Come buona parte
dei Caraibi, Cuba negli anni Novanta era un paradiso per la pesca delle
aragoste: aragoste del tipo “spiny lobster”. Questo crostaceo, che è
principalmente notturno e durante il giorno si nasconde negli anfratti protetti
delle barriere coralline, è ben noto per le sue periodiche migrazioni, che
sembrano avvalersi dell’uso delle “mappe” dei campi magnetici della terra. A
differenza dell’aragosta del Maine negli USA, essa è priva delle grandi chele
colme di carne prelibata; comunque, nonostante ciò, la loro carne è quasi
altrettanto deliziosa.
A Cuba
esistevano restrizioni per la pesca dell’aragosta e, ai turisti che entravano
nel Paese in barca a vela, l’agente ufficiale al porto d’entrata consigliava di
mangiarle subito dopo averle pescate: per nessuna ragione di conservarle nel
frigorifero di bordo. Quest’ultimo era un dettaglio che non ci preoccupava,
dato che non abbiamo mai avuto un frigorifero nella cambusa della barca. Però,
siccome i nostri amici canadesi che viaggiavano insieme a noi con la loro
Beneteau 39 il frigo invece ce l’avevano, ci affrettammo a tradurre per loro
questa importante informazione.
Le aragoste
erano abbondanti dovunque in acque cubane e facili da pescare; erano saporite,
ma non tanto quanto le deliziose aragoste della stessa specie di altre acque
dei Caraibi. Quelle più grosse avevano un forte retrogusto d’erba, che
richiedeva un certo adattamento delle papille gustative.
Avevo fatto
pesca subacquea per anni in Baja California in Messico, ma non mi ero mai
dedicato alla pesca delle aragoste. Cuba mi sembrò il posto ideale per
cominciare.
Nella parte settentrionale dell’isola – fra
L’Avana e Capo Sant’Antonio – esplorammo per un paio di giorni un tratto esteso
di barriera corallina, brulicante di vita, con uno snorkeling sistematico in
acque cristalline, su un fondale che, simile a un vero e proprio giardino
sommerso, esibiva a ogni tratto le più diverse varietà di coralli. Tra questi,
ce n’erano alcuni indistinguibili da pietre, come per esempio i coralli a cervello, molti dei quali,
trascinati a riva dagli uragani e ammucchiati in grandi cataste di macerie, sia
sotto la superficie dell’acqua sia fuori, erano un richiamo tangibile alla
furia distruttiva della natura, capace di cambiare in un attimo la faccia di un
paesaggio sottomarino. Sono coralli compatti
dalla forma contorta a circonvoluzioni, che ricordano quelle di un cervello
umano e richiamano alla memoria quelle leggende della mitologia greca sui
poteri soprannaturali delle Gorgoni: creature femminili orrende capaci di
trasformare in pietra chiunque avesse osato guardarle.
Sagome indistinte emergevano una dopo l’altra
dalle profondità di denso azzurro, rendendosi visibili per gradi e
riconoscibili come alberi di corallo. Ci venivano incontro a mano a mano che
avanzavamo nella nostra cauta ricognizione coadiuvata dalle pinne, fino a
esplodere alla vista in tutto il loro splendore; i vistosi scheletri giallo cadmio
si diramavano in corna d’alce appena sotto la superficie. Questa ne rifletteva,
al rovescio, le forme, contorcendone il riflesso nelle ondulazioni sempre
cangianti dell’onda.
Altri coralli, simili a ventagli giganti
purpureo-violetto, con il loro movimento indistinto in lontananza, quando
venivano colpiti dalle onde più violente ritornavano a evocare nella mia mente
il groviglio orribile dei serpenti che la mitologia attribuisce ai capelli di
Medusa…
I pesci che vivono nella barriera corallina hanno
quasi tutti colori brillanti. Il re del colore è il pesce pappagallo, il cui
corpo è una vera e propria tavolozza che trapassa armonicamente dal verde
all’azzurro, dal giallo al rosso, dal purpureo al violetto e che cangia a
seconda dei coralli, della sabbia o delle alghe che gli fanno da sfondo.
Raggiunge dimensioni notevoli e sgranocchia alghe dai coralli e da altri
substrati rocciosi, con un becco così efficace che l’omonimo volatile sarà
costretto a imitarglielo qualche milione di anni dopo. Che contribuisca alla
bioerosione – come si legge – può essere vero, ma un uragano che colpisca una
barriera corallina, anche solo ogni cinquant’anni, compie una distruzione
migliaia di volte superiore!
