martedì 19 novembre 2019

CITTADINI DEL MONDO N° 1 Andrea: cronaca di una morte, una storia d'amore - Mexico


Andrea: cronaca di una morte, una storia d'amore


Non ho mai tenuto diari, neppure un diario di bordo (che sarebbe stato obbligatorio) durante i ventitre anni di navigazione a vela. Eppure, di quei due mesi terribili ho buttato giù una cronaca dettagliata, proprio mentre accadeva l’inevitabile. Come allora sia riuscito a scrivere quello che ho scritto, ad arrivare fino all’ultima goccia d’inchiostro per trascrivere un resoconto obiettivo dei fatti, in quel mutevole
alternarsi giornaliero di oscuri pozzi di disperazione e sparsi germogli di ottimismo, di lacrime di dolore che rovinavano le parole del taccuino e di deboli braci di speranza, mi è difficile crederlo adesso, mentre mi accingo a rileggere quella cronaca dettagliata che è diventata, senza modifiche sostanziali, la storia seguente. Rileggere quella storia, a ventiquattro anni dalla morte di Andrea, ha riaperto purtroppo ferite che credevo rimarginate”.
 Se la lettura di questa storia ha risvegliato in voi emozioni, ricordi e riflessioni legate alle vostre care bestiole, vi prego di condividerla.

Fabrizio Accorsi 

 Andrea ci ha lasciati. Il suo cuoricino generoso ha dato l’ultimo poderoso sussulto alle ore 15:30 di ieri, 4 luglio 1993, sulla strada che da Palenque conduce a Ococingo, in Mexico. In viaggio, come doveva accadere per colui che sia gli americani sia i locali avevano sempre chiamato “il cane viaggiatore”: un viaggiatore in cinque continenti. Sulla strada verso le montagne, come gli avevamo promesso. Ai piedi di Patrizia, nell’autocaravan, “ai posti di combattimento”, come gli dicevamo quasi sempre prima di ogni spostamento. Voglio ripercorrere adesso e condividere con chi legge il calvario che lo ha segnato, e ci ha segnato, negli ultimi due mesi.


Dopo il mio ritorno dall’Italia, l’8 di maggio, Andrea ripresosi dal primo attacco del 26 di aprile, camminava in modo regolare, anche se un po’ più lentamente del solito.

Il 13 maggio, giovedì, in una spiaggia vicino a Cancún, si svegliò debole, con la temperatura a 40.7 (la febbre, nei cani, comincia a 38.6) e si reggeva a malapena sulle gambe. Il veterinario di un attrezzatissimo ambulatorio di Cancún gli diagnosticò un’infiammazione ai reni, evidentemente scambiando l’eccessivo grasso per gonfiore. Gli somministrò un analgesico e un antibiotico, entrambi per endovena.

La mattina seguente lo riportammo dallo stesso medico per un controllo. Camminava bene, anche se più lentamente del solito. La febbre era scesa e il veterinario gli somministrò un antibiotico e un tonico per endovena, oltre a un po’ di ipodermoclisi dato che si rifiutava di mangiare. Gli prescrisse, poi, antibiotici e antiinfiammatori in pastiglie da dargli due/tre volte al giorno per gli otto giorni successivi.

Riscontrammo un notevole miglioramento, tanto che riprendemmo a farlo passeggiare quasi regolarmente in spiaggia (4 chilometri), anche se adagio. Faceva di nuovo il bagno, all’apparenza senza problemi. Così, moderatamente ottimisti, ci avviammo verso sud fino a raggiungere Tulum, distante circa 130 chilometri da Cancún.

Sabato 22 maggio, verso le 16:00, si ripresentarono improvvisamente sintomi di estrema debolezza, convulsioni e confusione mentale. Si reggeva in piedi a fatica e ogni tanto sbandava come un ubriaco a causa dell’instabilità delle gambe anteriori.

Alle 17:00 lo portammo dall’unico veterinario di Tulum, il quale non aveva né un ambulatorio né le attrezzature basilari. Trovai snervante la sua indecisione. Senza nemmeno visitarlo, gli prescrisse delle pastiglie per i vermi (per quattro giorni, una al giorno) attribuendo a quelli la debolezza, ed escludendo che potesse trattarsi di un problema ai reni. Detto per inciso, avevamo dato ad Andrea un’aspirina, che gli aveva fatto subito effetto, abbassandogli la febbre. Questo, in retrospettiva fu uno sbaglio, perché il medico fu indotto in errore nel vederlo camminare normalmente: anzi, Andrea aveva addirittura la velleità di correre dietro alla cagnetta del dottore!

L’indomani stava bene, tanto che ci accompagnò durante la nostra (prima) visita alle rovine di Tulum e volle persino fare il bagno nelle acque sotto le mura. Glielo permettemmo, assicurandoci che non si affaticasse.

Lunedì 24 fummo costretti a ritornare verso nord, a Playa del Carmen (70 km a sud di Cancún e 60 a nord di Tulum), per una riparazione a una delle balestre.

La notte del 24, come già molte volte in precedenza, lo facemmo dormire fuori, perché respirava con affanno a causa del calore molto intenso.

La mattina seguente, il 25 di maggio, non stava bene perciò ritornammo dal primo veterinario. Si profilava infatti all’orizzonte un ulteriore problema: dovevamo assolutamente uscire dal Messico perché il visto sarebbe scaduto entro una settimana. Ma questo era il male minore. Purtroppo, il vaccino contro la rabbia era scaduto e le condizioni di salute di Andrea consigliavano prudenza. Il veterinario lo visitò di nuovo. Nel frattempo, il povero animale era visibilmente dimagrito per aver saltato molti pasti. Scambiando il dimagrimento all’altezza dei reni per una recessione dell’infezione, il veterinario si era ancora di più convinto che si fosse trattato di infiammazione ai reni o, ancora peggio, di calcoli ai reni. Ci consigliò di somministrargli gli stessi antibiotici per altri tre giorni, con la speranza che la febbre diminuisse, per potergli inoculare il vaccino contro la rabbia.

Per tre giorni gli somministrammo gli antibiotici, anche se poco convinti della loro efficacia, in quanto si trattava dello stesso tipo di antibiotici e delle stesse dosi. Come già detto, c’era stato un cedimento momentaneo anche nelle gambe anteriori e questo ci aveva spinto a chiedere al veterinario se fosse stato il caso di aiutare il cane con la somministrazione di calcio, data l’età avanzata. Ma lui era convinto che si trattasse di reumatismi. Rimanemmo d’accordo, comunque, che dopo un paio di giorni in Belize saremmo ritornati da lui per gli esami dell’urina e le radiografie ai reni.

