Me ne stavo
seduto, insieme a Patrizia, in un gazebo sul fiume. Il bell’edificio di legno
scuro verniciato e lucente, con i suoi tavoli rustici ricavati da ceppi di
pregiato legno locale e le eleganti porte in ferro battuto, recentemente
installate, i cui tubicini quadrati i clienti usavano come apribottiglie per le
loro birre, disseminando il pavimento di tappini, era un prolungamento del retrobottega
del negozio di alimentari della nostra amica Miriam.
Il graticcio quadrettato
di legno, su una parete del gazebo, consentiva una vista completa
dell’adiacente porticciolo in miniatura, incassato tra due pontili e l’alta
facciata di una casa.
presto, uno dopo l’altro, come del resto ogni mattina, ed erano disposti in file parallele, nel sole, ogni cayuco per un terzo tirato a riva e per il resto a galla nell’acqua poco più alta della caviglia. Le basse fiancate sbattevano l’una contro l’altra nel moto irregolare delle onde provocate dalle barche di passaggio.
Dall’ombra nella
quale ero seduto, dentro il gazebo sopraelevato, mi godevo la vista anche
dell’interno dei cayuchi, tutti tradizionalmente ricavati da un unico tronco
d’albero, una volta fornito da mogano rosso, oggi da un anemico Santa Maria, un legno più economico. Un
buon numero di questi era ancora carico della pesca del giorno, per lo più
locali moharre verdi e rosse, palomitas argentate e granchi dai riflessi
bluastri, ancora vivi. Scorsi anche un paio di grossi robali.
Di tanto in
tanto, un pescatore camminava a piedi nudi nell’acqua bassa accanto al suo
cayuco, i pantaloni rimboccati sopra le caviglie, e con in mano una bottiglia
di plastica di un gallone, necessariamente adattata allo scopo, raccoglieva dal
fiume dell’acqua e la gettava sopra al pesce che giaceva sparso sul fondo del
cayuco.
Sotto l’effetto
della doccia, i pesci brillavano di vividi guizzi di luce. Altri pescatori
avevano coperto le loro prede con verdi fronde di palma, le quali, mantenute
bagnate nello stesso modo, riflettevano i bagliori del forte sole tropicale.
Il vicino molo
di cemento brulicava di gente, la quale, sporgendosi verso le piccole
imbarcazioni, chiedeva i prezzi e comprava direttamente dai pescatori. Altri
preferivano acquistare dalla cooperativa adiacente al porticciolo, dove erano
anche in vendita gamberoni di dimensioni diverse, pescati durante la notte dai
pescherecci da traino nelle acque marine di Livingston, un villaggio garifuna alla
foce del fiume, venti miglia più a valle.
Se scendevo dal
gazebo sul pontile a forma di T, la vista, spaziando a oriente oltre i Marina,
al di là della minuscola Isola Degli Uccelli in mezzo al fiume, arrivava fino a
una mezza dozzina di baie; e, più in alto, alle dolci ondulazioni delle colline
sullo sfondo, ovattate dalla tipica tavolozza di verdi-azzurri pastello.
Shaula aveva
appena dato alla luce undici cuccioli nel pozzetto della nostra barca a vela,
dando anche vita a un lavoro di biberon a tempo pieno di circa sei settimane
per me e per Patrizia. Dio ha purtroppo dotato le femmine di solo otto mammelle,
ma nei momenti di distrazione, a quanto pare, permette loro di dare alla luce
una dozzina di cuccioli. In queste circostanze, non c’era possibilità che
Shaula fosse in grado di allattarli tutti da sola. Era uno di quei casi palesi
in cui noi umani dobbiamo subentrare dove la creazione è rimasta incompleta.
Tuttavia, se esaminiamo la questione alla luce della teoria dell’evoluzione,
vediamo come, anche in questo caso, la natura abbia applicato la drastica
regola della sopravvivenza del più idoneo. Era desolante osservare la lotta
spietata dei cuccioli per raggiungere un seno, e come tre di loro non riuscissero
quasi mai a mangiare. Questi ultimi, lasciati a se stessi, non sarebbero
sopravvissuti.
