venerdì 11 settembre 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 22: Una storia triste




È con un certo imbarazzo che sto per raccontare la storia seguente, ambientata su un fiume già più volte menzionato in questo libro e nei precedenti della stessa serie: il Rio Dulce, in Guatemala. È un racconto che illustra in modo impeccabile il fatalismo della gente del terzo mondo e il suo rapporto con il prossimo e con il Dio della Bibbia.



Me ne stavo seduto, insieme a Patrizia, in un gazebo sul fiume. Il bell’edificio di legno scuro verniciato e lucente, con i suoi tavoli rustici ricavati da ceppi di pregiato legno locale e le eleganti porte in ferro battuto, recentemente installate, i cui tubicini quadrati i clienti usavano come apribottiglie per le loro birre, disseminando il pavimento di tappini, era un prolungamento del retrobottega del negozio di alimentari della nostra amica Miriam.

  Il graticcio quadrettato di legno, su una parete del gazebo, consentiva una vista completa dell’adiacente porticciolo in miniatura, incassato tra due pontili e l’alta facciata di una casa.


I cayucos locali, tutti pitturati dei colori più sgargianti che si possano concepire – colori che, proprio grazie al loro impiego limitato hanno il pregio non trascurabile di essere i più economici sul mercato – erano arrivati
presto, uno dopo l’altro, come del resto ogni mattina, ed erano disposti in file parallele, nel sole, ogni cayuco per un terzo tirato a riva e per il resto a galla nell’acqua poco più alta della caviglia. Le basse fiancate sbattevano l’una contro l’altra nel moto irregolare delle onde provocate dalle barche di passaggio. 


Dall’ombra nella quale ero seduto, dentro il gazebo sopraelevato, mi godevo la vista anche dell’interno dei cayuchi, tutti tradizionalmente ricavati da un unico tronco d’albero, una volta fornito da mogano rosso, oggi da un anemico Santa Maria, un legno più economico. Un buon numero di questi era ancora carico della pesca del giorno, per lo più locali moharre verdi e rosse, palomitas argentate e granchi dai riflessi bluastri, ancora vivi. Scorsi anche un paio di grossi robali.

Di tanto in tanto, un pescatore camminava a piedi nudi nell’acqua bassa accanto al suo cayuco, i pantaloni rimboccati sopra le caviglie, e con in mano una bottiglia di plastica di un gallone, necessariamente adattata allo scopo, raccoglieva dal fiume dell’acqua e la gettava sopra al pesce che giaceva sparso sul fondo del cayuco.

Sotto l’effetto della doccia, i pesci brillavano di vividi guizzi di luce. Altri pescatori avevano coperto le loro prede con verdi fronde di palma, le quali, mantenute bagnate nello stesso modo, riflettevano i bagliori del forte sole tropicale.

Il vicino molo di cemento brulicava di gente, la quale, sporgendosi verso le piccole imbarcazioni, chiedeva i prezzi e comprava direttamente dai pescatori. Altri preferivano acquistare dalla cooperativa adiacente al porticciolo, dove erano anche in vendita gamberoni di dimensioni diverse, pescati durante la notte dai pescherecci da traino nelle acque marine di Livingston, un villaggio garifuna alla foce del fiume, venti miglia più a valle.

Se scendevo dal gazebo sul pontile a forma di T, la vista, spaziando a oriente oltre i Marina, al di là della minuscola Isola Degli Uccelli in mezzo al fiume, arrivava fino a una mezza dozzina di baie; e, più in alto, alle dolci ondulazioni delle colline sullo sfondo, ovattate dalla tipica tavolozza di verdi-azzurri pastello.

