martedì 9 giugno 2020

CITTADINI DEL MONDO N° 19: Appuntamento con il diavolo


Per quanto si possa argomentare, ci sono esperienze negate ai comuni mortali: una di queste è conversare di persona con gli dèi. O con il diavolo. È forse per l’ovvia impossibilità che un essere finito come l’uomo riesca a stabilire un qualsiasi rapporto con un infinito, un assoluto, che fin dalla remota antichità le più grandi religioni del pianeta hanno creato degli intermediari fra il “dio supremo” e l’uomo, nella figura di semidei – metà uomini e metà dèi – i quali, grazie a questa loro doppia natura, fossero in grado di comunicare e intercedere in favore dell’uomo presso Dio stesso.


Stando così le cose, perfino agli amanti d’opera non resta che accontentarsi di un semidio. Quindi, per essere precisi, non divo (dio) ma semidivo. L’apparizione, tra loro, di un semidio con cui poter conversare e al quale porre domande, sarebbe comunque un’esperienza trascendente al grado supremo. Nemmeno a farlo apposta, a me è capitato...

Nel corso del 1990, in testa alla lista delle nostre priorità figurava l’assistere alla stagione operistica in uno dei numerosi teatri americani di prestigio mondiale. La nostra scelta era caduta sul teatro lirico di San Francisco, perché la città è a misura d’uomo, facile da percorrere con un veicolo e gradevole per la bellezza del paesaggio sia marino sia terrestre, comprendente non solo la pittoresca baia resa famosa dal Golden Gate Bridge, ma anche le tipiche case vittoriane, lungo i saliscendi della città vecchia, dai quali a tratti si apre alla vista il mare sottostante.

Alcune curiosità hanno reso San Francisco particolarmente famosa: Lombard Street, una strada unica al mondo, che vanta una sezione lunga un isolato e comprende otto ripidissimi e strettissimi tornanti; il pontile 39 sul lungomare, che con i suoi leoni marini, arrivati spontaneamente e colà stabilitisi con l’aiuto di un’intelligente politica municipale, rappresenta una sosta obbligata per il turista; gli artisti ambulanti e la musica dal vivo; i pittoreschi tram dagli allegri colori, che corrono su rotaie su e giù per le colline.

La città è dotata di monumenti storici e peculiarità turistiche troppo numerosi perfino da enumerare. Per nominarne una sola: il più vecchio e pittoresco quartiere cinese (Chinatown) del Nord America, una microcosmica Asia, colma di erboristerie, templi, tetti a pagoda e sfilate di draghi.

Un piccolo autocaravan nel quale cucinare i pasti, riposare durante il giorno e dormire di notte, a portata di mano per consultare guide e dépliant e andare in bagno, è l’ideale per trasformare una lunga visita in un soggiorno gradevole, rilassante, istruttivo ed economico.

Conoscevamo già, da precedenti visite, le procedure dei matinée domenicali. Ci si doveva mettere in fila fuori dal teatro, prima dell’apertura delle porte alle undici, orario in cui si cominciavano a vendere i biglietti. Però, per garantirsi un buon posto in piedi nel loggione, era consigliabile trovarsi già in fila alle nove.

Dopo aver acquistato il biglietto, che era accompagnato da un dépliant esplicativo dell’opera in questione, ci si doveva posizionare di nuovo in fila, questa volta all’interno dell’atrio. Allontanarsi per qualche tempo non costituiva un problema, bastava lasciare il dépliant sul pavimento. Nel caso qualcun altro si fosse assentato permanentemente, lasciando sulle piastrelle lo spazio vuoto in precedenza occupato dal suo opuscolo informativo, coloro che erano rimasti in coda avrebbero spostato in avanti i dépliant successivi, ricostituendo in tal modo una fila continua.

A mezzogiorno, un’ora prima dell’inizio dello spettacolo, venivano aperte le porte interne e si consentiva al pubblico di entrare nel teatro vero e proprio.