Conosciamo
Miriam da anni. Da lei abbiamo sempre comprato la maggior parte dei nostri
prodotti alimentari a eccezione di frutta e verdura, per rifornire la cambusa
quando siamo ancorati nel fiume e poco prima di partire per il mare aperto.
Miriam, che
adora gli animali, allora aveva due cani, due gatti e due pappagalli. Questi
ultimi, appollaiati su un trespolo nel retrobottega, quand’erano di buon umore
ci salutavano con grida selvagge, risa contagiose e parolacce. Sapevamo che lei
sarebbe stata contenta di dare un’occhiata ai cuccioli di cui le avevamo
parlato nelle settimane precedenti e di conseguenza, per piacere reciproco, li
avevamo portati nel gazebo a esplorare un luogo nuovo, saturo di accattivanti odori.
Dopo che Miriam
ebbe trascorso un po’ di tempo a osservarli camminare sul pavimento di legno,
ritornò nel negozio vero e proprio per servire dei clienti e noi rimanemmo nel
gazebo per un paio di bibite.
Tenevamo
d’occhio i cuccioli quasi costantemente, preoccupati che potessero finire nel
pontile e, di lì, nell’acqua; anche se la vista delle trenta o più persone in
piedi o sedute sul pontile mi rassicurava che, in una tale eventualità, saremmo
stati avvertiti. C’era chi caricava o scaricava, chi chiaramente aspettava una
barca che lo riconducesse a casa, chi stava solo bighellonando e si guardava
intorno, chi scambiava alcune parole col vicino.
A un tratto un
trambusto – proprio sul pontile – attrasse la nostra attenzione e, nella
cacofonia di voci, mi parve di udire che qualcuno o qualcosa era caduto
nell’acqua. Contai subito i cuccioli: ne mancava uno. Patrizia tornò a
contarli. Era indubbio che ne mancasse uno. Scesi in fretta sul pontile e mi
inginocchiai per far correre lo sguardo nell’acqua sottostante, lungo le pareti
di tavole. Non vidi nulla. Infine, alzando il capo verso un giovane che stava
in piedi accanto a me, gli domandai: “Dov’è il cucciolo?”
Il tipo non
rispose, forse supponendo, in base al mio aspetto, che non capissi lo spagnolo,
ma indicò tranquillamente col dito un punto nell’acqua a dieci metri oltre
l’estremità del pontile.
Ciò che vidi mi
fece rabbrividire. Un uomo galleggiava sott’acqua! Del tutto inerte, in
posizione verticale, il peso del corpo lo faceva tuttavia muovere su e giù ma i
suoi capelli fluttuanti non raggiungevano mai la superficie: ricordava un
astronauta in condizione di assenza di gravità. Mentre Patrizia mi assicurava,
da dentro il gazebo, che aveva ritrovato il cucciolo tra le casse vuote di
birra accatastate sul pavimento, io mi trovavo di fronte a una tragedia: un
essere umano stava annegando, o era già annegato, e nessuno muoveva un dito.
Diedi un’occhiata in giro e provai un senso di vertigine. La maggior parte di una trentina di persone erano uomini,
e se ne stavano in piedi sui pontili, in silenzio e immobili. Fissavano l’acqua
con espressioni prive di emozioni, ed era evidente che nessuno di loro avesse
intenzione di tuffarsi. Eppure non c’era un istante da perdere.
Mi tuffai,
vestito com’ero, senza sapere se sarei stato capace di prestare soccorso. Per
fortuna fu più facile del previsto. Le acque erano calme, la distanza breve.
Quando trascinai il malcapitato verso il pontile, due persone, in piedi in una
barca che vi era ormeggiata, si chinarono per aiutarmi a sollevarlo dentro la
loro imbarcazione e, di lì, sul pontile.
L’uomo diede
subito segni di vita, ma qualcosa chiaramente non andava. Non mi ci volle molto
ad accorgermi che era ubriaco fradicio. Probabilmente era caduto nell’acqua e
rimasto sotto per un po’, senza rendersi conto di dove si trovasse. Lo
sistemammo a fatica sul sedile posteriore della sua barca, anch’essa legata al
pontile. Eppure non doveva essere poi così fuori di sé, considerando che
riusciva quasi a mantenersi seduto senza aiuto.
