Per quanto si possa argomentare, ci sono esperienze
negate ai comuni mortali: una di queste è conversare di persona con gli dèi. O
con il diavolo. È forse per l’ovvia impossibilità che un essere finito come l’uomo riesca a stabilire un
qualsiasi rapporto con un infinito, un assoluto, che fin dalla remota antichità
le più grandi religioni del pianeta hanno creato degli intermediari fra il “dio
supremo” e l’uomo, nella figura di semidei – metà uomini e metà dèi – i quali,
grazie a questa loro doppia natura, fossero in grado di comunicare e
intercedere in favore dell’uomo presso Dio stesso.
Stando così le cose, perfino agli amanti d’opera non
resta che accontentarsi di un semidio. Quindi, per essere precisi, non divo (dio) ma semidivo. L’apparizione, tra loro, di un semidio con cui poter
conversare e al quale porre domande, sarebbe comunque un’esperienza
trascendente al grado supremo. Nemmeno a farlo apposta, a me è capitato...
Nel corso del 1990, in testa alla lista delle nostre
priorità figurava l’assistere alla stagione operistica in uno dei numerosi
teatri americani di prestigio mondiale. La nostra scelta era caduta sul teatro
lirico di San Francisco, perché la città è a misura d’uomo, facile da percorrere
con un veicolo e gradevole per la bellezza del paesaggio sia marino sia
terrestre, comprendente non solo la pittoresca baia resa famosa dal Golden Gate
Bridge, ma anche le tipiche case vittoriane, lungo i saliscendi della città
vecchia, dai quali a tratti si apre alla vista il mare sottostante.
Alcune curiosità hanno reso San Francisco particolarmente
famosa: Lombard Street, una strada unica al mondo, che vanta una sezione lunga
un isolato e comprende otto ripidissimi e strettissimi tornanti; il pontile 39
sul lungomare, che con i suoi leoni marini, arrivati spontaneamente e colà
stabilitisi con l’aiuto di un’intelligente politica municipale, rappresenta una
sosta obbligata per il turista; gli artisti ambulanti e la musica dal vivo; i
pittoreschi tram dagli allegri colori, che corrono su rotaie su e giù per le
colline.
La città è dotata di monumenti storici e peculiarità
turistiche troppo numerosi perfino da enumerare. Per nominarne una sola: il più
vecchio e pittoresco quartiere cinese (Chinatown) del Nord America, una
microcosmica Asia, colma di erboristerie, templi, tetti a pagoda e sfilate di
draghi.
Un piccolo autocaravan nel quale cucinare i pasti,
riposare durante il giorno e dormire di notte, a portata di mano per consultare
guide e dépliant e andare in bagno, è l’ideale per trasformare una lunga visita
in un soggiorno gradevole, rilassante, istruttivo ed economico.
Conoscevamo già, da precedenti visite, le procedure dei
matinée domenicali. Ci si doveva mettere in fila fuori dal teatro, prima
dell’apertura delle porte alle undici, orario in cui si cominciavano a vendere
i biglietti. Però, per garantirsi un buon posto in piedi nel loggione, era
consigliabile trovarsi già in fila alle nove.
Dopo aver acquistato il biglietto, che era accompagnato
da un dépliant esplicativo dell’opera in questione, ci si doveva posizionare di
nuovo in fila, questa volta all’interno dell’atrio. Allontanarsi per qualche
tempo non costituiva un problema, bastava lasciare il dépliant sul pavimento.
Nel caso qualcun altro si fosse assentato permanentemente, lasciando sulle
piastrelle lo spazio vuoto in precedenza occupato dal suo opuscolo informativo,
coloro che erano rimasti in coda avrebbero spostato in avanti i dépliant
successivi, ricostituendo in tal modo una fila continua.
A mezzogiorno, un’ora prima dell’inizio dello spettacolo,
venivano aperte le porte interne e si consentiva al pubblico di entrare nel
teatro vero e proprio.