C’erano (e non mi meraviglierei se ci fossero ancora!) quattro o cinque rampe di scale per raggiungere il loggione. II dépliant precisava che era vietato correre su per le scale. La strategia ottimale consisteva nell’impegnarsi in una marcia al limite della corsa: salvo il fatto che, se un pedante giudice olimpico avesse messo il naso dentro, molti avrebbero scoperto di essere finiti nella lista degli squalificati. L’obiettivo era di arrivare prima degli altri per conquistarsi la prima fila, contro il parapetto: il che avrebbe consentito una visuale libera del palcoscenico e, allo stesso tempo, di appoggiarsi contro la ringhiera del balcone.

Quella mattina, Patrizia non poté purtroppo accompagnarmi a teatro perché doveva onorare l’impegno di dare il benvenuto a dei parenti che arrivavano dall’Italia; di conseguenza, con molto rammarico si rassegnò a rimandare ad altra occasione il piacere di ascoltare uno dei nostri cantanti favoriti, il basso Samuel Ramey, nel ruolo del protagonista. Però aveva insistito affinché io andassi.

È difficile sopravvalutare l’importanza e l’incidenza di questo cantante nel panorama operistico. Un buon numero di opere dimenticate di Rossini, che erano rimaste nel cassetto per oltre un secolo, per mancanza di un “basso cantante” adatto alla partitura estremamente impegnativa, trovò nelle qualità vocali di Ramey l’interprete ideale. Grazie al suo contributo, cominciò una rinascita di quelle opere nell’annuale festival di Pesaro, città natale di Rossini, che poi si diffuse nei teatri di tutto il mondo. L’opera che avrebbe cantato quel giorno non era un’opera di Rossini, ma tuttavia un capolavoro altrettanto importante, il Don Chisciotte di Massenet, un intenso dramma di un uomo che persegue i suoi ideali contro ogni probabilità di successo: un’opera che non ero il solo ad attendere con una certa aspettativa.

Anche Judith e Dee, due soprano che avevamo conosciuto nel loggione nei matinée precedenti, e che ci avevano confidato di cantare romanze d’opera per beneficenza, avevano i loro buoni motivi per aspettare con trepidazione l’esibizione di Ramey.

La prima era bionda, gracile, vivace e loquace: nonostante fosse carina, non poteva però competere con la sua amica, di qualche anno più matura. Dee poteva essere sulla quarantina: aveva i capelli neri, ondulati, tagliati sulla spalla e adorni con una rosa rossa ancora fragrante. I suoi vivaci occhi castani erano valorizzati da un tocco di ombretto verde scuro, mentre le labbra sensuali apparivano ammorbidite da un rossetto rosa molto leggero. Sotto la luce fioca si muoveva con grazia, avvolta in un abito da sera che ne evidenziava le forme. Intorno al collo, sfoggiava un’elegante collana verde chiaro che armonizzava alla perfezione sia col vestito sia con il trucco.

Nell’intervallo dopo il primo atto, in seguito al mio positivo commento sull’esibizione di Ramey, Dee mi disse:

“Dopo lo spettacolo, forse andremo dietro le quinte per salutare Samuel. Se troviamo un biglietto d’invito, vieni con noi?”

“Eccome! Sarebbe un enorme piacere” replicai, notando subito che lo chiamava per nome. “Grazie per l’invito, è molto carino da parte vostra. Peccato che Patrizia non abbia potuto presenziare stavolta, sarebbe piaciuto molto anche a lei.”

“Devi sapere” incominciò Judith senza preamboli, “che Dee è innamorata di Samuel.” Dee non mostrò alcun imbarazzo. “Mostra a Fabrizio la collana che hai al collo” aggiunse. Dee si spostò verso la luce. I suoi occhi assunsero un’intensità particolare.

“È bellissima. Ottimo gusto” fu il mio sincero apprezzamento.

“Non c’è dubbio, ma sai cos’è?” chiese Judith.

“Non ne ho la più pallida idea, scusate.”