Finalmente percorremmo verso sud i 400 chilometri che ci separavano dal confine. A Chetumal, la prima città che si incontra in Messico dopo la dogana belizeana, arrivammo il 28 maggio. Avevamo solo quattro giorni per fargli il vaccino.

Il 28, la febbre si ripresentò; siccome era risalita oltre i 40 gradi, lo portammo da un veterinario, il quale escluse tassativamente problemi ai reni e diagnosticò una deficienza di calcio (malgrado noi ci fossimo guardati bene dal suggerirglielo, per non influenzare la sua decisione).

Dovemmo renderci conto, con somma frustrazione, che avevamo perduto quindici giorni cruciali, durante i quali Andrea era stato curato per una diagnosi sbagliata. Si era così ulteriormente indebolito a causa degli antibiotici, specifici per i reni. Il veterinario gli fece subito due endovene, una di calcio e una di analgesico per il dolore e per tenere la febbre sotto controllo. Lo informammo della nostra necessità di uscire dal Messico e della vaccinazione. Gli prescrisse quindi pastiglie di calcio, dicendoci di ritornare entro tre giorni. Nel caso la temperatura si fosse normalizzata, gli avrebbe fatto la vaccinazione.

Dopo due giorni, però, Andrea stava male.

A un certo punto Patrizia notò nelle feci un verme vivo, che identificammo in uno dei nostri libri. Anticipammo pertanto di un giorno il nostro appuntamento con il veterinario, portandogli il verme in un barattolo. Lui gli diede due pastiglie, commentando che quelle che gli aveva somministrato il veterinario di Tulum non erano sufficientemente forti per quel tipo di vermi. La mattina seguente trovammo nelle feci altri due vermi e moltissime uova. Siccome nel frattempo la febbre era scomparsa, il veterinario, ritenendo che non ci fossero controindicazioni, gli inoculò il vaccino contro la rabbia. C’è una piccola lezione di cui fare tesoro: mai giudicare un veterinario dalla mancanza dell’attrezzatura tecnica, né dalla sua riluttanza a visitare il cane. In realtà, fino a quel momento, quel modesto veterinario di campagna era stato quello che si era avvicinato più di ogni altro alla risoluzione di almeno uno dei problemi.

Attraversammo il confine, entrando in Belize il 2 giugno.

Dal giorno 2 al 14, la salute di Andrea non andava poi così male. Patrizia continuava a somministrargli, una volta al giorno, 10 cm[1] di calcio con una grossa siringa infilata direttamente nella gola. Lui accettava ogni cosa con pazienza e speranza, e dava segni di progressiva ripresa.

Il giorno 6, incoraggiati dalla magnitudine del suo miglioramento, lo portammo a fare una passeggiata di sei chilometri. Quando oramai ci eravamo convinti che il problema fosse stato la deficienza di calcio, il giorno 14 ci fu una ricaduta sulle colline di San Ignazio. Lo avevamo portato in collina con la speranza che il clima più fresco gli facesse acquisire una maggiore energia e anche perché un americano ci aveva detto che lì vicino c’era una clinica veterinaria molto quotata.

Non appena entrammo nell’ambulatorio, ci rendemmo conto della professionalità, intelligenza, disponibilità e sensibilità del medico, un giovane di colore sui trentacinque anni. Per la prima volta ci sentimmo in buone mani e il fatto che ascoltasse con attenzione e sincero interesse tutto quello che gli dicevamo sul decorso della malattia, ebbe un effetto tranquillizzante.

Alla fine del nostro racconto procedette a un prelievo di sangue, che avrebbe dovuto accertare la condizione di fegato, reni, eventuali vermi nel cuore (filaria – una malattia mortale). La visita fu prolungata e accuratissima. Verificò perfino le condizioni della prostata, attraverso un esame anale. Inserendo un ago in vari punti della schiena determinò che i riflessi erano ottimi, anche se la sensibilità della pelle era un tantino eccessiva. Andrea, che capiva benissimo l’intenzione del medico e la nostra, si dimostrò paziente e docile.

Siccome la febbre era nel frattempo salita a 41.5, gli fece un’endovenosa e ci pregò di ritornare il giorno seguente per i risultati degli esami, che sarebbero arrivati da Belize City. Gli promettemmo di controllare il decorso della febbre alcune volte al giorno e di tenerlo aggiornato.

Da mercoledì 16 giugno al 4 di luglio misurammo la febbre ben ottantadue volte, con una frequenza che andava da una a nove volte al giorno, a seconda della necessità e/o della nostra preoccupazione. Durante i periodi di febbre, respirava con affanno; quando ne era privo, ritornava a respirare normalmente.

Il risultato degli esami fu sorprendente: tutti gli organi erano in una condizione eccellente; però era stata rilevata anche un’infezione in stato avanzato, che, nonostante tutto, non si riusciva a localizzare. Non era nei reni, non era nel fegato né nei polmoni. Dove allora? Di nuovo gli furono somministrati antibiotici contro la misteriosa infezione e steroidi per tonificare i muscoli, disinfiammare e tenere bassa la temperatura corporea.

Il 16 giugno la febbre si mantenne tutto il giorno fra 39.3 e 39.7, cifre nei limiti dell’accettabile secondo l’opinione generale della medicina veterinaria, ma io non ne ero oramai troppo convinto.

Il 17, finalmente, scese a 38.5 con una punta di 38.8 la sera. Ricominciammo a sperare. Andrea, dopo due giorni di digiuno e di quasi immobilità, ricominciava a mangiare: era un buon segno. Tuttavia era molto dimagrito. La sofferenza nei suoi occhi non prometteva niente di buono.

Il 18, al mattino presto mangiò biscotti e carne. La temperatura risalì da 38.6 a 39.0 alle 19:00 e alle 21:00 era 38.9.

Sabato 19, al mattino, era di 38 gradi; alle 13:00, 38.3.

Gli comprammo una palla da tennis, che gli lanciavamo a una distanza di soli tre/quattro metri affinché non si stancasse.

Che giorno meraviglioso il 19 giugno! Andrea, dopo settimane interminabili, era ritornato praticamente normale. La vita tornava a sorridere. Dopo la moderata attività fisica, la temperatura si mantenne stabilmente nella norma. Che sensazione meravigliosa vederlo divorare il pollo che gli avevamo messo davanti! Quella sera, per la prima volta in settimane di sofferenza, riuscimmo ad addormentarci subito e a riposare tranquilli.

