacquea per anni in Baja California in Messico, ma non mi ero mai dedicato alla pesca delle aragoste. Cuba mi sembrò il posto ideale per cominciare.

Nella parte settentrionale dell’isola – fra L’Avana e Capo Sant’Antonio – esplorammo per un paio di giorni un tratto esteso di barriera corallina, brulicante di vita, con uno snorkeling sistematico in acque cristalline, su un fondale che, simile a un vero e proprio giardino sommerso, esibiva a ogni tratto le più diverse varietà di coralli. Tra questi, ce n’erano alcuni indistinguibili da pietre, come per esempio i coralli a cervello, molti dei quali, trascinati a riva dagli uragani e ammucchiati in grandi cataste di macerie, sia sotto la superficie dell’acqua sia fuori, erano un richiamo tangibile alla furia distruttiva della natura, capace di cambiare in un attimo la faccia di un paesaggio sottomarino. Sono coralli compatti dalla forma contorta a circonvoluzioni, che ricordano quelle di un cervello umano e richiamano alla memoria quelle leggende della mitologia greca sui poteri soprannaturali delle Gorgoni: creature femminili orrende capaci di trasformare in pietra chiunque avesse osato guardarle.

Sagome indistinte emergevano una dopo l’altra dalle profondità di denso azzurro, rendendosi visibili per gradi e riconoscibili come alberi di corallo. Ci venivano incontro a mano a mano che avanzavamo nella nostra cauta ricognizione coadiuvata dalle pinne, fino a esplodere alla vista in tutto il loro splendore; i vistosi scheletri giallo cadmio si diramavano in corna d’alce appena sotto la superficie. Questa ne rifletteva, al rovescio, le forme, contorcendone il riflesso nelle ondulazioni sempre cangianti dell’onda.

Altri coralli, simili a ventagli giganti purpureo-violetto, con il loro movimento indistinto in lontananza, quando venivano colpiti dalle onde più violente ritornavano a evocare nella mia mente il groviglio orribile dei serpenti che la mitologia attribuisce ai capelli di Medusa…

I pesci che vivono nella barriera corallina hanno quasi tutti colori brillanti. Il re del colore è il pesce pappagallo, il cui corpo è una vera e propria tavolozza che trapassa armonicamente dal verde all’azzurro, dal giallo al rosso, dal purpureo al violetto e che cangia a seconda dei coralli, della sabbia o delle alghe che gli fanno da sfondo. Raggiunge dimensioni notevoli e sgranocchia alghe dai coralli e da altri substrati rocciosi, con un becco così efficace che l’omonimo volatile sarà costretto a imitarglielo qualche milione di anni dopo. Che contribuisca alla bioerosione – come si legge – può essere vero, ma un uragano che colpisca una barriera corallina, anche solo ogni cinquant’anni, compie una distruzione migliaia di volte superiore!

Amy, la figlia della coppia canadese, che adesso mi nuotava vicino, mi fece uscire dal mio stato ipnotico quando attrasse la mia attenzione su due grandi aragoste, le cui lunghe antenne allo scoperto tradivano il loro nascondiglio sotto una roccia in soli due metri d’acqua.

Risultarono facili da trapassare con la freccia del fucile subacqueo. Dopo averne portate alla superficie alcune, rimisi in tensione i due elastici del fucile che prestai ad Amy. Nonostante fosse la sua prima volta, non impiegò molto a cacciare anche lei un’aragosta di buone dimensioni; e suo padre David, poco lontano, ne portò alla superficie alcune ancora più grandi. Nei giorni successivi ne cacciammo così tante che, dopo averle cucinate in ogni modo e in ogni salsa, finimmo col metterle nella pizza e darne una certa quantità al nostro cane Pacal, che ne andava pazzo.

Alcuni giorni dopo, l’alba di una giornata dal cielo sereno e terso, lavato di luce, trovò le due barche ancorate in un luogo idillico. 
Ancora una volta era rassicurante aver gettato l’ancora in acque calme, in un profondo canale che due isolette convergenti di mangrovie avevano formato all’interno di un’area più vasta, protetta dalla barriera corallina.