Amy, la figlia della coppia canadese, che adesso
mi nuotava vicino, mi fece uscire dal mio stato ipnotico quando attrasse la mia
attenzione su due grandi aragoste, le cui lunghe antenne allo scoperto
tradivano il loro nascondiglio sotto una roccia in soli due metri d’acqua.
Risultarono facili da trapassare con la freccia
del fucile subacqueo. Dopo averne portate alla superficie alcune, rimisi in
tensione i due elastici del fucile che prestai ad Amy. Nonostante fosse la sua
prima volta, non impiegò molto a cacciare anche lei un’aragosta di buone
dimensioni; e suo padre David, poco lontano, ne portò alla superficie alcune
ancora più grandi. Nei giorni successivi ne cacciammo così tante che, dopo
averle cucinate in ogni modo e in ogni salsa, finimmo col metterle nella pizza
e darne una certa quantità al nostro cane Pacal, che ne andava pazzo.
Alcuni giorni dopo, l’alba di una giornata dal
cielo sereno e terso, lavato di luce, trovò le due barche ancorate in un luogo
idillico.
Ancora una volta era rassicurante aver gettato l’ancora in acque
calme, in un profondo canale che due isolette convergenti di mangrovie avevano
formato all’interno di un’area più vasta, protetta dalla barriera corallina.
La bellezza incontaminata del paesaggio veniva
suggerita da boschi di mangrovie, le quali crescevano sovrane, non ancora
disturbate da altri arbusti o alberi, né da accumulazione di sabbia. Un
esemplare solitario di aquila pescatrice, bianco e grigio, se ne stava
appollaiato come una statua sulla cima di un moncone di mangrovia bianca che si
stagliava contro il muro verde delle altre mangrovie. Sopra la testa, una
fregata nera come la pece – tranne che per una gorgiera bianca all’altezza del
collo – si librava elegantemente in volo sulle termocline di un cielo ancora
privo di nuvole.
Una coppia di pellicani si alternava in tuffi più
o meno regolari, lasciando cadere a peso morto, da una quindicina di metri, il
pesante corpo con un’accelerazione da togliere il fiato, afferrando un pesce
dopo l’altro con il preistorico becco. Seduti in riposo sulla superficie
dell’acqua dopo ogni tuffo ben eseguito, con la grossa sacca elastica lucente
appesa al becco, adatta a ingoiare grandi prede, il loro ultimo atto cerimoniale è sempre quello di
raccogliere dell’acqua col becco per facilitare la digestione.
La brezza mattutina portò nella nostra direzione
un breve trambusto dalla Beneteau, ancorata una cinquantina di metri davanti a
noi, sopravento. Sul ponte la gigantesca figura di David, calvo, a petto nudo,
con un paio di larghi pantaloncini neri, torreggiava al di sopra di una grossa
imbarcazione nell’acqua sottostante, remata da due persone chiaramente non
abituate, mentre una terza sedeva in prua.
Col suo spagnolo stentato, ma soprattutto grazie
al suo gesticolare, David riuscì a dirottare il pesante scafo, privo di motore,
verso la nostra barca.
Mentre li osservavo avvicinarsi dagli scalini del
boccaporto, avvisai Patrizia, la quale si mise a guardare dal finestrino.
Era la seconda imbarcazione che passava nelle
ultime ventiquattro ore. Il mattino precedente, una barca di pescatori azionata
da un motore quaranta cavalli era sfrecciata senza rallentare accanto a noi, e
i suoi passeggeri avevano risposto al mio energico saluto della mano con un
cenno appena percettibile del capo.
Quando salii nel pozzetto, David mi vide e
aggrottò le sopracciglia, strizzandomi l’occhio con un sorriso sornione che
interpretai come: “Non sono stato bravo a
liberarmi di loro così in fretta, malgrado non parli una parola di spagnolo?”
Una mutevole ragnatela di luce rifletteva l’acqua
sulle fiancate incerate della Beneteau.
Quando l’imbarcazione fu abbastanza vicina,
riconobbi uno dei suoi passeggeri che indossava un’uniforme grigio-oliva: era
il capo della polizia di un villaggio non lontano che avevamo visitato due
giorni prima. Fu anche il primo a salire a bordo.
