domenica 15 novembre 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 24: LEO - Melbourne (a Suor Rosalinda)

 

 

Quel pomeriggio, al lavoro, nella sede del giornale italiano IL Globo, quando sollevai la cornetta del telefono fui colto di sorpresa nell’udire la voce di Patrizia:

“Fabi, ha telefonato un tipo dicendo che ha il cane. Non ne sono troppo sicura, però. Viene a casa fra dieci minuti.”

Cercai di fare il possibile per rassicurare Patrizia: “Almeno, adesso abbiamo una speranza. È la prima volta in tanto tempo.”

Leo ci era stato rubato giorni prima dal giardino posteriore della nostra casa, mentre eravamo al lavoro. Informato da una vicina, ero ritornato subito a casa e avevo trovato Andrea in un parco poco lontano. Ma Leo era scomparso. Avevamo messo sul giornale un annuncio che prometteva una ricompensa di duemila dollari. «Non verrà fatta nessuna domanda» avevamo aggiunto. Però i giorni erano passati senza notizie positive.

Dopo mezz’ora, Patrizia chiamò di nuovo. “Ha portato il cane?” le chiesi.

“No, è venuto senza. Quando gli ho chiesto dov’era il cane, mi ha risposto che lo aveva lasciato a casa.”

“Be’, è anche comprensibile, dato quel po’ po’ di ricompensa che abbiamo promesso: non lo biasimo, ha quasi il diritto di dubitare. Forse sta solo prendendo delle precauzioni.”

“Può essere. Però ci sono delle cosette che non mi convincono.”

“Per esempio?”

“Non ha mai risposto alle mie domande direttamente. Sai, è italiano... una di quelle persone che, anche quando dicono la verità, sembra che mentano. E poi non mi piace il suo atteggiamento.”

“Be’, se ha il cane, possiamo chiudere un occhio sul suo atteggiamento.”

“Non se qualcuno bussa alla porta, dice che ha il tuo cane, lo inviti a sedersi al tavolino e, dopo appena tre minuti, ti chiede:

‘Mi daresti un bacio?’”

“E tu cos’hai fatto? Lo hai colpito sulla testa con la nuova padella?”

“Ero indecisa se usare la padella o metterlo subito alla porta, ma non volevo pregiudicare l’unica possibilità di recuperare Leo; anche se appariva minima, a quel punto. Perciò, ho preso carta e penna e gli ho fatto scrivere il suo indirizzo e numero di telefono. Prima di metterlo alla porta gli ho detto che, al tuo ritorno dal lavoro, l’avresti chiamato per fissare un appuntamento a casa sua.”

Quando tornai da Patrizia, le suggerii di fare lei quella telefonata: il tipo non abitava lontano.

Lasciammo a casa Andrea, salimmo nel camper e ci dirigemmo verso l’indirizzo. Fermai il veicolo di fronte al giardino antistante una grande casa, la quale era stata costruita nella parte posteriore della proprietà, lontano dalla strada. Era in parte nascosta da un paio di edifici più piccoli, che si trovavano a lato del sentiero di pietra che attraversava il prato. Patrizia preferì aspettare nel camper.

Suonai il campanello sul cancello. Un tipo basso e tarchiato, di mezza età, venne ad aprire e mi fece entrare.

“Sono qui per il cane” dissi, senza salutare. “Dov’è?”

Pronunciò qualcosa fra i denti, in un italiano incomprensibile, mentre si muoveva con passi incerti: come uno che non avesse ancora deciso cosa fare. Provai una strana sensazione, un misto tra dubbio e impotenza, forse simile a quello che doveva aver sentito Patrizia due ore prima.

Lo seguii lungo un sentiero di acciottolato che si snodava attraverso un prato ben rasato. C’erano irrigatori a riposo, che si intravvedevano nell’erba a intervalli regolari.

Mi fece entrare in un piccolo edificio che aveva tutto l’aspetto di un’officina. Legato in un angolo, in fondo, c’era un cane: aveva il pelo nero e, all’apparenza, non poteva avere meno di cinque anni.