C’erano (e non mi meraviglierei se ci fossero ancora!)
quattro o cinque rampe di scale per raggiungere il loggione. II dépliant
precisava che era vietato correre su per le scale. La strategia ottimale
consisteva nell’impegnarsi in una marcia al limite della corsa: salvo il fatto
che, se un pedante giudice olimpico avesse messo il naso dentro, molti avrebbero
scoperto di essere finiti nella lista degli squalificati. L’obiettivo era di
arrivare prima degli altri per conquistarsi la prima fila, contro il parapetto:
il che avrebbe consentito una visuale libera del palcoscenico e, allo stesso
tempo, di appoggiarsi contro la ringhiera del balcone.
Quella mattina, Patrizia non poté purtroppo accompagnarmi
a teatro perché doveva onorare l’impegno di dare il benvenuto a dei parenti che
arrivavano dall’Italia; di conseguenza, con molto rammarico si rassegnò a rimandare
ad altra occasione il piacere di ascoltare uno dei nostri cantanti favoriti, il
basso Samuel Ramey, nel ruolo del protagonista. Però aveva insistito affinché
io andassi.
È difficile sopravvalutare l’importanza e l’incidenza di
questo cantante nel panorama operistico. Un buon numero di opere dimenticate di
Rossini, che erano rimaste nel cassetto per oltre un secolo, per mancanza di un
“basso cantante” adatto alla partitura estremamente impegnativa, trovò nelle
qualità vocali di Ramey l’interprete ideale. Grazie al suo contributo, cominciò
una rinascita di quelle opere nell’annuale festival di Pesaro, città natale di
Rossini, che poi si diffuse nei teatri di tutto il mondo. L’opera che avrebbe
cantato quel giorno non era un’opera di Rossini, ma tuttavia un capolavoro
altrettanto importante, il Don Chisciotte
di Massenet, un intenso dramma di un uomo che persegue i suoi ideali contro
ogni probabilità di successo: un’opera che non ero il solo ad attendere con una
certa aspettativa.
Anche Judith e Dee, due soprano che avevamo conosciuto
nel loggione nei matinée precedenti, e che ci avevano confidato di cantare
romanze d’opera per beneficenza, avevano i loro buoni motivi per aspettare con
trepidazione l’esibizione di Ramey.
La prima era bionda, gracile, vivace e loquace:
nonostante fosse carina, non poteva però competere con la sua amica, di qualche
anno più matura. Dee poteva essere sulla quarantina: aveva i capelli neri,
ondulati, tagliati sulla spalla e adorni con una rosa rossa ancora fragrante. I
suoi vivaci occhi castani erano valorizzati da un tocco di ombretto verde
scuro, mentre le labbra sensuali apparivano ammorbidite da un rossetto rosa
molto leggero. Sotto la luce fioca si muoveva con grazia, avvolta in un abito
da sera che ne evidenziava le forme. Intorno al collo, sfoggiava un’elegante
collana verde chiaro che armonizzava alla perfezione sia col vestito sia con il
trucco.
Nell’intervallo dopo il primo atto, in seguito al mio
positivo commento sull’esibizione di Ramey, Dee mi disse:
“Dopo lo spettacolo, forse andremo dietro le quinte per
salutare Samuel. Se troviamo un biglietto d’invito, vieni con noi?”
“Eccome! Sarebbe un enorme piacere” replicai, notando
subito che lo chiamava per nome. “Grazie per l’invito, è molto carino da parte
vostra. Peccato che Patrizia non abbia potuto presenziare stavolta, sarebbe
piaciuto molto anche a lei.”
“Devi sapere” incominciò Judith senza preamboli, “che Dee
è innamorata di Samuel.” Dee non mostrò alcun imbarazzo. “Mostra a Fabrizio la
collana che hai al collo” aggiunse. Dee si spostò verso la luce. I suoi occhi
assunsero un’intensità particolare.
“È bellissima. Ottimo gusto” fu il mio sincero
apprezzamento.
“Non c’è dubbio, ma sai cos’è?” chiese Judith.
“Non ne ho la più pallida idea, scusate.”