Sicuramente, riflettevo, non avevano percorso a
remi le venti miglia di mare aperto dal loro villaggio. Dovevano essersi giunti
per strada a un pueblo poco lontano, aver trovato sia l’imbarcazione sia la
Nave della Marina Cubana, la quale doveva averli rimorchiati fino allo sbocco
del canale, rimanendo nascosta dietro il fitto muro delle mangrovie; di là, avevano
senz’altro remato gli ultimi duecento metri. Questi pensieri, che mettevano in
luce un piano premeditato da parte dei nostri ospiti, erano per me già motivo
di preoccupazione. Non potevo esserne del tutto sicuro, ma la loro visita non
presagiva niente di buono.
Anche gli altri due signori entrarono
maldestramente nel pozzetto. A differenza di qualsiasi altro funzionario
pubblico nei Caraibi, nessuno di loro chiese il permesso di tenere le scarpe. È
pur vero che la domanda è quasi sempre soltanto una formalità. Tuttavia si
tratta di una cortesia che molti cruisers si aspettano da coloro che salgono a
bordo e quasi tutti gli ospiti ne sono consapevoli. Per quanto mi riguarda non
mi è mai importato delle scarpe altrui, nemmeno nel nostro pozzetto. Però non
potei fare a meno di notare la loro condotta, che se non potevo definire
irritante, non mi mise tuttavia in buona disposizione d’animo.
Quando furono seduti su entrambi i sedili accanto
al tavolino del pozzetto, il capo della polizia incominciò a parlare senza
presentare i suoi colleghi. Non c’era bisogno di chiedersi chi fosse il leader
della spedizione.
Esordì con domande generali, ma io aspettavo fin
dall’inizio la domanda cruciale, la quale non tardò a venire:
“Posso vedere il suo frigorifero?” disse a un
certo punto.
“Certo, ma non abbiamo un frigorifero, solo una
ghiacciaia che abbiamo sempre usato per immagazzinare stoviglie.” Era palese
che cercasse delle aragoste.
“Dov’è?” domandò.
“Da questa parte” dissi accompagnandolo giù per
gli scalini della cambusa. Quando aprii il coperchio della ghiacciaia e dopo
che lui vi ebbe sbirciato dentro, alzai lo sguardo per leggergli negli occhi la
frustrazione che avevo previsto.
Dopo un attimo di disorientamento si volse
dall’altra parte, verso la Nav-station, cioè il pannello dei controlli
elettrici. Esaminò gli interruttori e il convertitore elettrico, poi esplorò
con lo sguardo la vicina cuccetta.
“E questo che cos’è?” chiese d’improvviso con il
tono trionfante di chi abbia appena scoperto l’arma del delitto. Non mi piacque
il luccichio di eccitazione che colsi nei suoi occhi. Seguii il suo sguardo.
“Che cos’è?” ritornò a ripetere come se ignorasse
di che cosa si trattasse. È probabile che stesse già immaginando dei verdoni
entrare come per magia nelle sue tasche.
L’oggetto che aveva sovraeccitato la sua
immaginazione era il mio fucile da pesca, il vecchio Arbalete azionato da due
elastici, che Pablo mi aveva venduto anni prima nella spiaggetta de Los
Muertitos, in Baja California, Messico.
“Guarda guarda!” pensavo. “È salito a bordo intenzionato a multarci
per immagazzinamento illegale di aragoste. Non ne ha trovate, così adesso si
accontenta di rindirizzare la sanzione sul fucile.”
Dovetti faticare a reprimere la mia frustrazione.
“Ah, devo multarla duecento dollari americani per
detenzione d’arma illegale in barca” mi informò. “Il funzionario del Ministero
della Pesca le confermerà che è proibito trasportare un fucile da pesca
subacquea in una imbarcazione.” Fu questa la sua involontaria presentazione, del tutto priva di tatto,
del funzionario del Ministero in questione. Per quanto concerne la terza
persona, ignoro ancora chi fosse!
“Mi può spiegare perché è proibito?” domandai,
riflettendo sul perché non avesse menzionato questo dettaglio tre giorni prima,
quando ci eravamo incontrati nel suo ufficio e gli avevo raccontato delle mie
spedizioni subacquee in Messico. Non era ovvio che avessi un fucile da pesca a
bordo? In quella circostanza gli sarebbe stato tutto più facile: le due barche
a vela erano ancorate a meno di cento metri dal suo ufficio!