La bellezza incontaminata del paesaggio veniva suggerita da boschi di mangrovie, le quali crescevano sovrane, non ancora disturbate da altri arbusti o alberi, né da accumulazione di sabbia. Un esemplare solitario di aquila pescatrice, bianco e grigio, se ne stava appollaiato come una statua sulla cima di un moncone di mangrovia bianca che si stagliava contro il muro verde delle altre mangrovie. Sopra la testa, una fregata nera come la pece – tranne che per una gorgiera bianca all’altezza del collo – si librava elegantemente in volo sulle termocline di un cielo ancora privo di nuvole.


Una coppia di pellicani si alternava in tuffi più o meno regolari, lasciando cadere a peso morto, da una quindicina di metri, il pesante corpo con un’accelerazione da togliere il fiato, afferrando un pesce dopo l’altro con il preistorico becco. Seduti in riposo sulla superficie dell’acqua dopo ogni tuffo ben eseguito, con la grossa sacca elastica lucente appesa al becco, adatta a ingoiare grandi prede, il loro ultimo atto cerimoniale è sempre quello di raccogliere dell’acqua col becco per facilitare la digestione.

La brezza mattutina portò nella nostra direzione un breve trambusto dalla Beneteau, ancorata una cinquantina di metri davanti a noi, sopravento. Sul ponte la gigantesca figura di David, calvo, a petto nudo, con un paio di larghi pantaloncini neri, torreggiava al di sopra di una grossa imbarcazione nell’acqua sottostante, remata da due persone chiaramente non abituate, mentre una terza sedeva in prua.

Col suo spagnolo stentato, ma soprattutto grazie al suo gesticolare, David riuscì a dirottare il pesante scafo, privo di motore, verso la nostra barca.

Mentre li osservavo avvicinarsi dagli scalini del boccaporto, avvisai Patrizia, la quale si mise a guardare dal finestrino.

Era la seconda imbarcazione che passava nelle ultime ventiquattro ore. Il mattino precedente, una barca di pescatori azionata da un motore quaranta cavalli era sfrecciata senza rallentare accanto a noi, e i suoi passeggeri avevano risposto al mio energico saluto della mano con un cenno appena percettibile del capo.

Quando salii nel pozzetto, David mi vide e aggrottò le sopracciglia, strizzandomi l’occhio con un sorriso sornione che interpretai come: “Non sono stato bravo a liberarmi di loro così in fretta, malgrado non parli una parola di spagnolo?”

Una mutevole ragnatela di luce rifletteva l’acqua sulle fiancate incerate della Beneteau.

Quando l’imbarcazione fu abbastanza vicina, riconobbi uno dei suoi passeggeri che indossava un’uniforme grigio-oliva: era il capo della polizia di un villaggio non lontano che avevamo visitato due giorni prima. Fu anche il primo a salire a bordo.

Sicuramente, riflettevo, non avevano percorso a remi le venti miglia di mare aperto dal loro villaggio. Dovevano essersi giunti per strada a un pueblo poco lontano, aver trovato sia l’imbarcazione sia la Nave della Marina Cubana, la quale doveva averli rimorchiati fino allo sbocco del canale, rimanendo nascosta dietro il fitto muro delle mangrovie; di là, avevano senz’altro remato gli ultimi duecento metri. Questi pensieri, che mettevano in luce un piano premeditato da parte dei nostri ospiti, erano per me già motivo di preoccupazione. Non potevo esserne del tutto sicuro, ma la loro visita non presagiva niente di buono.

Anche gli altri due signori entrarono maldestramente nel pozzetto. A differenza di qualsiasi altro funzionario pubblico nei Caraibi, nessuno di loro chiese il permesso di tenere le scarpe. È pur vero che la domanda è quasi sempre soltanto una formalità. Tuttavia si tratta di una cortesia che molti cruisers si aspettano da coloro che salgono a bordo e quasi tutti gli ospiti ne sono consapevoli. Per quanto mi riguarda non mi è mai importato delle scarpe altrui, nemmeno nel nostro pozzetto. Però non potei fare a meno di notare la loro condotta, che se non potevo definire irritante, non mi mise tuttavia in buona disposizione d’animo.