“È una copia perfetta della collana che la moglie di Samuel portava al collo in una fotografia pubblicata nella famosa rivista... ” e nominò entusiasta un rotocalco di cui io, invece, ignoravo totalmente l’esistenza.

Non osai chiederle quanto le era costata. Dee non mostrava alcun disagio. Sotto le luci soffuse del loggione era più bella che mai. Diedi un’altra occhiata al gioiello, poi gli occhi mi si posarono sul vestito da sera. Non potei fare a meno di ridacchiare dentro di me. Questo è proprio uno di quei casi, pensavo, in cui l’abito è stato scelto per amalgamarsi con una collana, non viceversa!

Judith mi mostrò poi un foglio incorniciato, nel quale riconobbi la parte posteriore, bianca, del solito dépliant del teatro di San Francisco. Notai, inoltre, che c’era scritto qualcosa.

“Questa è la calligrafia di Samuel” continuò Judith. “Sei mesi fa, dopo uno dei suoi spettacoli, sono andata dietro le quinte e ho chiesto a Samuel un autografo per Dee.”

“Capisco, deve essere molto prezioso per te” dissi, rivolgendomi a Dee. “Vedo che ne fai tesoro come di un famoso quadro d’autore: incorniciato e sotto vetro!”

Le luci si abbassarono. Il silenzio cadde di nuovo sul teatro. Il secondo atto stava per cominciare.

Tutto andò come previsto, l’opera fu un successo e Ramey, come al solito, superlativo. Il sipario era appena calato per l’ultima volta, fra diluvi di applausi, quando una di loro mi bisbigliò all’orecchio: “Seguici. Non abbiamo trovato un biglietto d’invito, ma cercheremo di entrare lo stesso. Conosciamo la strada.” Ebbi una sensazione vagamente familiare: tutto il mondo è paese, mi sembrava quasi di essere ritornato in Italia!

Seguii fiducioso le mie eccitatissime amiche e, senza rendermene conto, mi ritrovai in una lunghissima stanza che assomigliava a un corridoio. Ci fermammo appena oltre la porta che una di loro aveva richiuso alle sue spalle. Solo allora intravvidi parte del palcoscenico sulla mia sinistra; alla mia destra, una parete disadorna. La stanza era ben illuminata da un finestrone vicino al soffitto.

Eravamo le ultime di circa una dozzina di persone, tutte in attesa del divo: era chiaro che sarebbe apparso dalla porta all’estremità opposta.

Trascorsero venti minuti, durante i quali mi feci coinvolgere dalle mie amiche in una piacevole conversazione che verteva sulle nostre preferenze dei cantanti lirici nei ruoli più consoni alle loro caratteristiche vocali.

“Siete proprio sicure che si presenterà?” chiesi, dopo un considerevole lasso di tempo.

“Verrà, non preoccuparti. È la normale routine.”

La porta in fondo al corridoio finalmente si aprì e un Ramey sorridente e riposato entrò arrestandosi pochi passi più avanti, di fronte alla gente in piedi.

Mi guardai intorno. Tutti erano abbigliati formalmente. I signori indossavano lo smoking, le signore abiti da sera. Io ero l’unico in jeans e maglietta. Se avessi saputo in anticipo che il mio destino mi avrebbe condotto dietro le quinte, sarei stato felice di noleggiare jeans firmati. In ogni caso, guardando la cosa con occhio critico, mi resi conto che non ero l’unico privo di smoking. Nemmeno Ramey ne indossava uno. Era vestito in pantaloni attillati di pelle marrone scuro, abbinati a una giacca di pelle dello stesso colore: un abbigliamento semplice e di buon gusto, nel quale sembrava a suo agio.

Se ne stava eretto con le gambe ben bilanciate sui piedi, una posizione che evidenziava la sua già alta statura, e con le mani intrecciate all’altezza della vita. Sorrideva volgendo il capo lentamente intorno, all’apparenza contento di prendersi cura dei suoi ammiratori.