“La legge cubana” ripeté senza elaborare, “vieta
di tenere a bordo fucili subacquei.”
Sospettai fosse un abuso, poiché avevo visto con
i miei occhi dei locali usarli. Ancora più significativo, avevo chiesto
informazioni specifiche all’agente ufficiale al porto d’entrata del Varadero, a
settanta chilometri a nord-est della capitale La Havana. Su mia richiesta, mi
aveva informato che era legale utilizzare un fucile subacqueo in acque cubane,
ma aveva suggerito di mangiare le eventuali aragoste subito dopo averle pescate
e di non immagazzinarle nel frigorifero della barca.
“Le dispiacerebbe mostrarmi quelle leggi?” gli
domandai senza mezzi termini, consapevole che i funzionari, non aspettandosi
richieste del genere, non portano mai i documenti ufficiali fuori dall’ufficio.
Fui sorpreso, invece, nel vedere il rappresentante del Ministero della Pesca
aprire con calma la sua valigetta nera ventiquattrore che teneva sulle
ginocchia, frugarci dentro, estrarne alcuni fogli stampati e mettermeli sotto
il naso. Ancora una volta mi sembrò che tutto questo puzzasse di
premeditazione.
Incominciai a leggere. Poi, visto che si trattava
di decine di pagine, dissi un po’ seccato: “Le dispiacerebbe mostrarmi i
paragrafi specifici?”
Il funzionario prese i fogli e li sfogliò più
volte avanti e indietro. “Ecco qua!” esclamò infine, indicando col dito.
Cominciai a leggere ad alta voce e, intenzionalmente, a una velocità
impensabile per uno straniero e perfino per molti locali. Percepii il loro
progressivo irrigidimento.
“Scusate, ma qui io leggo soltanto di alcune
proibizioni generali, molto vaghe, che potrebbero applicarsi, a quanto pare, ad
attrezzature da pesca commerciali impiegate dai locali. Non c’è nessuna
menzione ai fucili da pesca. No, mi dispiace ma tutto questo è troppo poco
specifico per avere un qualche peso legale.”
“Lei è un avvocato?” qualcuno domandò.
“No, non lo sono. Ma ogni persona istruita, nel
mio Paese, può arrivare facilmente a questa ovvia conclusione. Inoltre…
Inoltre…” dissi rileggendo qua e là per trovare il paragrafo giusto, “ecco qua…
Anche nell’ipotesi che si potesse applicare questa legge… qui… qui c’è scritto
che la multa è l’equivalente di cinquanta dollari americani. Cinquanta, non
duecento!” Provai vergogna per loro.
Adesso avevano l’aria di cani bastonati. Come
osso, ero più duro di quanto avessero potuto immaginare.
“E non è tutto. Il secondo punto è ancora più
interessante” proseguii, e quando sollevai la testa per incontrare lo sguardo
di ciascuno di loro, notai segni di nervosismo. “Vorrei richiamare la vostra
attenzione su un altro particolare. Un po’ più in giù… ecco qui... proprio qui”
dissi sottolineando con l’indice, “c’è scritto che la multa si applica... a
queste non meglio specificate attrezzature, purché si trovino dentro a una
imbarcazione a più di cento metri da terra. Sicuramente quell’isola di
mangrovie si trova a una distanza inferiore! In conclusione” osservai in tono
chiaro e deciso, “credo di non dover nulla all’erario cubano.”
Il capo della polizia dovette aver sentito il
terreno venir meno sotto i piedi, perché, dopo qualche esitazione, cambiò
tattica, domandando:
“Ha una radio di bordo?” Il suo tono era duro,
quasi minaccioso. Che cosa diavolo aveva intenzione di fare con la nostra radio
di bordo?
“Certo! Lei ha il mio permesso di usarla, se
vuole” dissi, sicuro che cogliesse il messaggio per niente subliminale. Gli
mostrai come utilizzarla e lui chiamò subito una persona, che non tardò a
rispondere.
A questo punto cominciò una delle conversazioni
più futili che Patrizia e io avessimo mai ascoltato. Il capo della polizia fece
una domanda dietro l’altra, ma sostanzialmente girava intorno allo stesso concetto
e, malgrado ciò, riusciva a entusiasmarsi sempre più.