L’indomani, domenica 20, alle dieci del mattino, la temperatura era di 38.3. Meraviglioso! 38.6 alle 16:00. Le nostre sofferenze e preoccupazioni sembravano oramai archiviate nel passato. Anzi, non erano mai esistite. E anche quelle di Andrea.

Campanello d’allarme alle 21:00. La temperatura era risalita a 39. Non mi piacque.

Lunedì mattina alle 8:00 era scesa a 38.7, alle 15:00 a 38.4. Ci tranquillizzammo: si era trattato di un falso allarme?

Ma il termometro, nel pomeriggio, non ci diede buone notizie. La temperatura risalì a 38.8 alle 19:00 e alle 22:00 toccò addirittura i quaranta. Che cosa stava succedendo? Perché? Ricominciarono gli incubi. Gli facemmo ingoiare un’aspirina. Andrea non stava bene. Di nuovo. Il nostro ottimismo era ancora una volta minato.

Il mattino seguente lo riportammo dal veterinario, che gli fece un ennesimo prelievo di sangue per monitorare il decorso dell’infezione; per vedere, cioè, se i globuli bianchi, che secondo quanto rivelato dal primo esame erano due volte e mezzo più alti del normale, erano ancora a quel livello.

Martedì mattina, 22 giugno, alle 7:00 precise, il termometro segnava 38.9. La temperatura, nel corso della giornata, salì progressivamente fino a raggiungere i 40 gradi alle 18:30. Alle 22:15 era ferma sui 40.

Ci aveva già colto la disperazione: da alcune ore, le gambe posteriori di Andrea erano paralizzate. Quella notte incominciai a massaggiargliele per un’ora, e poi per molte volte al giorno nei giorni successivi, fino alla fine.

Telefonammo al dottore (la clinica era a dieci chilometri dalla città). Non c’era. Verso sera, lo richiamai a casa: mi disse che l’esame del sangue era risultato negativo. I globuli bianchi si erano normalizzati. Che ironia. Adesso che tutto era regolare, Andrea era paralizzato! Gli massaggiai le gambe la maggior parte della giornata, seduto sull’erba. Come sempre, la cosa più penosa e allarmante rimaneva quella di non riuscire a mettere a fuoco il problema.

Patrizia mi stava sempre vicino e quando non c’era cercava una soluzione in quel poco di libri che avevamo nell’autocaravan.

Ogni tanto lo sollevavamo rimettendolo in piedi per aiutarlo a urinare, ma abituato a farla lontano, a cercare lui il posto adatto, la teneva fino all’ultimo momento. Caro tesoro generoso, se tu me l’avessi fatta in mano o nei vestiti, in quel momento sarebbe stato il più bel regalo. Ma tu non potevi saperlo.

Di defecare non se ne parlava; dopotutto non mangiava da due giorni.

Le zampe posteriori erano diventate due stecchetti. Quando lo spostavamo in due per accostarlo sull’altro lato e fargli così riposare l’altra parte del corpo, avevamo paura di rompergli le ossa. Era la fine? Oh speranza... oh speranza... che sei sempre l’ultima a... Quella era una parola che non riuscivo a pronunciare.

Nel migliore dei casi, sarebbe rimasto paralizzato per sempre. Dovevamo arrenderci? No! Dovevamo lottare insieme a lui... Forse non tutto era perduto. Era vivo!

Il 23 di giugno fu una giornata d’inferno, non finiva più e quando finì, non era ancora finita. Alle 10:00 del mattino seguente, la febbre era a 40 gradi e così all’una. Alle 16:00 scese a 39.7 e alle 19:00 a 39.2. Andrea restava paralizzato. Dopo un giorno e mezzo in simili condizioni, le speranze erano ridotte a un lumicino. Le sue condizioni fisiche erano pietose. Eppure si manteneva lucido e, a tratti, il respiro era perfino normale.

Adesso avevo cominciato anch’io a leggere sulla medicina alternativa, tra un massaggio e l’altro, tra un pianto e l’altro.

Mi ricordai che da qualche parte, nell’autocaravan, avevamo quattro libri che descrivevano brevemente tutti i metodi alternativi di guarigione allora conosciuti al mondo. I quattro volumetti erano appunto intitolati 100 modi per guarire, una pubblicazione della Mondadori. Si trattava di metodi naturali, cure con il sole, l’acqua, il fango, la terra, le erbe, lo yoga, i massaggi, e tantissime altre.

Cominciai a palpare Andrea dappertutto, alla ricerca non sapevo nemmeno io di cosa, ma consapevole che le carezze, i toccamenti, i massaggi, tutto ciò che viene dato con amore può trasformarsi in un’ottima medicina. Riflettevo costantemente che tutto questo ha prodotto, a volte, modificazioni a livello cellulare, con guarigioni che si sarebbero potute definire miracolose perché tanto repentine quanto inaspettate.

Incominciammo a fargli anche massaggi sulla schiena con panni gelati, per stimolare il corpo a rivitalizzare le cellule con una reazione di calore. Chissà, forse i massaggi alle cosce, le spugnature di acqua gelata sulla schiena, le carezze, che lui per la prima volta nella sua vita accettava senza lamentarsi, avrebbero attratto endorfine dove era necessario: forse, non tutto era perduto.

Avevamo in programma di ritornare alla clinica il mattino seguente, all’ora di apertura, per condividere col veterinario un’idea che mi era stata suggerita da uno dei libri menzionati sopra. Si trattava di una terapia fisica da eseguire nell’acqua, in questo caso nel fiume di Sant’Ignazio, su una delle cui rive sopraelevate dormivamo nell’autocaravan.

“Patrizia, domani mattina andiamo alla clinica. Appena ne usciamo, ritorniamo al fiume e mettiamo Andrea nell’acqua con il suo giubbotto salvagente, cosicché potrà galleggiare senza affaticarsi: la corrente, agendo sulle gambe, potrebbe avere un effetto rivitalizzante. È un tentativo disperato, quasi contro la logica. Ma, anche quando le speranze sono ridotte a una fiammella, come si può stare con le mani in mano? Nell’acqua potremo anche massaggiargli meglio le gambe posteriori.”

“Sì, faremo così” disse calma Patrizia, “dobbiamo provare tutto, anche se pensiamo che ci sia soltanto una possibilità su un milione!”

Per fortuna Patrizia era meno in crisi di me e mi faceva coraggio. Come poteva. Io alternavo momenti di speranza con prospettive di questo o quell’altro tipo di terapia, a momenti di sgomento.