“È una copia perfetta della collana che la moglie di
Samuel portava al collo in una fotografia pubblicata nella famosa rivista... ”
e nominò entusiasta un rotocalco di cui io, invece, ignoravo totalmente
l’esistenza.
Non osai chiederle quanto le era costata. Dee non
mostrava alcun disagio. Sotto le luci soffuse del loggione era più bella che
mai. Diedi un’altra occhiata al gioiello, poi gli occhi mi si posarono sul
vestito da sera. Non potei fare a meno di ridacchiare dentro di me. Questo è proprio uno di quei casi,
pensavo, in cui l’abito è stato scelto
per amalgamarsi con una collana, non viceversa!
Judith mi mostrò poi un foglio incorniciato, nel quale
riconobbi la parte posteriore, bianca, del solito dépliant del teatro di San
Francisco. Notai, inoltre, che c’era scritto qualcosa.
“Questa è la calligrafia di Samuel” continuò Judith. “Sei
mesi fa, dopo uno dei suoi spettacoli, sono andata dietro le quinte e ho
chiesto a Samuel un autografo per Dee.”
“Capisco, deve essere molto prezioso per te” dissi,
rivolgendomi a Dee. “Vedo che ne fai tesoro come di un famoso quadro d’autore:
incorniciato e sotto vetro!”
Le luci si abbassarono. Il silenzio cadde di nuovo sul
teatro. Il secondo atto stava per cominciare.
Tutto andò come previsto, l’opera fu un successo e Ramey,
come al solito, superlativo. Il sipario era appena calato per l’ultima volta,
fra diluvi di applausi, quando una di loro mi bisbigliò all’orecchio: “Seguici.
Non abbiamo trovato un biglietto d’invito, ma cercheremo di entrare lo stesso.
Conosciamo la strada.” Ebbi una sensazione vagamente familiare: tutto il mondo è paese, mi sembrava
quasi di essere ritornato in Italia!
Seguii fiducioso le mie eccitatissime amiche e, senza
rendermene conto, mi ritrovai in una lunghissima stanza che assomigliava a un
corridoio. Ci fermammo appena oltre la porta che una di loro aveva richiuso
alle sue spalle. Solo allora intravvidi parte del palcoscenico sulla mia
sinistra; alla mia destra, una parete disadorna. La stanza era ben illuminata
da un finestrone vicino al soffitto.
Eravamo le ultime di circa una dozzina di persone, tutte
in attesa del divo: era chiaro che sarebbe apparso dalla porta all’estremità
opposta.
Trascorsero venti minuti, durante i quali mi feci
coinvolgere dalle mie amiche in una piacevole conversazione che verteva sulle
nostre preferenze dei cantanti lirici nei ruoli più consoni alle loro
caratteristiche vocali.
“Siete proprio sicure che si presenterà?” chiesi, dopo un
considerevole lasso di tempo.
“Verrà, non preoccuparti. È la normale routine.”
La porta in fondo al corridoio finalmente si aprì e un
Ramey sorridente e riposato entrò arrestandosi pochi passi più avanti, di
fronte alla gente in piedi.
Mi guardai intorno. Tutti erano abbigliati formalmente. I
signori indossavano lo smoking, le signore abiti da sera. Io ero l’unico in
jeans e maglietta. Se avessi saputo in anticipo che il mio destino mi avrebbe
condotto dietro le quinte, sarei stato felice di noleggiare jeans firmati. In
ogni caso, guardando la cosa con occhio critico, mi resi conto che non ero
l’unico privo di smoking. Nemmeno Ramey ne indossava uno. Era vestito in
pantaloni attillati di pelle marrone scuro, abbinati a una giacca di pelle
dello stesso colore: un abbigliamento semplice e di buon gusto, nel quale
sembrava a suo agio.
Se ne stava eretto con le gambe ben bilanciate sui piedi,
una posizione che evidenziava la sua già alta statura, e con le mani
intrecciate all’altezza della vita. Sorrideva volgendo il capo lentamente intorno,
all’apparenza contento di prendersi cura dei suoi ammiratori.