“Intorno a Capo Sant’Antonio, vero?”
“Due barche.”
“Vicino al Capo? Quando?”
“Ieri mattina, alle nove circa.”
“Ah sì, alle nove!” ripeté con un certo tono,
come se l’ora fosse stata un elemento incriminante.
“Due barche a vela? Ah sì, due barche a vela.
Alle nove!” ribadì al colmo dell’eccitazione.
Dal pozzetto lo invitai a chiedere alla persona
all’altro capo del filo i nomi delle due barche a vela, ma lui faceva orecchio da mercante. Alla fine decisi
di lasciar correre, per il momento, ma avevo già capito dove voleva andare a
parare.
“Dunque hanno visto due barche a vela intorno a
Capo Sant’Antonio?”
“Sì, le LORO due barche che doppiavano il capo.”
Il monotono dialogo andò avanti per un po’, poi,
quando il funzionario ritenne di aver raccolto prove sufficienti per
incriminarci, posò il microfono, risalì nel pozzetto e si sedette di fronte a
me.
Con una buona dose di aggressività, enunciò in
modo trionfante: “Hanno visto le vostre
due barche vicino a Capo Sant’Antonio alle nove di ieri mattina.”
“Non mi dica!” cominciai con aria divertita,
riflettendo che il tutto si stava trasformando in farsa. Quanto avrei dato per
poter registrare quella conversazione!
Poi devo essere arrivato alla conclusione che l’ottusità
in qualche caso deve essere affrontata direttamente, brutalmente, il che è
spesso rischioso e non sempre consigliabile.
“Mi faccia riflettere... Be’, sa cosa sto
pensando?” pronunciai, stavolta con un’espressione seria e fredda. “Che in altri
Paesi... Lei potrebbe venire... incriminato…. per… diciamo... abuso di autorità?…
Corroborato da eventuali menzogne?”
La situazione aveva tutta l’aria di sfuggire di
mano. Colsi all’istante l’espressione contrariata di Patrizia, che mi rivolse
un breve sguardo come a dire: “Non
esagerare. Mai e poi mai mettere la gente con le spalle al muro. Non se ne
possono prevedere le conseguenze.”
“Be’ giudichi lei. Se non di mentire, di non
conoscere la geografia del suo Paese o, se la conosce, di essere debole in
matematica!” Vidi furtivamente Patrizia socchiudere gli occhi, in un rapido
gesto di costernazione.
“Ma cosa dice!”
“Cosa dico? Ma Lei ha un’idea della distanza da
qui al Capo Sant’Antonio?” Aspettai.
Avvertii il suo disorientamento, oltre che
un’ombra di imbarazzo.
“Be’, è ovvio che non lo sa” aggiunsi guardando
altrove, “altrimenti… altrimenti non avrebbe nemmeno iniziato quell’assurda
conversazione per radio…”
“Assurda? Che cosa c’era di tanto assurdo?”
domandò in tono secco. Era evidente che non aveva capito il messaggio.
“Lei saprà fare un semplice calcolo. Il Capo
Sant’Antonio si trova a centottanta miglia nautiche da qui. Ciò significa che,
alla velocità di crociera di cinque miglia l’ora, la nostra barca impiegherebbe
trentasei ore per coprire quella distanza; siccome voi siete arrivati alle
nove, sarebbero trascorse soltanto ventiquattro ore dalla nostra partenza dal
Capo, il che è come dire che arriveremo qui tra dodici ore, cioè alle ventuno
di stasera! Inoltre, dal nostro punto di vista, sarebbe sensato navigare per
centottanta miglia ininterrottamente e ritornare subito qui, con un viaggio
continuo di trecentosessanta miglia senza sosta in tre giorni, dal momento che
Lei sa bene che tre giorni fa ero nel suo ufficio e l’uscita dal Paese la
faremo da Maria La Gorda, che si trova appena dietro il Capo?”
Nell’ambiente si era diffuso un imbarazzate silenzio,
l’aria si poteva tagliare con il coltello, così proseguii: “C’è anche un altro
non trascurabile particolare di cui voglio informarla. Ieri mattina alle nove
circa, la presunta ora del crimine, eravamo ancorati qui, come i pescatori
dell’imbarcazione… come si chiamava… ah, grazie Patrizia, sì, La Rana… come i pescatori di La Rana possono testimoniare. Non le sarà
difficile rintracciarli e chiedere loro se è vero. Lei crede veramente che il
dire due barche a vela sia lo stesso
che dire Beguine e Moka? A me pare
proprio di no!”