Quando furono seduti su entrambi i sedili accanto al tavolino del pozzetto, il capo della polizia incominciò a parlare senza presentare i suoi colleghi. Non c’era bisogno di chiedersi chi fosse il leader della spedizione.

Esordì con domande generali, ma io aspettavo fin dall’inizio la domanda cruciale, la quale non tardò a venire:

“Posso vedere il suo frigorifero?” disse a un certo punto.

“Certo, ma non abbiamo un frigorifero, solo una ghiacciaia che abbiamo sempre usato per immagazzinare stoviglie.” Era palese che cercasse delle aragoste.

“Dov’è?” domandò.

“Da questa parte” dissi accompagnandolo giù per gli scalini della cambusa. Quando aprii il coperchio della ghiacciaia e dopo che lui vi ebbe sbirciato dentro, alzai lo sguardo per leggergli negli occhi la frustrazione che avevo previsto.

Dopo un attimo di disorientamento si volse dall’altra parte, verso la Nav-station, cioè il pannello dei controlli elettrici. Esaminò gli interruttori e il convertitore elettrico, poi esplorò con lo sguardo la vicina cuccetta.

“E questo che cos’è?” chiese d’improvviso con il tono trionfante di chi abbia appena scoperto l’arma del delitto. Non mi piacque il luccichio di eccitazione che colsi nei suoi occhi. Seguii il suo sguardo.

“Che cos’è?” ritornò a ripetere come se ignorasse di che cosa si trattasse. È probabile che stesse già immaginando dei verdoni entrare come per magia nelle sue tasche.

L’oggetto che aveva sovraeccitato la sua immaginazione era il mio fucile da pesca, il vecchio Arbalete azionato da due elastici, che Pablo mi aveva venduto anni prima nella spiaggetta de Los Muertitos, in Baja California, Messico.

“Guarda guarda!” pensavo. “È salito a bordo intenzionato a multarci per immagazzinamento illegale di aragoste. Non ne ha trovate, così adesso si accontenta di rindirizzare la sanzione sul fucile.”

Dovetti faticare a reprimere la mia frustrazione.

“Ah, devo multarla duecento dollari americani per detenzione d’arma illegale in barca” mi informò. “Il funzionario del Ministero della Pesca le confermerà che è proibito trasportare un fucile da pesca subacquea in una imbarcazione.” Fu questa la sua involontaria presentazione, del tutto priva di tatto, del funzionario del Ministero in questione. Per quanto concerne la terza persona, ignoro ancora chi fosse!

“Mi può spiegare perché è proibito?” domandai, riflettendo sul perché non avesse menzionato questo dettaglio tre giorni prima, quando ci eravamo incontrati nel suo ufficio e gli avevo raccontato delle mie spedizioni subacquee in Messico. Non era ovvio che avessi un fucile da pesca a bordo? In quella circostanza gli sarebbe stato tutto più facile: le due barche a vela erano ancorate a meno di cento metri dal suo ufficio!

“La legge cubana” ripeté senza elaborare, “vieta di tenere a bordo fucili subacquei.”

Sospettai fosse un abuso, poiché avevo visto con i miei occhi dei locali usarli. Ancora più significativo, avevo chiesto informazioni specifiche all’agente ufficiale al porto d’entrata del Varadero, a settanta chilometri a nord-est della capitale La Havana. Su mia richiesta, mi aveva informato che era legale utilizzare un fucile subacqueo in acque cubane, ma aveva suggerito di mangiare le eventuali aragoste subito dopo averle pescate e di non immagazzinarle nel frigorifero della barca.