Shaula aveva appena dato alla luce undici cuccioli nel pozzetto della nostra barca a vela, dando anche vita a un lavoro di biberon a tempo pieno di circa sei settimane per me e per Patrizia. Dio ha purtroppo dotato le femmine di solo otto mammelle, ma nei momenti di distrazione, a quanto pare, permette loro di dare alla luce una dozzina di cuccioli. In queste circostanze, non c’era possibilità che Shaula fosse in grado di allattarli tutti da sola. Era uno di quei casi palesi in cui noi umani dobbiamo subentrare dove la creazione è rimasta incompleta. Tuttavia, se esaminiamo la questione alla luce della teoria dell’evoluzione, vediamo come, anche in questo caso, la natura abbia applicato la drastica regola della sopravvivenza del più idoneo. Era desolante osservare la lotta spietata dei cuccioli per raggiungere un seno, e come tre di loro non riuscissero quasi mai a mangiare. Questi ultimi, lasciati a se stessi, non sarebbero sopravvissuti.

Conosciamo Miriam da anni. Da lei abbiamo sempre comprato la maggior parte dei nostri prodotti alimentari a eccezione di frutta e verdura, per rifornire la cambusa quando siamo ancorati nel fiume e poco prima di partire per il mare aperto.

Miriam, che adora gli animali, allora aveva due cani, due gatti e due pappagalli. Questi ultimi, appollaiati su un trespolo nel retrobottega, quand’erano di buon umore ci salutavano con grida selvagge, risa contagiose e parolacce. Sapevamo che lei sarebbe stata contenta di dare un’occhiata ai cuccioli di cui le avevamo parlato nelle settimane precedenti e di conseguenza, per piacere reciproco, li avevamo portati nel gazebo a esplorare un luogo nuovo, saturo di accattivanti odori.

Dopo che Miriam ebbe trascorso un po’ di tempo a osservarli camminare sul pavimento di legno, ritornò nel negozio vero e proprio per servire dei clienti e noi rimanemmo nel gazebo per un paio di bibite.

Tenevamo d’occhio i cuccioli quasi costantemente, preoccupati che potessero finire nel pontile e, di lì, nell’acqua; anche se la vista delle trenta o più persone in piedi o sedute sul pontile mi rassicurava che, in una tale eventualità, saremmo stati avvertiti. C’era chi caricava o scaricava, chi chiaramente aspettava una barca che lo riconducesse a casa, chi stava solo bighellonando e si guardava intorno, chi scambiava alcune parole col vicino.


A un tratto un trambusto – proprio sul pontile – attrasse la nostra attenzione e, nella cacofonia di voci, mi parve di udire che qualcuno o qualcosa era caduto nell’acqua. Contai subito i cuccioli: ne mancava uno. Patrizia tornò a contarli. Era indubbio che ne mancasse uno. Scesi in fretta sul pontile e mi inginocchiai per far correre lo sguardo nell’acqua sottostante, lungo le pareti di tavole. Non vidi nulla. Infine, alzando il capo verso un giovane che stava in piedi accanto a me, gli domandai: “Dov’è il cucciolo?”

Il tipo non rispose, forse supponendo, in base al mio aspetto, che non capissi lo spagnolo, ma indicò tranquillamente col dito un punto nell’acqua a dieci metri oltre l’estremità del pontile.

Ciò che vidi mi fece rabbrividire. Un uomo galleggiava sott’acqua! Del tutto inerte, in posizione verticale, il peso del corpo lo faceva tuttavia muovere su e giù ma i suoi capelli fluttuanti non raggiungevano mai la superficie: ricordava un astronauta in condizione di assenza di gravità. Mentre Patrizia mi assicurava, da dentro il gazebo, che aveva ritrovato il cucciolo tra le casse vuote di birra accatastate sul pavimento, io mi trovavo di fronte a una tragedia: un essere umano stava annegando, o era già annegato, e nessuno muoveva un dito. Diedi un’occhiata in giro e provai un senso di vertigine. La maggior parte di una trentina di persone erano uomini, e se ne stavano in piedi sui pontili, in silenzio e immobili. Fissavano l’acqua con espressioni prive di emozioni, ed era evidente che nessuno di loro avesse intenzione di tuffarsi. Eppure non c’era un istante da perdere.

Mi tuffai, vestito com’ero, senza sapere se sarei stato capace di prestare soccorso. Per fortuna fu più facile del previsto. Le acque erano calme, la distanza breve. Quando trascinai il malcapitato verso il pontile, due persone, in piedi in una barca che vi era ormeggiata, si chinarono per aiutarmi a sollevarlo dentro la loro imbarcazione e, di lì, sul pontile.