Arrivammo alla sera, poi a notte inoltrata. Ero sfinito, anche quella giornata era stata durissima, micidiale per il mio corpo e per il mio sistema nervoso. Ma non riuscivo a prendere sonno. Poi vinse la fatica e mi addormentai. Quando mi svegliai, nel bel mezzo della notte, maturai una decisione: se Patrizia fosse stata d’accordo, non ci saremmo fermati dinanzi alla paralisi. Avremmo comprato ad Andrea una di quelle seggioline di cuoio che usano gli americani per portarci i bambini dietro la schiena. Lo avrei portato io sulle spalle, e con un po’ di allenamento saremmo andati dappertutto, come prima. Lo avremmo aiutato noi a urinare e a defecare. Dopo un po’, si sarebbe abituato.

Adesso mi sentivo più rassicurato, forse sarei riuscito a prendere di nuovo sonno. Invece non ce la facevo, perché Andrea faticava ad addormentarsi. Gli presi la testa tra le mani, e lui sapeva già quello che gli avrei detto. Mi fissava con quegli occhi! E quello sguardo mi dava coraggio, contro una sorte avversa e crudele. Avrei fatto qualsiasi cosa perché quello sguardo non ci abbandonasse... Perché quel contatto non si spezzasse...

“Andrea, guerriero valoroso, domani torneremo dal dottore. Faremo qualcosa” quegli occhi si illuminarono di speranza.

“E poi faremo la terapia in acqua con il giubbotto salvagente. Vedrai, sarà divertente, l’acqua è una buona medicina. Non mollare, lotta guerriero. Ti vogliamo tanto bene, non ti abbandoneremo.”

Gli misurai la febbre: 39.2. Andrea aveva ripreso a respirare normalmente. Gli misi le zampine morte da un lato, attento a non fare movimenti dannosi. Se ci fosse stata anche una sola speranza! Ritornai a letto e mi addormentai, vinto dalla fatica. Fu una lunga notte, piena di incubi. Ogni volta che ci svegliavamo, lo palpavamo per controllare se era ancora vivo; l’unica cosa che contava oramai. Nel frattempo, la stanchezza aveva preso il sopravvento e si era addormentato.

“Dormi, riposa, che riposare fa bene” gli avevamo ripetuto molte volte quando stava bene. Tanto più adesso che ne aveva bisogno. “Riposa, guerriero stanco” gli dicevamo quando ritornava a casa sfinito dopo aver fatto la corte a una cagnetta per ore e ore e combattuto con altri cani, possessivo fino allo stremo delle forze: lui la sua cagnetta la voleva per sé, non voleva dividerla con altri. A volte, dopo ore e ore di amore e vigilanza, qualche altro pretendente all’amore finiva per menarlo. E noi a curare le ferite.

Adesso dormiva e io gli sussurravo, per non svegliarlo: “Dormi, riposa guerriero, che domani questo bravo dottore ti curerà di nuovo. Lo sai che i dottori neri sono anche più bravi di quelli bianchi?”

Il mattino di giovedì 24, alle ore 7:00, la temperatura era di 39.7. Prima che aprisse la clinica, eravamo già fuori dalla porta. Il dottore lo visitò, verificando in primo luogo la condizione delle gambe: c’era preoccupazione nei suoi occhi. Come già avevamo constatato noi, la destra era totalmente insensibile, mentre la sinistra reagiva appena a un fortissimo pizzicotto.

Gli fece un’iniezione di steroidi, nella speranza di ripristinare il tono delle gambe, poi gli prescrisse steroidi in pastiglie in dosi doppie alle precedenti da somministrargli – disse – probabilmente a vita.

Gli accennai alla fisioterapia in acqua; anche lui sembrava pensare che ci fosse una qualche possibilità di successo (con quale convinzione, non riuscii a determinarlo).

Restava finora ignota la causa dell’infezione, quell’elusiva infezione che, secondo gli ultimi esami era scomparsa nel nulla.

Il dottore ci informò che la paralisi alle gambe era molto comune, anzi la norma, nei casi di vecchiaia. Io e Patrizia, invece, credevamo che la combinazione di paralisi e febbre fosse indicazione di qualcosa fuori della norma. Forse, qualcosa che la medicina veterinaria non aveva ancora scoperto?

Facemmo notare al dottore che nel caso in questione sembrava essere in gioco qualcosa di diverso, forse un problema alla spina dorsale. Perché, quando riusciva ancora a stare in piedi, a volte si sedeva toccandosi alcune delle vertebre. A questo punto, il dottore suggerì una radiografia alla spina dorsale. Però ci disse anche che c’era un grosso problema. Non esisteva in Belize, allora, una sola clinica per animali attrezzata a questo scopo. Suggerì di fare un tentativo in un ospedale per umani che si trovava a qualche chilometro di distanza.

“Fino a poco tempo fa, facevano radiografie anche ad animali” disse il veterinario, “ma in seguito a lamentele da parte dei pazienti, adesso si rifiutano di ricevere animali.”

Quando uscimmo dall’ambulatorio, con una nuova tenue speranza, ci dirigemmo verso l’ospedale.

Il tecnico dei “raggi X” fu inflessibile: no, non c’era nessuna possibilità di fare delle radiografie a un cane nel suo ospedale. Però, dopo che gli ebbi spiegato la situazione in dettaglio, ebbe un momento di esitazione, rivolse uno sguardo fuggevole ad Andrea (che io tenevo tra le braccia) e si diresse verso un tavolino. Mentre Patrizia mi diede un’occhiata piena di speranza lui sollevò la cornetta e telefonò all’ospedale di Belmopan, la capitale, che si trova a 36 km di distanza. Ne risultò un appuntamento per le 11:30.

Alle 11:15, con Andrea tra le braccia e Patrizia al mio fianco, entrai nella sezione “raggi X” dell’ospedale. Mentre aiutavo Andrea a sdraiarsi sul lettino, gli spiegai che doveva rimanere assolutamente immobile. E Andrea rimase immobile per tutto il tempo necessario. Com’era comprensivo e docile, pur devastato dal dolore! “Meglio di un paziente!” commenterà il tecnico, alla fine.

Dopo una mezz’oretta, uscimmo di là con quattro radiografie. Mentre guidavo verso San Ignacio, provai un piacevole senso di soddisfazione.

Dato che il veterinario sarebbe stato disponibile solo il giorno seguente, la cosa più importante era quella di cominciare la terapia dell’acqua nel fiume che bagna San Ignacio.