“Le dispiacerebbe mostrarmi quelle leggi?” gli domandai senza mezzi termini, consapevole che i funzionari, non aspettandosi richieste del genere, non portano mai i documenti ufficiali fuori dall’ufficio. Fui sorpreso, invece, nel vedere il rappresentante del Ministero della Pesca aprire con calma la sua valigetta nera ventiquattrore che teneva sulle ginocchia, frugarci dentro, estrarne alcuni fogli stampati e mettermeli sotto il naso. Ancora una volta mi sembrò che tutto questo puzzasse di premeditazione.

Incominciai a leggere. Poi, visto che si trattava di decine di pagine, dissi un po’ seccato: “Le dispiacerebbe mostrarmi i paragrafi specifici?”

Il funzionario prese i fogli e li sfogliò più volte avanti e indietro. “Ecco qua!” esclamò infine, indicando col dito. Cominciai a leggere ad alta voce e, intenzionalmente, a una velocità impensabile per uno straniero e perfino per molti locali. Percepii il loro progressivo irrigidimento.

“Scusate, ma qui io leggo soltanto di alcune proibizioni generali, molto vaghe, che potrebbero applicarsi, a quanto pare, ad attrezzature da pesca commerciali impiegate dai locali. Non c’è nessuna menzione ai fucili da pesca. No, mi dispiace ma tutto questo è troppo poco specifico per avere un qualche peso legale.”

“Lei è un avvocato?” qualcuno domandò.

“No, non lo sono. Ma ogni persona istruita, nel mio Paese, può arrivare facilmente a questa ovvia conclusione. Inoltre… Inoltre…” dissi rileggendo qua e là per trovare il paragrafo giusto, “ecco qua… Anche nell’ipotesi che si potesse applicare questa legge… qui… qui c’è scritto che la multa è l’equivalente di cinquanta dollari americani. Cinquanta, non duecento!” Provai vergogna per loro.

Adesso avevano l’aria di cani bastonati. Come osso, ero più duro di quanto avessero potuto immaginare.

“E non è tutto. Il secondo punto è ancora più interessante” proseguii, e quando sollevai la testa per incontrare lo sguardo di ciascuno di loro, notai segni di nervosismo. “Vorrei richiamare la vostra attenzione su un altro particolare. Un po’ più in giù… ecco qui... proprio qui” dissi sottolineando con l’indice, “c’è scritto che la multa si applica... a queste non meglio specificate attrezzature, purché si trovino dentro a una imbarcazione a più di cento metri da terra. Sicuramente quell’isola di mangrovie si trova a una distanza inferiore! In conclusione” osservai in tono chiaro e deciso, “credo di non dover nulla all’erario cubano.”

Il capo della polizia dovette aver sentito il terreno venir meno sotto i piedi, perché, dopo qualche esitazione, cambiò tattica, domandando:

“Ha una radio di bordo?” Il suo tono era duro, quasi minaccioso. Che cosa diavolo aveva intenzione di fare con la nostra radio di bordo?

“Certo! Lei ha il mio permesso di usarla, se vuole” dissi, sicuro che cogliesse il messaggio per niente subliminale. Gli mostrai come utilizzarla e lui chiamò subito una persona, che non tardò a rispondere.

A questo punto cominciò una delle conversazioni più futili che Patrizia e io avessimo mai ascoltato. Il capo della polizia fece una domanda dietro l’altra, ma sostanzialmente girava intorno allo stesso concetto e, malgrado ciò, riusciva a entusiasmarsi sempre più.

“Intorno a Capo Sant’Antonio, vero?”

“Due barche.”

“Vicino al Capo? Quando?”

“Ieri mattina, alle nove circa.”

“Ah sì, alle nove!” ripeté con un certo tono, come se l’ora fosse stata un elemento incriminante.

“Due barche a vela? Ah sì, due barche a vela. Alle nove!” ribadì al colmo dell’eccitazione.

Dal pozzetto lo invitai a chiedere alla persona all’altro capo del filo i nomi delle due barche a vela, ma lui faceva orecchio da mercante. Alla fine decisi di lasciar correre, per il momento, ma avevo già capito dove voleva andare a parare.