“Si calmi, non alzi la voce” intervenne il tipo
del Ministero della Pesca. Patrizia mi rivolse un altro sguardo dissuasivo.
“Mi calmo subito. Sono già calmo... Ma voi dovete
rendervi conto che non sono stato io il primo a mostrare aggressività.” E
voltandomi verso il capo della polizia aggiunsi: “Ho cercato più volte di farle
capire di chiedere alla radio i nomi delle due barche, ma lei non mi ha prestato
attenzione. Anche l’ignorare volontariamente, in una situazione del genere, può
essere considerato aggressivo. Se lei mi avesse ascoltato, la questione sarebbe
già risolta da tempo... ll suo atteggiamento mi ha irritato. Vorrei che se ne
rendesse conto.”
Forse solo allora realizzò quanto era stato
puerile. Adesso che era rimasto senza argomenti, quali opzioni gli rimanevano?
L’unica possibilità era quella di rivangare sul
seminato: la multa per il fucile! Non mi sorprese, perciò, quando afferrò la
vanga al volo. Riflettei, tuttavia, per nostra convenienza, sull’opportunità di
cambiare atteggiamento e cercare di minimizzare la loro inammissibile condotta,
inventando un capro espiatorio che permettesse loro di salvare la faccia.
Perfino i ladri sorpresi con le mani nel sacco hanno bisogno di un qualche
riconoscimento della loro “dignità”. Per i nostri ospiti questo sarebbe stato
l’unico salvagente in vista, anche se si trovava più sott’acqua che sopra.
“Mi scuso per aver alzato la voce” esordii in
tono dimesso. “Se mi è concesso un qualche suggerimento, però, direi che
sarebbe opportuno procedere a coordinare i vostri sforzi con quelli dell’agente
ufficiale. Mi spiego meglio: i turisti che entrano nel Paese via mare credono,
non a torto, che ogni parola rivolta a loro dall’agente e ogni informazione sul
Paese siano esattamente ciò che prescrivono le leggi cubane; di conseguenza,
dovrebbe essere vostra responsabilità che l’agente ufficiale non contraddica le
leggi o ne inventi di nuove.” Sorrisi tra me e me per quest’ultimo, subdolo,
tocco incriminante. Immagino che non sarebbe piaciuto all’agente!
Appena cominciarono a consultarsi sulla mia
proposta, ebbi la netta impressione di aver premuto il tasto giusto.
Coordinazione, da allora in
avanti, divenne la parola chiave nel loro discorso. Mi sorprese il fatto che
avessero abboccato all’amo così in fretta e con tutta serietà. Forse facevano
solo finta, dopo le parole piuttosto dure che ci eravamo scambiati, ma non mi
sarei dovuto sorprendere più di tanto: avevo appena dato loro l’unico
suggerimento che gli avrebbe permesso di salvare la faccia, dirottando la colpa
della mancanza di coordinazione su qualcun altro. Fu a questo punto che mi resi
conto che avevano perso la battaglia. Infatti, se ne andarono di lì a poco con
la coda tra le gambe.
Dopo che furono passati accanto alla Beneteau e
scomparsi dietro il piccolo capo di mangrovie, David ci fece cenno di andare da
loro.
“Abbiamo alcune cosette eccitanti da raccontarvi”
annunciai dal dinghy quando fummo sotto la fiancata della sua barca.
“Non ne dubito” osservò David. “Salite a bordo.”
Raccontai la storia dettagliata alla famiglia al
completo, adesso raccoltasi nel pozzetto.
Dopo aver ascoltato fino in fondo, Arlene, la
moglie di David, disse: “Mentre passavano di qui, parlavano ancora di quello
che tu gli avevi suggerito, perché, benché non capisco lo spagnolo, tuttavia ho
colto una parola molto simile all’equivalente inglese: coordinazione. Coordinazione,
diceva uno di loro, e un altro ripeteva la stessa parola. Che storia!”
“Sono contento che se ne siano andati via a mani
vuote o, come diciamo in Canada, con un
uovo d’oca” concluse David.