Negli ultimi due giorni, Andrea aveva perso ulteriormente peso e mangiava soltanto carne e biscotti, quando mangiava.

Parcheggiammo l’autocaravan sulla scarpata sopra la riva del fiume, nello stesso punto preciso in cui avevamo dormito nelle ultime settimane, e discendemmo lungo il pendio fino all’acqua.

Gli infilammo la giacchetta salvagente, quel giubbotto rosso che avevamo comprato negli Stati Uniti appositamente per lui e che fino ad allora aveva usato soltanto come cuscino nel kayak. Gli spiegammo per l’ennesima volta che se c’era una speranza di camminare di nuovo, questa era rappresentata dalla terapia dell’acqua, come oramai la chiamavamo. Andrea ci guardava con i suoi begli occhi, che brillavano fiduciosi. Per un attimo mi attraversò la mente il pensiero che avrebbe potuto farcela!

Lo mettemmo nell’acqua, dove non toccava il fondo. Ci disponemmo accanto a lui, in piedi, con l’acqua alle cosce, io da un lato e Patrizia dall’altro.

Durante i primi due/tre minuti, abituato com’era a nuotare, continuò per riflesso condizionato a muovere le zampe anteriori. E mentre io lo sorreggevo per la parte anteriore del giubbotto salvagente, Patrizia controllava le gambe posteriori.

Ci accorgemmo subito che la corrente, piuttosto forte, rendeva difficile determinare con certezza se le quasi impercettibili vibrazioni dei muscoli delle gambe posteriori erano provocate dalla corrente stessa o da una ripresa dell’attività muscolare. Passarono alcuni minuti.

“Fabi, si muovono! Si muovono!” gridò Patrizia, dopo aver percepito una vibrazione più forte in entrambe le gambe posteriori.

Non riuscivo a crederci. “Sei sicura? Ho paura a controllare” temevo che fosse tutto un sogno.

“Sì, si muovono, e non è la corrente!” confermò Patrizia “Sì, è un movimento debole, ma si muovono!” Non ricordo di averla mai vista così eccitata.

Nel frattempo, le zampe anteriori si muovevano normalmente con il tipico moto rotatorio. Lo incoraggiammo ad alta voce. Andrea, sospinto dalla nostra carica emotiva, si impegnò fino in fondo come soleva fare, del resto, in ogni sua attività. Adesso le gambe si muovevano, lentamente ma costantemente. Poi sempre più veloci. Non c’erano più dubbi: Andrea stava recuperando l’uso delle gambe!

Era un miracolo, mi sgorgarono lacrime giù per le guance: lacrime di gioia, finalmente, dopo tante altre. Adesso era tutto un coro di “Bravo, ce l’hai fatta. Valoroso! Il nostro guerriero! Hai vinto!”

Dopo un quarto d’ora il movimento degli arti posteriori, nell’acqua, appariva normale, Andrea scalciava come un neonato! Il giorno più bello della nostra vita era appena cominciato! Ci sarebbero voluti giorni, forse settimane di idroterapia, di massaggi, di steroidi, di vitamina E per una riabilitazione completa: ma stavolta eravamo sulla strada giusta.

Dopo venti minuti, decidemmo di non affaticarlo ulteriormente: per essere il primo giorno, era anche troppo. Lo mettemmo sulla riva, coricato sull’erba, mentre noi ritornammo nell’acqua. Dopo tante preoccupazioni, era venuto il momento di rilassarci, un verbo che negli ultimi tempi era uscito dal nostro vocabolario.

Ma un paio di minuti dopo, ci fu difficile credere ai nostri occhi: “Guarda!” esclamò Patrizia. Andrea si era alzato in piedi. Barcollando paurosamente e rischiando di cadere, si spostò di un paio di metri e, accosciato come una cagnetta, urinò da solo! E poi, come se ciò non fosse bastato, si rimise in piedi, barcollò e poi cadde di schianto sull’erba altissima. Per un istante rimanemmo dove eravamo, congelati dallo stupore. Poi, mentre ci affrettavamo a uscire dall’acqua con l’intenzione di aiutarlo, si rialzò. Ricadde. Si rialzò. Ancora una volta, rimanemmo impietriti a osservare. Andrea era già riuscito a spostarsi di una decina di metri, gli ultimi cinque o sei senza cadere, verso alcune piante sparse alte un metro. Quando le raggiunse, si mise in posizione per defecare! Scrosciarono applausi da parte nostra. Un attimo dopo, sentimmo altri applausi provenire da un posto un po’ più in alto sul pendio: due giovani locali appena arrivati si erano fermati a guardare. Poi, uno di loro osservò: “Non è certo un perdente (a loser), è un gran lottatore.”

Dunque lo avevamo soprannominato bene: “guerriero”, pensai con le lacrime agli occhi.

Alle 11:00 la temperatura era scesa a 39.4 e alle 19:00 era finalmente normale: 38.3.

Il giorno seguente, venerdì 25, la temperatura si mantenne nella norma: 38.5. Portammo la radiografia al dottore. Non c’erano spostamenti di vertebre nella spina dorsale, ma semmai una ipercalcemia, cioè più calcio del normale nelle ossa, come era confermato da un piccolo ponte osseo tra due vertebre. Il dottore escluse che questo potesse essere la causa di eventuali infiammazioni ai nervi sottostanti; di solito si trattava di “soprossi innocui”.

Dalla radiografia risultava che il fegato, i reni e gli altri organi non presentavano anomalie: la prostata era appena ingrossata, condizione comune ai cani della sua età, e si notava giusto un po’ di gas nell’intestino. Tutto sommato, la radiografia poteva appartenere a un cane sano.

Il veterinario ci consigliò di continuare con la somministrazione orale degli steroidi. Anche se cercò di mascherarlo, intuii che era molto sorpreso degli effetti immediati dell’idroterapia. I riflessi delle gambe, che controllò subito dopo, si erano regolarizzati. Però ci esortò a valutare e a considerare, in un prossimo futuro, la qualità di vita di Andrea. Era un tasto amaro: sapevamo bene che cosa significava. Patrizia mi rivolse uno sguardo fuggevole. Come potevamo anche solo prendere in considerazione di togliere la vita a un essere umano?

A questo punto era chiaro che il dottore aveva fatto tutto il possibile. Il suo compito era finito. Avevamo passato quindici giorni a San Ignacio per rimanere vicini alla clinica. Adesso, non c’era motivo di indugiarvi più a lungo.