“Dunque hanno visto due barche a vela intorno a Capo Sant’Antonio?”

“Sì, le LORO due barche che doppiavano il capo.”

Il monotono dialogo andò avanti per un po’, poi, quando il funzionario ritenne di aver raccolto prove sufficienti per incriminarci, posò il microfono, risalì nel pozzetto e si sedette di fronte a me.

Con una buona dose di aggressività, enunciò in modo trionfante: “Hanno visto le vostre due barche vicino a Capo Sant’Antonio alle nove di ieri mattina.”

“Non mi dica!” cominciai con aria divertita, riflettendo che il tutto si stava trasformando in farsa. Quanto avrei dato per poter registrare quella conversazione!

Poi devo essere arrivato alla conclusione che l’ottusità in qualche caso deve essere affrontata direttamente, brutalmente, il che è spesso rischioso e non sempre consigliabile.

“Mi faccia riflettere... Be’, sa cosa sto pensando?” pronunciai, stavolta con un’espressione seria e fredda. “Che in altri Paesi... Lei potrebbe venire... incriminato…. per… diciamo... abuso di autorità?… Corroborato da eventuali menzogne?”

La situazione aveva tutta l’aria di sfuggire di mano. Colsi all’istante l’espressione contrariata di Patrizia, che mi rivolse un breve sguardo come a dire: “Non esagerare. Mai e poi mai mettere la gente con le spalle al muro. Non se ne possono prevedere le conseguenze.”

“Lei mi accusa di mentire?”

“Be’ giudichi lei. Se non di mentire, di non conoscere la geografia del suo Paese o, se la conosce, di essere debole in matematica!” Vidi furtivamente Patrizia socchiudere gli occhi, in un rapido gesto di costernazione.

“Ma cosa dice!”

“Cosa dico? Ma Lei ha un’idea della distanza da qui al Capo Sant’Antonio?” Aspettai.

Avvertii il suo disorientamento, oltre che un’ombra di imbarazzo.

“Be’, è ovvio che non lo sa” aggiunsi guardando altrove, “altrimenti… altrimenti non avrebbe nemmeno iniziato quell’assurda conversazione per radio…”

“Assurda? Che cosa c’era di tanto assurdo?” domandò in tono secco. Era evidente che non aveva capito il messaggio.

“Lei saprà fare un semplice calcolo. Il Capo Sant’Antonio si trova a centottanta miglia nautiche da qui. Ciò significa che, alla velocità di crociera di cinque miglia l’ora, la nostra barca impiegherebbe trentasei ore per coprire quella distanza; siccome voi siete arrivati alle nove, sarebbero trascorse soltanto ventiquattro ore dalla nostra partenza dal Capo, il che è come dire che arriveremo qui tra dodici ore, cioè alle ventuno di stasera! Inoltre, dal nostro punto di vista, sarebbe sensato navigare per centottanta miglia ininterrottamente e ritornare subito qui, con un viaggio continuo di trecentosessanta miglia senza sosta in tre giorni, dal momento che Lei sa bene che tre giorni fa ero nel suo ufficio e l’uscita dal Paese la faremo da Maria La Gorda, che si trova appena dietro il Capo?”

Nell’ambiente si era diffuso un imbarazzate silenzio, l’aria si poteva tagliare con il coltello, così proseguii: “C’è anche un altro non trascurabile particolare di cui voglio informarla. Ieri mattina alle nove circa, la presunta ora del crimine, eravamo ancorati qui, come i pescatori dell’imbarcazione… come si chiamava… ah, grazie Patrizia, sì, La Rana… come i pescatori di La Rana possono testimoniare. Non le sarà difficile rintracciarli e chiedere loro se è vero. Lei crede veramente che il dire due barche a vela sia lo stesso che dire Beguine e Moka? A me pare proprio di no!”

“Si calmi, non alzi la voce” intervenne il tipo del Ministero della Pesca. Patrizia mi rivolse un altro sguardo dissuasivo.