C’era una gradevole atmosfera di attesa che ricordava le riunioni di famiglia. Mentre un signore di mezza età – di considerevole stazza, la quale non gli consentiva di chiudere l’ultimo bottone della giacca dello smoking  – si fece avanti stringendo la mano del cantante con la disinvoltura di uno che lo conosceva bene, la mia mente ripercorreva l’interpretazione di Ramey della mia aria preferita. Da solo, sul palcoscenico, riusciva a riempire completamente lo spazio scenico con la sua voce e la recitazione: un dono di cui solo i più grandi sono dotati. Nel corridoio, dietro le quinte e tra la gente, la sua presenza era altrettanto accattivante.

Un cambiamento di voce mise fine al mio sogno a occhi aperti. L’allegra risata della moglie del signore corpulento accentrò la mia attenzione sullo scambio di complimenti fra lei e il cantante.

Poi fu il turno di un’altra signora di mezza età, che si fece avanti tra un gruppo di tre persone, salutò Ramey con un forte accento tedesco e, informandolo di aver registrato l’opera, gli chiese se voleva ricevere la cassetta a casa, o altrove, il giorno seguente.

“A casa va bene, grazie” rispose il cantante gentilmente, quasi con fare timido. Di You-Tube, ancora non se ne parlava.

Un’altra mezza dozzina di persone si presentò o fu presentata all’artista, il quale, stringendo la mano a destra e a manca, avanzava piano piano nella nostra direzione.

Adesso stava lì, proprio di fronte a noi, che eravamo le ultime tre persone. Io avevo supposto che le ragazze si sarebbero fatte avanti per introdurre prima loro stesse e poi me. Ma ciò non accadeva. Forse tradite dall’emozione, e bloccate entrambe in un profondo trance contemplativo, non si rendevano conto che il tempo passava e Ramey aspettava. Aspettava e sorrideva. Un sorriso che irradiava fiducia.

Fu a questo punto che mi feci avanti e mi presentai. Scandendo lentamente le parole, sperando che avrebbe compreso almeno l’essenziale, pronunciai in italiano:

“Sono venuto da Milano appositamente per sentirla cantare!”

“Oh, grazie” disse con trasporto e con un bel sorriso.

“Eccellente performance. Come sempre, del resto."

Ringraziò di nuovo. Aveva uno sguardo riservato. Vedendo che aveva compreso il mio italiano al rallentatore, proseguii così: “Mi permetta di presentarle le mie due amiche americane.”

Poi, sperando che nessuno dei presenti, tanto meno le ragazze, capisse ciò che stavo per dire, quando fu il turno di Dee, aggiunsi a voce bassa: “Questa è Dee, ed è… come dire… innamorata di Lei.”

La mia impertinenza restò impunita, perché nessuna delle due sembrò aver capito e Ramey non commentò.

A questo punto, Dee tirò fuori dalla borsa una maglietta dell’Opera House di San Francisco, un pennarello e chiese un autografo. Ramey sembrava disposto a concederglielo. Volgendo lo sguardo intorno, ci accorgemmo che non c’era un luogo adatto su cui porre la maglietta. Non c’era mobilio, nemmeno una sedia, solo le pareti e il pavimento. Le mie amiche cominciarono a dare segni di nervosismo.

“Qui” dissi con tono trionfale, mostrando loro la schiena. Dee sorrise sollevata, affrettandosi a posare la maglietta sulle mie spalle e a passare a Ramey il pennarello.

Appena sentii la pressione sulla pelle, a voce bassa e lentamente, quasi stessi vedendo quello che scriveva, dissi in inglese: “Alla mia a-... ” con rapidissima intuizione e incredibile tempismo, Dee mi tappò la bocca con la mano, senza tuttavia riuscire a impedirmi del tutto di completare la parola, che uscì distorta ma comprensibile: “a-mata” (be-loved).

Tutti risero, pur ignorando la storia reale. Ramey sorrise, con un’ombra d’imbarazzo.