“In realtà la storia è ancora più complicata… Non
ci crederete, ma il tipo fin dall’inizio ce l’aveva... con me. Aveva progettato
ogni dettaglio.”
“Suvvia, non vorrai dirmi che percorse venti
miglia per fregare il tuo denaro e…” aggiunse dopo una breve pausa, “forse
anche il nostro?”
“Non del tutto, ma quasi… Venne anche per
recuperare l’onore! O per vendicarsi di… ma è meglio cominciare dal principio.”
Nel frattempo Amy aveva portato su del tè con dei
biscotti e due bicchieri d’acqua gelata di frigo, quest’ultima un vero regalo
per me e Patrizia.
“Ricordate che tre giorni fa, di mattina, in quel
villaggio dove abbiamo comprato i pesci, sono andato a terra col dinghy con i
nostri e i vostri documenti della barca per un controllo di routine?”
“Certo, ‘una pura formalità’, ci avevi detto.
Dopo venti minuti eri già di ritorno affermando che era tutto a posto.”
“Infatti. Tuttavia quel mattino avevo preso una
decisione sbagliata, che in retrospettiva fu una conseguenza dell’aver
sottovalutato la venerazione dei funzionari cubani per il concetto di autorità.
Lì per lì lo considerai un particolare banale non meritevole di menzione. Vi
ricordate dove si trova la sede della polizia?”
“È quell’edificio con un giardino malandato che
confina col mare.”
“Proprio quello! Tranne che non è neppure più un
giardino. È una selva di erbacce che, se non fosse per la costruzione, darebbe
l’impressione di un lotto abbandonato.”
“È vero, mi viene in mente proprio adesso di aver
mostrato ad Arlene il muretto perimetrico che delimita la proprietà.”
“Muretto!
Hai detto bene. È un muretto alto una
trentina di centimetri, che non fu mai completato. Dal lato della spiaggia, si
possono ancora vedere tre o quattro colonne costruite su questo muretto, distanziate di quattro-cinque
metri. Furono edificate chissà quando, furono solo intonacate e adesso sono
verdi per il muschio e nere per l’umidità. La balaustrata di chiusura non fu
mai realizzata. Dall’altro lato, ad angolo retto con la parte che dà sulla
spiaggetta, ci sono altre due colonne, mai pitturate, ancora coperte
dall’intonaco grigio originario, create per sostenere la porta o il cancello
d’entrata del giardino. Erano spesso sorvegliate da due militari in uniforme.”
“A questo proposito, ricordo che la maggior parte
delle volte che ci passavamo davanti per andare al centro, le sentinelle non
c’erano” osservò David, e Arlene assentì col capo.
“È proprio questo il punto. O le sentinelle non
c’erano, o quando c’erano facevano sorridere: non uno, ma due soldati a guardia
di un ingresso in rovina privo di cancello!” esclamai per enfatizzare
quell’assurdità. “Quella mattina, dopo aver legato il dinghy a una delle
colonne sul muretto lato spiaggia,
diedi un’occhiata alla mia destra per controllare se c’erano le sentinelle. Non
c’erano. Per risparmiare ai miei piedi nudi il martirio del ghiaino che
ricopriva il terreno antistante il ‘cancello fantasma’, scavalcai il muretto dalla spiaggia tagliando
attraverso il giardino. Passai dal di
dentro, accanto alle colonne d’entrata incustodite, e mi diressi verso il
loggiato della casa sotto il quale si aprivano un paio di porte sul pavimento
di cemento. Ben presto un funzionario in uniforme con un paio di baffi alla
Stalin, alto, coi capelli corti tagliati a squadra, uscì dalla porta più vicina
dell’edificio e si diresse verso il luogo in cui mi ero fermato, sotto il
portico.”
“Scommetto che si trattava del capo della
polizia, quel signore coi baffi che ti ha appena fatto una cortese visita”
esclamò con impeto David.
“In persona! ‘Buenos días’ gli dissi con un
sorriso.
‘Buenos días’ rispose. Poi mi chiese in spagnolo:
‘Lei capisce bene lo spagnolo?’
‘Sì, lo parlo correntemente’ risposi, presagendo
che sarebbe arrivata una mazzata di qualche tipo.
‘Bene. Allora Le faccio una domanda: Quando Lei
entra a casa degli altri, da dove entra?’