C’era una gradevole atmosfera di attesa che ricordava le
riunioni di famiglia. Mentre un signore di mezza età – di considerevole stazza,
la quale non gli consentiva di chiudere l’ultimo bottone della giacca dello
smoking – si fece avanti stringendo la
mano del cantante con la disinvoltura di uno che lo conosceva bene, la mia
mente ripercorreva l’interpretazione di Ramey della mia aria preferita. Da solo,
sul palcoscenico, riusciva a riempire completamente lo spazio scenico con la
sua voce e la recitazione: un dono di cui solo i più grandi sono dotati. Nel
corridoio, dietro le quinte e tra la gente, la sua presenza era altrettanto
accattivante.
Un cambiamento di voce mise fine al mio sogno a occhi
aperti. L’allegra risata della moglie del signore corpulento accentrò la mia
attenzione sullo scambio di complimenti fra lei e il cantante.
Poi fu il turno di un’altra signora di mezza età, che si
fece avanti tra un gruppo di tre persone, salutò Ramey con un forte accento
tedesco e, informandolo di aver registrato l’opera, gli chiese se voleva
ricevere la cassetta a casa, o altrove, il giorno seguente.
“A casa va bene, grazie” rispose il cantante gentilmente,
quasi con fare timido. Di You-Tube, ancora non se ne parlava.
Un’altra mezza dozzina di persone si presentò o fu
presentata all’artista, il quale, stringendo la mano a destra e a manca,
avanzava piano piano nella nostra direzione.
Adesso stava lì, proprio di fronte a noi, che eravamo le
ultime tre persone. Io avevo supposto che le ragazze si sarebbero fatte avanti
per introdurre prima loro stesse e poi me. Ma ciò non accadeva. Forse tradite
dall’emozione, e bloccate entrambe in un profondo trance contemplativo, non si
rendevano conto che il tempo passava e Ramey aspettava. Aspettava e sorrideva.
Un sorriso che irradiava fiducia.
Fu a questo punto che mi feci avanti e mi presentai.
Scandendo lentamente le parole, sperando che avrebbe compreso almeno
l’essenziale, pronunciai in italiano:
“Sono venuto da Milano appositamente per sentirla
cantare!”
“Oh, grazie” disse con trasporto e con un bel sorriso.
“Eccellente performance. Come sempre, del resto."
Ringraziò di nuovo. Aveva uno sguardo riservato. Vedendo
che aveva compreso il mio italiano al rallentatore, proseguii così: “Mi
permetta di presentarle le mie due amiche americane.”
Poi, sperando che nessuno dei presenti, tanto meno le
ragazze, capisse ciò che stavo per dire, quando fu il turno di Dee, aggiunsi a
voce bassa: “Questa è Dee, ed è… come dire… innamorata di Lei.”
La mia impertinenza restò impunita, perché nessuna delle
due sembrò aver capito e Ramey non commentò.
A questo punto, Dee tirò fuori dalla borsa una maglietta
dell’Opera House di San Francisco, un pennarello e chiese un autografo. Ramey
sembrava disposto a concederglielo. Volgendo lo sguardo intorno, ci accorgemmo
che non c’era un luogo adatto su cui porre la maglietta. Non c’era mobilio,
nemmeno una sedia, solo le pareti e il pavimento. Le mie amiche cominciarono a
dare segni di nervosismo.
“Qui” dissi con tono trionfale, mostrando loro la
schiena. Dee sorrise sollevata, affrettandosi a posare la maglietta sulle mie
spalle e a passare a Ramey il pennarello.
Appena sentii la pressione sulla pelle, a voce bassa e
lentamente, quasi stessi vedendo quello che scriveva, dissi in inglese: “Alla
mia a-... ” con rapidissima intuizione e incredibile tempismo, Dee mi tappò la
bocca con la mano, senza tuttavia riuscire a impedirmi del tutto di completare
la parola, che uscì distorta ma comprensibile: “a-mata” (be-loved).
Tutti risero, pur ignorando la storia reale. Ramey
sorrise, con un’ombra d’imbarazzo.