Avremmo proseguito i nostri spostamenti in Belize, in funzione dei corsi d’acqua, lagune e cenotes per poter continuare l’idroterapia due o tre volte al giorno.

Venerdì 25 eravamo al Cenote Blue, Andrea camminava senza aiuto, pur con alcuni sbandamenti. La temperatura si mantenne regolare per tutto il giorno.

Sabato 26, alle nove del mattino, in un campeggio chiamato Oasis, su un affluente del fiume Belize, la temperatura era risalita a 39.2. Alle 3:30 era di 40.7, però le gambe restavano salde. Andrea continuava non solo a camminare, ma a migliorare impercettibilmente. Il suo sistema stava, forse, reagendo? Alle 20:20, la temperatura si normalizzò a 38.8.

Lunedì 28 lo trascorremmo all’Oasis, luogo ideale per l’idroterapia. Andrea migliorava ancora. Era più saldo sulle gambe, non cadeva più. Cominciò ad alzare una delle zampe posteriori per urinare, un buon segno. Eravamo, forse, all’inizio della convalescenza?

Durante la notte, però, per l’ennesima volta, cominciò a respirare affannosamente, vuoi per il calore estremo, vuoi per una leggera febbre. Prendemmo una decisione drastica: avremmo rinunciato alle isole del Belize. Non saremmo neppure ripassati per lo Stato di Quintana Roo per vedere le bellissime spiagge che, per cause di forza maggiore, avevamo dovuto saltare. Saremmo andati direttamente in Guatemala. Lo avremmo portato in montagna, in un clima molto più fresco: nel caso avesse ancora i residui della fantomatica infezione, come dimostrerebbe la febbricola che di tanto in tanto ricompariva, il freddo avrebbe potuto aiutare il sistema immunitario nella lotta antibatterica.

Avevamo, però, un problema: non potevamo andare in Guatemala passando dal Belize, perché 70 km di strada non erano agibili per il nostro autocaravan. Dovevamo percorrere dunque quasi mille chilometri, aggirare il Guatemala ed entrare dalla frontiera della Mesilla, come la volta precedente. Intanto, già prima del Guatemala, ad Agua Azul, dopo Palenque, Ocosingo e San Cristobal, saremmo già stati in montagna.

Lunedì 28 partimmo alla volta del confine messicano. Ci fermammo poco prima, a Corozal, dove proseguimmo la terapia nel mare. Andrea migliorava impercettibilmente giorno dopo giorno. Ricordo che a un certo punto adocchiò un grosso legno, di quelli che lui preferiva; lo guardò con voglia. Generalmente li afferrava nel mezzo, li sollevava e bilanciandoli perfettamente con le poderose mascelle li trasportava per chilometri, lungo buona parte della passeggiata, malgrado le dimensioni e il peso.

“Sta meglio, si vede anche da questo” commentò Patrizia. “Ma è troppo presto, dobbiamo convincerlo a limitarsi a giocare nell’acqua. I tuffi per recuperare la palla e i pezzi di legno, saranno per quando sarà guarito completamente.”

Andrea accennava perfino a qualche breve passo di corsa. Rinasceva, per l’ennesima volta, una speranza accentuata dal fatto che l’effetto delle massicce dosi di vitamina E si era fatto sentire dopo soli due giorni. Che il sistema si stesse rivitalizzando era indubbio. Si stava verificando qualcosa di molto positivo e in modo così pronunciato da apparire tanto insperato quanto incredibile. Avevamo subito notato che i “duroni” (callosità) neri alle giunture delle zampe (nei “gomiti”), tipici nei cani di una certa età e che anche Andrea presentava da qualche anno, avevano assunto un bel rosa acceso, la pelle si era ammorbidita e dopo quattro/cinque giorni dall’inizio della terapia con la vitamina E, perfino il pelo dava segno di ricrescervi!

Mi assillava un solo timore, che manifestai subito a Patrizia. In Australia avevo studiato a fondo tutto ciò che esisteva fino ad allora sul lavoro pionieristico sulle vitamine. In biblioteca avevo letto con molta attenzione un volume di mille pagine che informava su esperimenti ventennali condotti negli ospedali americani. Mi aveva colpito l’apparente, straordinario effetto curativo delle maxidosi di vitamina E. Lo avevo “provato” su Marina (storia # 18 TOTOCALCIO E TATTSLOTTO, Il nostro canto libero, Libro I) che soffriva di anemia, dopo una lunga ricerca sui diversi tipi conosciuti di anemia. I risultati erano stati straordinari fin dalla prima somministrazione. Non riuscivo a crederci: il palmo delle sue mani, il giorno prima di un brutto colore violaceo malaticcio, si era mutato nel rosa naturale di un bambino. Gli effetti positivi promessi dal libro in un tempo non inferiore a trenta giorni si erano verificati in un giorno!

Esistevano soltanto due controindicazioni: UNO, per le persone che soffrivano di pressione alta e/o avevano già subito un attacco di cuore; DUE, in caso di tumore. Nel primo caso non c’era da temere: il cuore di Andrea era stato giudicato in buone condizioni, per un cane della sua età, e per quanto riguardava il suo sistema immunitario, riflettevo che doveva essere ben forte per aver sopportato, per ben due mesi, gli effetti micidiali degli antibiotici. La seconda controindicazione, invece, mi preoccupava. Da un lato mi tranquillizzava il fatto che il veterinario non aveva riscontrato focolai di tumore. Dall’altro ero indeciso perché sapevo che l’effetto della vitamina E è, sì, quello di maggiorare l’apporto di ossigeno alle cellule, ma, in seguito a esperimenti condotti negli USA, risultava che anche le eventuali cellule cancerogene avrebbero beneficiato di questo incremento di ossigeno proliferando a velocità molto maggiore (oggi, alcuni studi negli USA sembrerebbero indicare invece che la somministrazione di ossigeno impedisca la proliferazione delle cellule cancerogene!). Ciò che mi fece decidere a procedere con la somministrazione fu il pensiero che, anche in presenza di tumore, avrei alleviato le sofferenze di Andrea. Gli avrei, cioè, accelerato la morte. Un’ipotesi terribile che richiedeva una decisione estremamente ponderata. D’altro canto, la possibilità di una remissione della malattia, qualunque fosse stata la sua origine, mi sembrava reale!

Dunque si era instaurato un clima di moderato ottimismo, pur in un sottofondo di costante stanchezza fisica, incubi e levate notturne ogni volta che Andrea si muoveva, respirava più forte del normale o dovevo portarlo fuori a fare pipì durante la notte. Eppure facevamo tutto volentieri, con quel rispetto per la vita dovuto a tutti gli esseri umani, che estendevamo naturalmente ad Andrea, la nostra creatura umana.