Gli rimasi
accanto per un po’. Quando si mosse, strisciando sul sedile, cercò di spostarsi
in direzione del motore, barcollò e per poco non ricadde nell’acqua. Compresi
le sue intenzioni. Voleva accendere il motore per andarsene: un suicidio, in
quelle condizioni.
Nel frattempo
sentii qualcosa di strano, come un piccolo peso contro la coscia, nei pantaloncini
ancora gocciolanti. Quando capii, ebbi una stretta al cuore: nella fretta di
tuffarmi dal pontile, avevo dimenticato di togliere di tasca il cellulare!
“Per favore,
assicuratevi che non se ne vada con la barca, si ucciderebbe quasi sicuramente
in queste condizioni” dissi a due dei presenti. “Ritorno subito”.
Entrai nel gazebo e misi il cellulare su un
tavolo. Lo aprii, tolsi la scheda Sim e la asciugai con cura insieme alle altre
parti bagnate. Mentre cercavo di risuscitare il telefono, non mi era difficile
tenere d’occhio, attraverso il bel graticcio del gazebo, il nostro amico, che
si trovava ancora sul sedile della sua barca: in linea d’aria, a non più di tre
metri.
Riflettevo con tristezza che la gente là fuori,
quasi con un inconsapevole godimento, aveva aspettato l’inevitabile senza
intervenire. Oserei quasi dire, con un piacere inconscio. Il piacere che può
sorgere in un cervello contorto dall’osservare, da un luogo sicuro, uno
sventurato morire. Una disgrazia in più su cui chiacchierare. Se quella era la
volontà di Dio, a che pro intervenire? Perché inzupparsi i vestiti? Inoltre, se
era la volontà di Dio, perché io e Patrizia ci eravamo affannati per salvare i
tre cuccioli in più con un innaturale biberon? Non riuscivo a scacciare il
turbamento.
“Non c’è niente da fare, il cellulare è andato. È colpa mia, dovevo stare
più attento. Poco male, era un modello che non valeva molto” conclusi
rivolgendomi a Patrizia. Nonostante tutto non avevo perso completamente la speranza; però, dopo essere
ritornati in barca, averlo messo al sole e successivamente dentro il forno,
dovetti ammettere che il cellulare se n’era andato per sempre.
Almeno una cosa
positiva c’era: il tipo era ancora seduto sul sedile della sua barca. Era in
salvo, e questo era un dato di fatto. La doccia imprevista lo aveva solo in
parte fatto riprendere dalla sbronza.
“Ancora
un’oretta, minimo” suggerii all’unica guardia
del corpo rimasta, un giovane che adesso lo sorvegliava. “Fra un’oretta
starà meglio. Adesso non è in grado di guidare.” Il giovane assentì con un
cenno del capo.
Poco dopo, il
poveraccio si mosse sul sedile in direzione del motore e cercò di tirare verso
di sé la corda per accenderlo. Gli strappai di mano la maniglia.
“No!” lo
avvisai. “Non ancora” e lo spinsi indietro con fermezza. Proprio non riusciva a
rendersi conto dello stato in cui si trovava. Non aveva né equilibrio, né
coordinazione e la sua capacità di giudizio era limitata.
Posso
testimoniare di persona come una mente perturbata riesca
spesso a trascinare con sé anche il corpo. Infatti, dopo un po’ fui costretto
ad assentarmi in tutta fretta, non prima però di aver raccomandato a uno dei
presenti di dare un’occhiata al tipo. “Vado e vengo” gli assicurai. “Per
favore, non farlo andar via. Si ucciderebbe o ucciderebbe qualcun altro.”
Non ci misi più
di tre minuti. Mentre ritornavo, udii il rumore di un motore. “Oh nooooo! Dio,
fa che non sia lui!” mi venne da dire. Ma Dio, come al solito, sembrava essere
occupato altrove o forse era geloso perché avevo salvato l’uomo contro la Sua
volontà. Che fosse un “Dio geloso” ne ero sicuro perché così si è definito Lui
stesso nella Bibbia.