L’uomo diede subito segni di vita, ma qualcosa chiaramente non andava. Non mi ci volle molto ad accorgermi che era ubriaco fradicio. Probabilmente era caduto nell’acqua e rimasto sotto per un po’, senza rendersi conto di dove si trovasse. Lo sistemammo a fatica sul sedile posteriore della sua barca, anch’essa legata al pontile. Eppure non doveva essere poi così fuori di sé, considerando che riusciva quasi a mantenersi seduto senza aiuto.

Gli rimasi accanto per un po’. Quando si mosse, strisciando sul sedile, cercò di spostarsi in direzione del motore, barcollò e per poco non ricadde nell’acqua. Compresi le sue intenzioni. Voleva accendere il motore per andarsene: un suicidio, in quelle condizioni.

Nel frattempo sentii qualcosa di strano, come un piccolo peso contro la coscia, nei pantaloncini ancora gocciolanti. Quando capii, ebbi una stretta al cuore: nella fretta di tuffarmi dal pontile, avevo dimenticato di togliere di tasca il cellulare!

“Per favore, assicuratevi che non se ne vada con la barca, si ucciderebbe quasi sicuramente in queste condizioni” dissi a due dei presenti. “Ritorno subito”.

Entrai nel gazebo e misi il cellulare su un tavolo. Lo aprii, tolsi la scheda Sim e la asciugai con cura insieme alle altre parti bagnate. Mentre cercavo di risuscitare il telefono, non mi era difficile tenere d’occhio, attraverso il bel graticcio del gazebo, il nostro amico, che si trovava ancora sul sedile della sua barca: in linea d’aria, a non più di tre metri.

Riflettevo con tristezza che la gente là fuori, quasi con un inconsapevole godimento, aveva aspettato l’inevitabile senza intervenire. Oserei quasi dire, con un piacere inconscio. Il piacere che può sorgere in un cervello contorto dall’osservare, da un luogo sicuro, uno sventurato morire. Una disgrazia in più su cui chiacchierare. Se quella era la volontà di Dio, a che pro intervenire? Perché inzupparsi i vestiti? Inoltre, se era la volontà di Dio, perché io e Patrizia ci eravamo affannati per salvare i tre cuccioli in più con un innaturale biberon? Non riuscivo a scacciare il turbamento.

“Non c’è niente da fare, il cellulare è andato. È colpa mia, dovevo stare più attento. Poco male, era un modello che non valeva molto” conclusi rivolgendomi a Patrizia. Nonostante tutto non avevo perso completamente la speranza; però, dopo essere ritornati in barca, averlo messo al sole e successivamente dentro il forno, dovetti ammettere che il cellulare se n’era andato per sempre.

Almeno una cosa positiva c’era: il tipo era ancora seduto sul sedile della sua barca. Era in salvo, e questo era un dato di fatto. La doccia imprevista lo aveva solo in parte fatto riprendere dalla sbronza.

“Ancora un’oretta, minimo” suggerii all’unica guardia del corpo rimasta, un giovane che adesso lo sorvegliava. “Fra un’oretta starà meglio. Adesso non è in grado di guidare.” Il giovane assentì con un cenno del capo.

Poco dopo, il poveraccio si mosse sul sedile in direzione del motore e cercò di tirare verso di sé la corda per accenderlo. Gli strappai di mano la maniglia.

“No!” lo avvisai. “Non ancora” e lo spinsi indietro con fermezza. Proprio non riusciva a rendersi conto dello stato in cui si trovava. Non aveva né equilibrio, né coordinazione e la sua capacità di giudizio era limitata.

Posso testimoniare di persona come una mente perturbata riesca spesso a trascinare con sé anche il corpo. Infatti, dopo un po’ fui costretto ad assentarmi in tutta fretta, non prima però di aver raccomandato a uno dei presenti di dare un’occhiata al tipo. “Vado e vengo” gli assicurai. “Per favore, non farlo andar via. Si ucciderebbe o ucciderebbe qualcun altro.”