Martedì 29 tutto procedette bene, con terapia mattutina a Corozal e, dopo l’entrata in Messico, a Laguna Milagros. La temperatura fu normale per tutto il giorno. Arrivammo ad Agua Azul, una estesa serie di cascatelle e laghetti in un paesaggio idillico, a qualche centinaio di metri di altitudine sul livello del mare. Sette mesi prima vi avevamo trascorso una settimana. Eravamo finalmente arrivati ai piedi delle grandi montagne.

Mercoledì 30 fu una giornata che promise bene fin dal mattino: la temperatura, alle 6:00, era di 38 gradi.

Facemmo la solita terapia nel fiume. Alle 17:00, la temperatura era di 38.3. Verso sera, tuttavia, Andrea vomitò la carne che aveva mangiato a pranzo. Non sarebbe stato un fatto eccessivamente negativo se l’odore del rigurgito non fosse stato terribilmente acido. Il rigetto dei cani in circostanze normali è inodore, tanto che loro quasi sempre rimangiano il cibo vomitato. Dovevamo preoccuparci? Non credo, considerando che la pelle, soprattutto nella pancia, aveva assunto un bel colore rosa pallido, che non vedevamo da anni. La vitamina E continuava il suo effetto straordinariamente positivo.

Giovedì, primo luglio, Andrea incominciò di nuovo a stare male. Aveva chiaramente la febbre: 40.2 alle 8:00, 40.5 alle 12:00; 39.7 alle 15:00; 39.7 alle 19:00; 40 alle 20:30.

Venerdì 2, alle 8:00, la febbre continuò: 39.6, scendendo però quasi alla normalità a 38.8 alle 19:15. La terapia l’avevamo fatta anche quel giorno per tre volte, ma molto più breve del solito.

Nel pomeriggio, la pelle rosata della giuntura della gamba destra anteriore cominciò a emettere del pus, prima in un punto, poi in tre o quattro. In un paio d’ore si gonfiò non solo il “gomito”, ma anche la zampa. Un altro focolaio comparve sopra una spalla, facendola gonfiare in modo preoccupante. Scambiai un’occhiata con Patrizia: oramai era chiaro che ci trovavamo a una svolta: o il corpo reagiva, liberandosi una volta per tutte dell’infezione, o soccombeva e sarebbe stata la fine.

Quando andammo a letto sapevamo di avere davanti una notte tremenda, lunghissima. E che avremmo aspettato con ansia la luce del giorno.

Alle 6:00 del mattino il “gomito”, la zampa e la spalla si erano notevolmente sgonfiati ed era uscito moltissimo pus. Il respiro di Andrea si era fatto lungo e lento. La temperatura, di 38.1, alle 10:00 sarebbe scesa addirittura a 37.7.

Nel pomeriggio la zampa si gonfiò di nuovo e quel che era peggio, Andrea si reggeva a malapena sulle gambe. Purtroppo, dopo tante speranze, ricominciavano i segni della paralisi. Anche quella sera, come sempre, lo coricammo nel nostro letto per i massaggi alle zampe posteriori. Andrea vi si sottoponeva volentieri, sempre tre volte al giorno. Notevole per un cane che era sempre stato refrattario alle carezze. Adesso ne aveva particolarmente bisogno, sotto ogni aspetto. Gli tonificavano e, al tempo stesso, rilassavano i muscoli e avevano un effetto benefico sul sistema, tant’è che spesso si addormentava. Com’erano belli quei momenti, quei preziosi intervalli conquistati al dolore. Ma non durava mai a lungo. Si risvegliava e ricominciavano le sofferenze. Eppure mai un gemito, mai un ululato.

Quella sera soffriva più del solito. Tra una pausa e l’altra, nei rari intervalli durante i quali non respirava affannosamente, quando il dolore gli lasciava un po’ di tregua per poi ritornare atroce, implacabile, lui si sforzava di sollevare la testa verso di noi, con quegli occhi tanto penetranti che ci avevano sempre scavato dentro, ma che adesso ci parlavano direttamente al cuore, senza bisogno di parole... Sì, in uno di quei momenti ci siamo ritrovati… Ci siamo ritrovati, io, Patrizia e Andrea, mano nella mano, una mia mano su una sua scarna zampina e la mano di Patrizia sulla testina calda di febbre, a chiudere un circolo di amore, in una catena di silenzio.

Poi, all’improvviso, siamo scoppiati in singhiozzi sommessi e tutto quello che avevamo represso negli ultimi giorni venne fuori in quel pianto liberatorio. Andrea ci guardava fisso, quasi stupito, con quegli occhi. Con che occhi! Che dolcezza in quegli occhi, che comprensione in quegli occhi, pur nella sofferenza estrema. Che consapevolezza di quello che stava accadendo. Ecco, sì, a un certo punto, abbiamo sentito quegli occhi mutarsi da sguardo in parola. Dicevano: “Lo so che mi volete tanto bene, che potevo contare su di voi. Che avete fatto il possibile. Sono stato felice. Non piangete.” Di fronte a quegli occhi, ci siamo sforzati di non piangere. Mi dirà Patrizia, la sera dopo, tra i singhiozzi: “Ieri sera eravamo in sintonia. Tutti e tre. Andrea ha capito tutto.”

Che notte da incubo per Andrea, per noi. Tra una veglia e l’altra, feci un sogno: il terzo da quando incominciò a star male (il primo fu quello in Italia, descritto nella storia precedente). Lo vedevo camminare, vacillando, in una specie di pianoro, una di quelle terrazze tipiche della costa ligure, ma tutto erboso. Vacillava e mi aspettavo che cadesse da un momento all’altro. E infatti cadde in un pianoro sottostante. Più in là, più in basso, c'era un precipizio, e si intravvedeva una strada a tornanti. Andrea barcollò un’altra volta. Se fosse caduto di sotto, pensavo, sarebbe stata la fine. Cadde. Cadde di sotto. È la fine, stavolta era la fine. Lo vidi precipitare giù a rallentatore, in piedi, e lo seguii in un volo interminabile, i miei occhi lo vedevano sempre vicino, lo seguivano come fossero stati lo zoom di una cinepresa. Incredibilmente, speravo ancora. Anche se temevo che si sfracellasse contro le rocce. Contro ogni speranza razionale, pregavo che incontrasse qualcosa di morbido per ammortizzare il colpo. E qualcosa incontrò, alla fine della caduta. La mia mente creò convenientemente una fronda d’albero, un albero isolato che sporgeva all’infuori da quella scarpata arida. Forse era un ulivo. Ma la velocità era adesso diventata normale e, sotto la tremenda accelerazione, il ramo si spezzò all’impatto. Più sotto incontrò una rete metallica, che segnò la fine del volo. Fu la zampa malata, quella gonfia, la destra, che arrestò la corsa. Era vivo, si sarebbe salvato. Mi svegliai.