‘Le chiedo scusa. Dalla porta, Lei ha
perfettamente ragione’ gli dissi indicando lo spazio tra le due colonne. ‘Mi
scusi ancora. Sono a piedi nudi’ affermai, richiamando su questi la sua
attenzione, ‘e il mio solo scopo era quello di evitare il ghiaino davanti
all’entrata: non ho pensato che avrei potuto offendere. Mi dispiace, non accadrà
più.’
Mi aspettavo un secondo rimprovero per i miei
piedi nudi, ma questo non arrivò. Mi fece cenno di seguirlo all’interno, dove
si sedette a un tavolino. Prevedevo una qualche forma di rappresaglia sui
documenti. Invece fui contento di constatare che non accadde niente di
spiacevole. Anzi! Diventò perfino loquace quando incominciai a parlare della
pesca subacquea in Messico. Nel fare ciò, volevo confermare le informazioni
sulla pesca subacquea che mi aveva dato l’agente al porto d’entrata del Varadero:
ovvero che era legale. La mia esperienza consigliava che fosse meglio
affrontare subito l’argomento. Se ci fossero state delle limitazioni nelle
acque cubane, quello sarebbe stato il momento di farmelo sapere. Per esempio,
in quel caso, il funzionario avrebbe potuto dire:
In Messico sì,
ma qui a Cuba non è permesso o affermazioni simili. Invece, pur ascoltando
attentamente, non disse nulla del genere.”
“Adesso capisco” commentò David, “è venuto per
rappresaglia.”
“È quello che penso anch’io. È difficile
crederlo, ma deve aver rimuginato la nostra conversazione per due giorni,
cercando di capire in che modo avrebbe potuto vendicare l’onta e allo stesso
tempo farci su un po’ di soldi. Durante la nostra conversazione di poco fa
nella nostra barca, accennò al fatto che si era laureato a Mosca. Dato che deve
avere una cinquantina d’anni, la laurea deve risalire a circa venticinque anni
fa. Quando ritornò a Cuba, ben preparato e parlando un russo impeccabile, da uomo
ambizioso quale era, deve aver ottenuto un posto di considerazione in qualche
ministero.
Il collasso dell’Unione Sovietica deve aver
precipitato la rovina di una promettente carriera. Dovette accorgersi ben
presto che la sua vita non sarebbe stata più la stessa: diminuita notevolmente
l’influenza della Madre guida, anche il potere e il prestigio dei suoi più
fedeli collaboratori devono essere scemati.
Il nostro uomo, che fu probabilmente relegato in
quel villaggio di poco conto, dovette continuare in qualche modo a illudersi
che il suo precedente stato sociale, prestigio, potere e influenza non erano
diminuiti. Doveva mantenerne vivo il mito. Ecco perché si offese, o piuttosto
finse di offendersi, per un comportamento che in qualunque altro Paese dei
Caraibi sarebbe stato considerato una disattenzione di un turista distratto e
gli sarebbe stata attribuita l’importanza che meritava. Inoltre, forse voleva
provare a se stesso e ai suoi colleghi che riusciva ancora a produrre del
denaro dalla fioca luce della sua presente autorità.”
È possibile che la mia analisi non sia completa e
che abbia trascurato alcune cose, però la sua condotta e il suo atteggiamento
mi hanno portato alla conclusione che le mie congetture non debbano discostarsi
troppo dal vero.
Per amore di chiarezza e di obiettività sulla
nostra esperienza di due mesi a Cuba, devo concludere che la sua gente è di
gran lunga la più amichevole e istruita di tutta l’area caraibica. La sua
compagnia è deliziosa. I turisti che arrivano via aerea e visitano il Paese con
veicoli in affitto non sono apparentemente soggetti a restrizioni, né vengono
infastiditi dai funzionari dell’immigrazione, della polizia o della dogana. Per
contro, non ho parlato con un solo cruiser che non si lamentasse per gli abusi
delle autorità. Tutti dichiarano di non avere intenzione di ritornare a Cuba
con la propria barca anche se, come noi, possono prendere in considerazione di
ritornarci in aereo.
Ma perchè questa disparità di trattamento? Ecco la risposta: Le autorità dell’isola, sembrano prendere
di mira i cruisers, perché terrorizzate dal fatto che le barche a
vela straniere possano imbarcare e portare all’estero cubani clandestini!
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