Con la coda dell’occhio vidi Dee mentre teneva in mano il
dépliant incorniciato che mi aveva mostrato, per un attimo, dopo il primo atto.
Era chiaro che aveva intenzione di mostrarlo al suo idolo. Anche Ramey deve
aver avuto la stessa impressione perché si voltò verso di lei. Ignoro se notò
la collana; se la notò, non lo diede a vedere. Mentre Dee stava per porgergli
un autografo che lui aveva quasi sicuramente dimenticato da tempo, fui colpito
dai suoi occhi penetranti e dagli alti zigomi, il marchio di una personalità
volitiva. In notevole contrasto con il suo abituale, timido, sorriso.
Un attimo dopo, Dee gli porse il quadretto.
Ramey lo prese in mano e lo sollevò.
“Lo riconosce?” chiese Dee, riferendosi allo scritto.
Il cantante lesse (o rilesse) in silenzio le parole sotto
il vetro protettore ed esitò. Quando aprì la bocca, senza distogliere lo
sguardo dalla sua scrittura, disse in tono neutro, privo di emozioni:
“Qualcuno me l’ha fatto scrivere.” Le parole vennero
fuori con semplicità disarmante. Era chiaro: aveva ricordato, o intuito, nel
modo giusto. E quel qualcuno non poteva essere che Judith, la quale sei mesi
prima si era presentata dietro le quinte per fargli scrivere quella dedica.
Quell’osservazione, malgrado il suo atteggiamento
indifferente, stuzzicò la mia curiosità di leggere quello che c’era scritto.
Anticipai qualcosa di esplosivo. Mi domandavo: Che cosa gli aveva suggerito di scrivere Judith sei mesi prima, per
conto di Dee? Non vedevo l’ora di sapere, ma dovevo aspettare.
Nel frattempo, chiesi a Ramey se potevo fargli una
domanda.
“Certo!” esclamò con il solito, bellissimo, sorriso.
Passai all’inglese:
“La Casa Editrice Fabbri, qualche tempo fa, ha pubblicato
una esaustiva selezione di opere famose, coprendo un intero secolo e scegliendo
quelli che a suo criterio sono gli interpreti più rappresentativi per ciascuna
opera. Lei fu scelto nell’interpretazione del Maometto II. La mia domanda è: si sente ben rappresentato come
protagonista di quest’opera?”
Rifletté un momento, poi rispose: “Sì.” Un attimo dopo
sembrò ripensarci e disse quello che la maggior parte dei suoi ammiratori
avrebbe voluto sentirgli dire: “Forse… Attila.”
Ne fui contento, ma non commentai. Assentii con un
semplice cenno del capo e un sorriso.
Venne il momento di congedarci. Mentre ci aprivamo il
passo fra un folto gruppo di eccitati ammiratori che si accalcavano fuori dalla
porta di servizio, notai che molti allungavano il collo, incapaci di
determinare chi era uscito sulla strada. Non videro altro che noi, ma gridarono
e applaudirono lo stesso all’impazzata.
“Non a me. Risparmiate i vostri applausi per dopo. Sta
per arrivare!” dissi con il tono di una bonaria presa in giro.
Quando fummo di nuovo soli, chiesi: “Dee, fammi vedere
che cosa c’è di così strano in quel quadretto da provocare l’insolito commento
di Ramey.”
Mi passò la cornice. La dedica recitava:
«A
Dee,
Che
ama il mio petto tanto quanto la mia voce.
Samuel
Ramey.»
Scoppiai a ridere. E tuttavia non c’era niente di osceno,
allusivo o di cattivo gusto in tutto questo. Qualsiasi amante d’opera avrebbe
immediatamente capito perché Ramey era diventato famoso nell’interpretazione
del ruolo del Diavolo in opere come Mefistofele,
Robert le Diable, Il Dottor Faust e La Dannazione di Faust, in cui appariva regolarmente sulla scena a
petto nudo! C’era qualcosa di strano? Per niente! Infatti chi, se non il
diavolo, poteva arrogarsi il diritto di apparire a torso nudo sul palcoscenico?
Samuel Ramey come Mefistofele |
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