“Ma ha letto l’annuncio?” gli chiesi con stupore “Il cucciolo che cerchiamo ha cinque mesi. Ed è beige, non nero! Beige, capisce?” ripetei seccato. Sembrava confuso.

Senza dire una parola, mi portò in un altro edificio più piccolo. Ero deluso e lo seguii di malavoglia, chiedendomi che cosa mi sarei dovuto aspettare questa volta. La porta era socchiusa. Entrò e io gli andai dietro. Dentro c’era un bagno, pulito ed elegante. Ma non c’era nessun cane. Nel frattempo avevamo raggiunto la fine del bagno e lui si voltò verso di me con le spalle al WC.

“Allora, dov’è il cane?”

“Non c’è... nessun cane... ” ammise titubante.

Sentii il sangue montarmi al cervello. Che fare? Non potevo andar via senza avergli dato una lezione. L’ironia era che non avevo mai picchiato nessuno in vita mia. Mi venne in mente il consiglio di un conoscente: “Quando sferri un pugno a qualcuno, la forza che ci metti non è la cosa determinante. L’essenziale è colpire il viso come se dovessi centrare un bersaglio che si trova trenta centimetri più in là.”

Seguendo le istruzioni alla lettera, visualizzai il bersaglio dietro la sua testa. Sferrai il pugno. Il corpo del tipo volò letteralmente all’indietro e atterrò giusto giusto nel sedile aperto del WC.

Proprio il posto adatto per questo pezzo di merda, pensai, sorpreso di essere stato capace di concentrare tanta forza in una sola mazzata. Abbassai lo sguardo: no, quello lì, ancora chiuso, non poteva essere il mio pugno. Era il pugno di John Wayne!

Alzando lo sguardo verso il viso terrorizzato del malcapitato, notai qualcosa di preoccupante: un reticolo rosso di vasi sanguigni era apparso nella parte superiore della guancia, sotto l’occhio sinistro, e sembrava crescere a vista d’occhio.

“Non mi colpisca più, la prego, la prego” implorava. Pensai al suo atteggiamento verso Patrizia e la pietà si mutò in disgusto.

“Bastardo. Codardo. Questo è solo un assaggio. Ti avviso: ritorna vicino a casa mia e ti farò vedere di che cosa sono capace” ero incazzato, ma non abbastanza da colpirlo una seconda volta.

Uscii dal bagno lasciandolo seduto dove era atterrato. Camminai lentamente lungo il sentiero fino al cancello, tendendo l’orecchio. Non udii alcun rumore di passi dietro di me. Uscii nella strada e raggiunsi il camper.

“Niente, eh?” mormorò Patrizia.

“Figurati! Mi ha fatto vedere un vecchio cane nero! È solo uno sciocco innocuo. Ma sembra che gli sciocchi capiscano solo un linguaggio” dissi, mostrando il pugno. “Ci penserà due volte, in futuro.”

“Andiamo a casa. Andrea deve sentirsi solo.”

N.d.A. Lo so, lo so. C’è chi muore dalla voglia di sapere perché ho dedicato questa storia a una suora. Suor Rosalinda, tra tutte le suore dei miei anni di asilo, era la mia preferita. Era un gigante dal colorito roseo e il viso tondo di un angelo: una bella rosa, come il suo nome indicava. Era anche l’emblema della bontà. Quello che non immaginavo, era il fatto che anch’io ero il suo preferito. Mia madre, molti anni dopo, mi disse che Suor Rosalinda le aveva confidato di essersi preoccupata per me in un paio di circostanze. Le aveva detto: “Fabrizio è troppo buono, che buon carattere, proprio come San Luigi! Durante la ricreazione nel giardino (dell’asilo) i suoi compagni gli fanno continuamente dispetti (che io non ricordo). A volte vorrei che reagisse. Ma... sono una suora… come potrei dirglielo!”

Ah, che carina Suor Rosalinda. Grazie per essersi preoccupata per me. Che ne dice, adesso, della mia unica ma estremamente efficace prestazione? Sorpresa? Anch’io.

 

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