“Mi calmo subito. Sono già calmo... Ma voi dovete rendervi conto che non sono stato io il primo a mostrare aggressività.” E voltandomi verso il capo della polizia aggiunsi: “Ho cercato più volte di farle capire di chiedere alla radio i nomi delle due barche, ma lei non mi ha prestato attenzione. Anche l’ignorare volontariamente, in una situazione del genere, può essere considerato aggressivo. Se lei mi avesse ascoltato, la questione sarebbe già risolta da tempo... ll suo atteggiamento mi ha irritato. Vorrei che se ne rendesse conto.”

Forse solo allora realizzò quanto era stato puerile. Adesso che era rimasto senza argomenti, quali opzioni gli rimanevano?

L’unica possibilità era quella di rivangare sul seminato: la multa per il fucile! Non mi sorprese, perciò, quando afferrò la vanga al volo. Riflettei, tuttavia, per nostra convenienza, sull’opportunità di cambiare atteggiamento e cercare di minimizzare la loro inammissibile condotta, inventando un capro espiatorio che permettesse loro di salvare la faccia. Perfino i ladri sorpresi con le mani nel sacco hanno bisogno di un qualche riconoscimento della loro “dignità”. Per i nostri ospiti questo sarebbe stato l’unico salvagente in vista, anche se si trovava più sott’acqua che sopra.

“Mi scuso per aver alzato la voce” esordii in tono dimesso. “Se mi è concesso un qualche suggerimento, però, direi che sarebbe opportuno procedere a coordinare i vostri sforzi con quelli dell’agente ufficiale. Mi spiego meglio: i turisti che entrano nel Paese via mare credono, non a torto, che ogni parola rivolta a loro dall’agente e ogni informazione sul Paese siano esattamente ciò che prescrivono le leggi cubane; di conseguenza, dovrebbe essere vostra responsabilità che l’agente ufficiale non contraddica le leggi o ne inventi di nuove.” Sorrisi tra me e me per quest’ultimo, subdolo, tocco incriminante. Immagino che non sarebbe piaciuto all’agente!

Appena cominciarono a consultarsi sulla mia proposta, ebbi la netta impressione di aver premuto il tasto giusto.

Coordinazione, da allora in avanti, divenne la parola chiave nel loro discorso. Mi sorprese il fatto che avessero abboccato all’amo così in fretta e con tutta serietà. Forse facevano solo finta, dopo le parole piuttosto dure che ci eravamo scambiati, ma non mi sarei dovuto sorprendere più di tanto: avevo appena dato loro l’unico suggerimento che gli avrebbe permesso di salvare la faccia, dirottando la colpa della mancanza di coordinazione su qualcun altro. Fu a questo punto che mi resi conto che avevano perso la battaglia. Infatti, se ne andarono di lì a poco con la coda tra le gambe.

Dopo che furono passati accanto alla Beneteau e scomparsi dietro il piccolo capo di mangrovie, David ci fece cenno di andare da loro.

“Abbiamo alcune cosette eccitanti da raccontarvi” annunciai dal dinghy quando fummo sotto la fiancata della sua barca.

“Non ne dubito” osservò David. “Salite a bordo.”

Raccontai la storia dettagliata alla famiglia al completo, adesso raccoltasi nel pozzetto.

Dopo aver ascoltato fino in fondo, Arlene, la moglie di David, disse: “Mentre passavano di qui, parlavano ancora di quello che tu gli avevi suggerito, perché, benché non capisco lo spagnolo, tuttavia ho colto una parola molto simile all’equivalente inglese: coordinazione. Coordinazione, diceva uno di loro, e un altro ripeteva la stessa parola. Che storia!”

“Sono contento che se ne siano andati via a mani vuote o, come diciamo in Canada, con un uovo d’oca” concluse David.

“In realtà la storia è ancora più complicata… Non ci crederete, ma il tipo fin dall’inizio ce l’aveva... con me. Aveva progettato ogni dettaglio.”

“Suvvia, non vorrai dirmi che percorse venti miglia per fregare il tuo denaro e…” aggiunse dopo una breve pausa, “forse anche il nostro?”