Non ci misi più di tre minuti. Mentre ritornavo, udii il rumore di un motore. “Oh nooooo! Dio, fa che non sia lui!” mi venne da dire. Ma Dio, come al solito, sembrava essere occupato altrove o forse era geloso perché avevo salvato l’uomo contro la Sua volontà. Che fosse un “Dio geloso” ne ero sicuro perché così si è definito Lui stesso nella Bibbia.

Quando scesi sul pontile, un giovane allungò il braccio e indicò con la mano la barca che si allontanava: nessuno aveva cercato di impedirgli di partire. Mi afferrai il capo con le mani e avrei voluto sbatterlo contro il muro per la sciocchezza di aver confidato in gente irresponsabile. Ma, d’altro canto, non avrei potuto fare altrimenti: l’urgenza di andare in bagno non mi aveva lasciato scelta…

La barca stava adesso zigzagando pericolosamente, cambiando direzione ogni dieci metri, con la prua nell’aria: dava proprio l’impressione di essere ubriaca. Non c’era che da aspettarsi l’ovvia tragedia da un momento all’altro. Mi sentii responsabile. Avrei mai potuto perdonarmi di aver confidato in un branco di idioti dalla coscienza sottosviluppata? Ero furioso con il mondo intero, ma soprattutto con me stesso. Che ironia. Il tipo che avevo salvato stava per ricadere nell’acqua, dove mi sarebbe affogato sotto gli occhi, e stavolta, data la distanza, non potevo fare proprio nulla. Nessuno, proprio nessuno, a questo punto avrebbe potuto fare nulla.

Continuai a seguire quella scena triste con trepidazione e angoscia. Era solo una questione di tempo. Che sensazione terribile! Come avrei potuto vivere con quel ricordo?

All’improvviso, accadde: la barca, che aveva rischiato di rovesciarsi più volte, era adesso perfettamente ferma a trecento metri dal pontile. Il guidatore cercava febbrilmente di riaccendere il motore! Ma il motore mostrava più giudizio del suo padrone e si rifiutava di partire: rifiutava di portare il guidatore verso una morte sicura. In realtà questo è un modo come un altro di dire che era rimasto senza benzina, cosa non rara a vedersi sul fiume.

Passarono forse cinque minuti, ma il tempo si dilatò in un’eternità. Poi, da qualche parte, apparve un buon samaritano che si avvicinò con la sua imbarcazione; gli gettò una corda e lo rimorchiò in una piccola baia dall’altra parte del fiume, un chilometro più lontano. Che spreco di adrenalina in un lasso di tempo relativamente breve!

“Ho bisogno di una birra” esternai a Patrizia, “forse di un paio. Mi fai compagnia?”

“Perché no? Dimentichiamo quello che è accaduto e guardiamo cosa fanno i cuccioli. Sono così carini!”

Lasciammo il fiume qualche tempo dopo, alla volta del Belize. Tre mesi più tardi, quando ritornammo, andammo a salutare Miriam, la quale ci diede una cattiva notizia:

 “Qualche giorno dopo la vostra partenza, sentii un trambusto là fuori. Stavo servendo un cliente, per cui ci misi un po’ a uscire e rendermi conto di persona. C’era un bambino sdraiato supino sul pontile, immobile, e un altro in piedi vicino a lui. Il pontile era affollato, ma nessuno sapeva che cosa fare. Mi informarono che i due bambini stavano giocando, quando uno di loro cadde (o fu spinto) nell’acqua. Le persone che lo tirarono fuori forse esitarono troppo a lungo a tuffarsi in suo aiuto (sic!). Era ancora vivo? Difficile dirlo. Non è da escludere che una respirazione bocca a bocca avrebbe potuto salvargli la vita. Mi sentii colpevole” aggiunse, “di non conoscere quella tecnica.”

Fu senza dubbio a causa di un ingiustificato senso di colpa che Miriam, in nostra assenza, aveva cominciato a seguire un corso da infermiera nel tempo libero: il primo giorno, ci disse di aver chiesto istruzioni su come eseguire una respirazione bocca a bocca!

“Speriamo che non succeda mai più” rivelò. “In caso contrario, adesso sarei pronta… Forse riuscirò a perdonarmi… un giorno.”

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