Quando scesi sul
pontile, un giovane allungò il braccio e indicò con la mano la barca che si
allontanava: nessuno aveva cercato di impedirgli di partire. Mi afferrai il
capo con le mani e avrei voluto sbatterlo contro il muro per la sciocchezza di
aver confidato in gente irresponsabile. Ma, d’altro canto, non avrei potuto fare
altrimenti: l’urgenza di andare in bagno non mi aveva lasciato scelta…
La barca stava
adesso zigzagando pericolosamente, cambiando direzione ogni dieci metri, con la
prua nell’aria: dava proprio l’impressione di essere ubriaca. Non c’era che da
aspettarsi l’ovvia tragedia da un momento all’altro. Mi sentii responsabile.
Avrei mai potuto perdonarmi di aver confidato in un branco di idioti dalla
coscienza sottosviluppata? Ero furioso con il mondo intero, ma soprattutto con
me stesso. Che ironia. Il tipo che avevo salvato stava per ricadere nell’acqua,
dove mi sarebbe affogato sotto gli occhi, e stavolta, data la distanza, non
potevo fare proprio nulla. Nessuno, proprio nessuno, a questo punto avrebbe
potuto fare nulla.
Continuai a
seguire quella scena triste con trepidazione e angoscia. Era solo una questione di tempo. Che sensazione terribile! Come avrei
potuto vivere con quel ricordo?
All’improvviso,
accadde: la barca, che aveva rischiato di rovesciarsi più volte, era adesso
perfettamente ferma a trecento metri dal pontile. Il guidatore cercava
febbrilmente di riaccendere il motore! Ma il motore mostrava più giudizio del
suo padrone e si rifiutava di partire: rifiutava di portare il guidatore verso
una morte sicura. In realtà questo è un modo come un altro di dire che era
rimasto senza benzina, cosa non rara a vedersi sul fiume.
Passarono forse
cinque minuti, ma il tempo si dilatò in un’eternità. Poi, da qualche parte,
apparve un buon samaritano che si avvicinò con la sua imbarcazione; gli gettò
una corda e lo rimorchiò in una piccola baia dall’altra parte del fiume, un
chilometro più lontano. Che spreco di adrenalina in un lasso di tempo
relativamente breve!
“Ho bisogno di
una birra” esternai a Patrizia, “forse di un paio. Mi fai compagnia?”
“Perché no?
Dimentichiamo quello che è accaduto e guardiamo cosa fanno i cuccioli. Sono così
carini!”
Lasciammo il
fiume qualche tempo dopo, alla volta del Belize. Tre mesi più tardi, quando
ritornammo, andammo a salutare Miriam, la quale ci diede una cattiva notizia:
“Qualche giorno
dopo la vostra partenza, sentii un trambusto là fuori. Stavo servendo un
cliente, per cui ci misi un po’ a uscire e rendermi conto di persona. C’era un
bambino sdraiato supino sul pontile, immobile, e un altro in piedi vicino a
lui. Il pontile era affollato, ma nessuno sapeva che cosa fare. Mi informarono
che i due bambini stavano giocando, quando uno di loro cadde (o fu spinto)
nell’acqua. Le persone che lo tirarono fuori forse esitarono troppo a lungo a
tuffarsi in suo aiuto (sic!). Era
ancora vivo? Difficile dirlo. Non è da escludere che una respirazione bocca a
bocca avrebbe potuto salvargli la vita. Mi sentii colpevole” aggiunse, “di non
conoscere quella tecnica.”
Fu senza dubbio
a causa di un ingiustificato senso di colpa che Miriam, in nostra assenza,
aveva cominciato a seguire un corso da infermiera nel tempo libero: il primo
giorno, ci disse di aver chiesto istruzioni su come eseguire una respirazione
bocca a bocca!
“Speriamo che
non succeda mai più” rivelò. “In caso contrario, adesso sarei pronta… Forse
riuscirò a perdonarmi… un giorno.”
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