“Non del tutto, ma quasi… Venne anche per recuperare l’onore! O per vendicarsi di… ma è meglio cominciare dal principio.”

Nel frattempo Amy aveva portato su del tè con dei biscotti e due bicchieri d’acqua gelata di frigo, quest’ultima un vero regalo per me e Patrizia.

“Ricordate che tre giorni fa, di mattina, in quel villaggio dove abbiamo comprato i pesci, sono andato a terra col dinghy con i nostri e i vostri documenti della barca per un controllo di routine?”

“Certo, ‘una pura formalità’, ci avevi detto. Dopo venti minuti eri già di ritorno affermando che era tutto a posto.”

“Infatti. Tuttavia quel mattino avevo preso una decisione sbagliata, che in retrospettiva fu una conseguenza dell’aver sottovalutato la venerazione dei funzionari cubani per il concetto di autorità. Lì per lì lo considerai un particolare banale non meritevole di menzione. Vi ricordate dove si trova la sede della polizia?”

“È quell’edificio con un giardino malandato che confina col mare.”

“Proprio quello! Tranne che non è neppure più un giardino. È una selva di erbacce che, se non fosse per la costruzione, darebbe l’impressione di un lotto abbandonato.”

“È vero, mi viene in mente proprio adesso di aver mostrato ad Arlene il muretto perimetrico che delimita la proprietà.”

Muretto! Hai detto bene. È un muretto alto una trentina di centimetri, che non fu mai completato. Dal lato della spiaggia, si possono ancora vedere tre o quattro colonne costruite su questo muretto, distanziate di quattro-cinque metri. Furono edificate chissà quando, furono solo intonacate e adesso sono verdi per il muschio e nere per l’umidità. La balaustrata di chiusura non fu mai realizzata. Dall’altro lato, ad angolo retto con la parte che dà sulla spiaggetta, ci sono altre due colonne, mai pitturate, ancora coperte dall’intonaco grigio originario, create per sostenere la porta o il cancello d’entrata del giardino. Erano spesso sorvegliate da due militari in uniforme.”

“A questo proposito, ricordo che la maggior parte delle volte che ci passavamo davanti per andare al centro, le sentinelle non c’erano” osservò David, e Arlene assentì col capo.

“È proprio questo il punto. O le sentinelle non c’erano, o quando c’erano facevano sorridere: non uno, ma due soldati a guardia di un ingresso in rovina privo di cancello!” esclamai per enfatizzare quell’assurdità. “Quella mattina, dopo aver legato il dinghy a una delle colonne sul muretto lato spiaggia, diedi un’occhiata alla mia destra per controllare se c’erano le sentinelle. Non c’erano. Per risparmiare ai miei piedi nudi il martirio del ghiaino che ricopriva il terreno antistante il ‘cancello fantasma’, scavalcai il muretto dalla spiaggia tagliando attraverso il giardino. Passai dal di dentro, accanto alle colonne d’entrata incustodite, e mi diressi verso il loggiato della casa sotto il quale si aprivano un paio di porte sul pavimento di cemento. Ben presto un funzionario in uniforme con un paio di baffi alla Stalin, alto, coi capelli corti tagliati a squadra, uscì dalla porta più vicina dell’edificio e si diresse verso il luogo in cui mi ero fermato, sotto il portico.”

“Scommetto che si trattava del capo della polizia, quel signore coi baffi che ti ha appena fatto una cortese visita” esclamò con impeto David.

“In persona! ‘Buenos días’ gli dissi con un sorriso.

‘Buenos días’ rispose. Poi mi chiese in spagnolo: ‘Lei capisce bene lo spagnolo?’

‘Sì, lo parlo correntemente’ risposi, presagendo che sarebbe arrivata una mazzata di qualche tipo.

‘Bene. Allora Le faccio una domanda: Quando Lei entra a casa degli altri, da dove entra?’