Con la coda dell’occhio vidi Dee mentre teneva in mano il dépliant incorniciato che mi aveva mostrato, per un attimo, dopo il primo atto. Era chiaro che aveva intenzione di mostrarlo al suo idolo. Anche Ramey deve aver avuto la stessa impressione perché si voltò verso di lei. Ignoro se notò la collana; se la notò, non lo diede a vedere. Mentre Dee stava per porgergli un autografo che lui aveva quasi sicuramente dimenticato da tempo, fui colpito dai suoi occhi penetranti e dagli alti zigomi, il marchio di una personalità volitiva. In notevole contrasto con il suo abituale, timido, sorriso.

Un attimo dopo, Dee gli porse il quadretto.

Ramey lo prese in mano e lo sollevò.

“Lo riconosce?” chiese Dee, riferendosi allo scritto.

Il cantante lesse (o rilesse) in silenzio le parole sotto il vetro protettore ed esitò. Quando aprì la bocca, senza distogliere lo sguardo dalla sua scrittura, disse in tono neutro, privo di emozioni:

“Qualcuno me l’ha fatto scrivere.” Le parole vennero fuori con semplicità disarmante. Era chiaro: aveva ricordato, o intuito, nel modo giusto. E quel qualcuno non poteva essere che Judith, la quale sei mesi prima si era presentata dietro le quinte per fargli scrivere quella dedica.

Quell’osservazione, malgrado il suo atteggiamento indifferente, stuzzicò la mia curiosità di leggere quello che c’era scritto. Anticipai qualcosa di esplosivo. Mi domandavo: Che cosa gli aveva suggerito di scrivere Judith sei mesi prima, per conto di Dee? Non vedevo l’ora di sapere, ma dovevo aspettare.

Nel frattempo, chiesi a Ramey se potevo fargli una domanda.

“Certo!” esclamò con il solito, bellissimo, sorriso. Passai all’inglese:

“La Casa Editrice Fabbri, qualche tempo fa, ha pubblicato una esaustiva selezione di opere famose, coprendo un intero secolo e scegliendo quelli che a suo criterio sono gli interpreti più rappresentativi per ciascuna opera. Lei fu scelto nell’interpretazione del Maometto II. La mia domanda è: si sente ben rappresentato come protagonista di quest’opera?”

Rifletté un momento, poi rispose: “Sì.” Un attimo dopo sembrò ripensarci e disse quello che la maggior parte dei suoi ammiratori avrebbe voluto sentirgli dire: “Forse… Attila.”

Ne fui contento, ma non commentai. Assentii con un semplice cenno del capo e un sorriso.

Venne il momento di congedarci. Mentre ci aprivamo il passo fra un folto gruppo di eccitati ammiratori che si accalcavano fuori dalla porta di servizio, notai che molti allungavano il collo, incapaci di determinare chi era uscito sulla strada. Non videro altro che noi, ma gridarono e applaudirono lo stesso all’impazzata.

“Non a me. Risparmiate i vostri applausi per dopo. Sta per arrivare!” dissi con il tono di una bonaria presa in giro.

Quando fummo di nuovo soli, chiesi: “Dee, fammi vedere che cosa c’è di così strano in quel quadretto da provocare l’insolito commento di Ramey.”

Mi passò la cornice. La dedica recitava:

«A Dee,

Che ama il mio petto tanto quanto la mia voce.

Samuel Ramey.»

Scoppiai a ridere. E tuttavia non c’era niente di osceno, allusivo o di cattivo gusto in tutto questo. Qualsiasi amante d’opera avrebbe immediatamente capito perché Ramey era diventato famoso nell’interpretazione del ruolo del Diavolo in opere come Mefistofele, Robert le Diable, Il Dottor Faust e La Dannazione di Faust, in cui appariva regolarmente sulla scena a petto nudo! C’era qualcosa di strano? Per niente! Infatti chi, se non il diavolo, poteva arrogarsi il diritto di apparire a torso nudo sul palcoscenico?

Samuel Ramey come Mefistofele

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