‘Le chiedo scusa. Dalla porta, Lei ha perfettamente ragione’ gli dissi indicando lo spazio tra le due colonne. ‘Mi scusi ancora. Sono a piedi nudi’ affermai, richiamando su questi la sua attenzione, ‘e il mio solo scopo era quello di evitare il ghiaino davanti all’entrata: non ho pensato che avrei potuto offendere. Mi dispiace, non accadrà più.’

Mi aspettavo un secondo rimprovero per i miei piedi nudi, ma questo non arrivò. Mi fece cenno di seguirlo all’interno, dove si sedette a un tavolino. Prevedevo una qualche forma di rappresaglia sui documenti. Invece fui contento di constatare che non accadde niente di spiacevole. Anzi! Diventò perfino loquace quando incominciai a parlare della pesca subacquea in Messico. Nel fare ciò, volevo confermare le informazioni sulla pesca subacquea che mi aveva dato l’agente al porto d’entrata del Varadero: ovvero che era legale. La mia esperienza consigliava che fosse meglio affrontare subito l’argomento. Se ci fossero state delle limitazioni nelle acque cubane, quello sarebbe stato il momento di farmelo sapere. Per esempio, in quel caso, il funzionario avrebbe potuto dire:

In Messico sì, ma qui a Cuba non è permesso o affermazioni simili. Invece, pur ascoltando attentamente, non disse nulla del genere.”

“Adesso capisco” commentò David, “è venuto per rappresaglia.”

“È quello che penso anch’io. È difficile crederlo, ma deve aver rimuginato la nostra conversazione per due giorni, cercando di capire in che modo avrebbe potuto vendicare l’onta e allo stesso tempo farci su un po’ di soldi. Durante la nostra conversazione di poco fa nella nostra barca, accennò al fatto che si era laureato a Mosca. Dato che deve avere una cinquantina d’anni, la laurea deve risalire a circa venticinque anni fa. Quando ritornò a Cuba, ben preparato e parlando un russo impeccabile, da uomo ambizioso quale era, deve aver ottenuto un posto di considerazione in qualche ministero.

Il collasso dell’Unione Sovietica deve aver precipitato la rovina di una promettente carriera. Dovette accorgersi ben presto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa: diminuita notevolmente l’influenza della Madre guida, anche il potere e il prestigio dei suoi più fedeli collaboratori devono essere scemati.

Il nostro uomo, che fu probabilmente relegato in quel villaggio di poco conto, dovette continuare in qualche modo a illudersi che il suo precedente stato sociale, prestigio, potere e influenza non erano diminuiti. Doveva mantenerne vivo il mito. Ecco perché si offese, o piuttosto finse di offendersi, per un comportamento che in qualunque altro Paese dei Caraibi sarebbe stato considerato una disattenzione di un turista distratto e gli sarebbe stata attribuita l’importanza che meritava. Inoltre, forse voleva provare a se stesso e ai suoi colleghi che riusciva ancora a produrre del denaro dalla fioca luce della sua presente autorità.”

È possibile che la mia analisi non sia completa e che abbia trascurato alcune cose, però la sua condotta e il suo atteggiamento mi hanno portato alla conclusione che le mie congetture non debbano discostarsi troppo dal vero.

Per amore di chiarezza e di obiettività sulla nostra esperienza di due mesi a Cuba, devo concludere che la sua gente è di gran lunga la più amichevole e istruita di tutta l’area caraibica. La sua compagnia è deliziosa. I turisti che arrivano via aerea e visitano il Paese con veicoli in affitto non sono apparentemente soggetti a restrizioni, né vengono infastiditi dai funzionari dell’immigrazione, della polizia o della dogana. Per contro, non ho parlato con un solo cruiser che non si lamentasse per gli abusi delle autorità. Tutti dichiarano di non avere intenzione di ritornare a Cuba con la propria barca anche se, come noi, possono prendere in considerazione di ritornarci in aereo.

Ma perchè questa disparità di trattamento? Ecco la risposta: Le autorità dell’isola, sembrano prendere di mira i cruisers, perché terrorizzate dal fatto che le barche a vela straniere possano imbarcare e portare all’estero cubani clandestini!


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