Domenica 4 luglio. La realtà risultò diversa dal sogno.

Le condizioni di Andrea stavano toccando il fondo. Era paralizzato. Si manteneva in piedi a fatica solo se noi gli sistemavamo le zampe. Era completamente privo di forze. Quel corpicino di pelle e ossa era il fantasma del cane sano, forte, grassoccio ma robusto che era sempre stato. Sul pavimento della cabina di guida, accanto al sedile di Patrizia, il suo intestino cominciò a perdere ogni controllo volontario.

Decidemmo di ritornare a Palenque (63 km) per fare la spesa e cercare un veterinario. Ci scambiammo una rapida occhiata, colma di tristezza, di rassegnazione. Ma non c’era oramai nient’altro da fare. Bisognava porre fine alla sua sofferenza. Eutanasia, la chiamano, con un termine preso a prestito dal greco, forse per mascherare il suo vero significato. Significa “bella morte, o morte indolore” inflitta per pietà a chi non è in grado o più in grado di provocarsela da solo. Quando la soglia del dolore diventa insopportabile, quando la malattia irreversibile ha raggiunto uno stato devastante per il paziente, quando la qualità della vita è ridotta a un puro stato vegetativo, quando ogni speranza è... mortadare la morte diventa un segno di umanità.

Frequentemente abbiamo incontrato proprietari di cani che li hanno “messi a dormire” attraverso l’iniezione indolore di un veterinario, al primo segno di paralisi alle gambe posteriori. Abbiamo spesso sospettato che lo avessero fatto più per se stessi che per evitare sofferenze ai loro cani. “Per noi non sarà cosi, se ci trovassimo in questa terribile situazione” ci eravamo chiaramente detti l’uno all’altra. “Non è possibile uccidere quando si ama, noi andremo fino alla fine, faremo il possibile e l’impossibile per salvarlo.” Sono belle parole, piene di eroismo. Ma la realtà ti plasma in modo differente, ti costringe a porti problemi che sono sempre più complessi della teoria. La realtà è al di là delle teorie. La realtà è al di là dei principi, pur nobili che siano.

Andare fino alla fine. Adesso eravamo alla fine. Il possibile per salvarlo lo avevamo fatto, con tutti i limiti delle nostre conoscenze. Gli “esperti” avevano fallito, come avevamo fallito noi. L’impossibile non si può fare.

Eppure, anche con questi pensieri così presenti nella nostra mente, a mezzogiorno di domenica 4 luglio, dopo aver constatato che il pus usciva anche dalla giuntura della gamba anteriore destra, da sopra la spalla e che si stava gonfiando anche la parte destra della gola, consapevoli di quanto era dimagrito in un solo giorno (nella parte laterale del cranio si era reso spaventosamente visibile l’ennesimo “buco” tra le ossa), gli avevamo comprato del siero da dargli per bocca! È proprio vero che l’amore è cieco, che non si arrende neppure di fronte all’evidenza.

A Palenque, Patrizia andò a cercare un veterinario. Eravamo esitanti, entrambi, a portarlo da uno sconosciuto qualunque, il quale, impersonalmente e freddamente gli avrebbe fatto l’iniezione fatale. Andrea meritava ben altro. Ma, d’altra parte, che alternative avevamo?

Al suo ritorno, Patrizia mi disse: “Ho girato in lungo e in largo per il paese. È difficile trovare un veterinario di domenica mattina. Alla fine ne ho trovato uno disponibile. Ma era ubriaco, con gli occhi vuoti e stupidi. Non mi sembrava il caso, no? Io non voglio che questo incubo turbi i miei ricordi futuri.”

“No, per carità, hai ragione.” È incredibile come a volte ci si senta sollevati anche col solo rimandare una decisione dolorosa, seppure necessaria.

“Andiamo verso le montagne, fra tre ore saremo a San Cristobal, a 2300 metri. Cercheremo là un veterinario.”

Ci mettemmo in cammino. La strada cominciò a inerpicarsi verso Ocosingo. Non c’era traffico. Regnava un silenzio insolito nella cabina di guida, un silenzio più forte del rumore del motore. Poi Patrizia, a un tratto ruppe quel silenzio, proponendomi una cosa per la quale le sarò grato fino alla fine dei miei giorni: “Quando arriverà il momento… perché non lo facciamo noi? Non ti sembra più appropriato?”

“Sì, sono d’accordo. Sarà confortante rimanere soli nel nostro dolore. Non riusciremmo mai a dar sfogo alle nostre emozioni nella clinica di un estraneo. Ma come lo faremo?”

“Gli daremo una forte dose di aspirine, l’unica cosa che abbiamo. Non soffrirà. Probabilmente morirà nel sonno.”

Andrea intanto, ai piedi di Patrizia, respirava affannosamente. Ogni tanto sollevava il capo, che poi ricadeva di peso sul pavimento della cabina. Forse voleva dirci qualcosa, forse voleva uscire, forse aveva bisogno di urinare. Generoso com’era sempre stato, lo fu fino all’ultimo: anche in quelle condizioni, non la voleva fare dentro. La notte precedente aveva fatto la popò dentro, forse aveva cercato di chiamarci ma noi eravamo troppo sfiniti per svegliarci, o forse non aveva avuto nemmeno la forza di chiamarci. Dopo averlo portato fuori di peso, come oramai eravamo abituati a fare, lo mettemmo in piedi in uno spiazzo d’erba sul ciglio della strada. Patrizia lo sorresse ma lui cadde. Non riusciva proprio a urinare. Pregai Patrizia di sorreggerlo per il tempo necessario a fargli due fotografie. Sapevo che sarebbero state le ultime.

Ripartimmo, ma dopo alcuni chilometri, dopo l’ennesima volta che Andrea alzò la testa e la rilasciò cadere pesantemente sul pavimento, prostrato, impotente, non riuscii più a trattenermi. Gli occhi mi si riempirono di lacrime, tutto divenne sfocato. Non riuscivo più a vedere la strada. Dovetti fermarmi.

“Voglio dirti, Patrizia, quanto ti sono grato per la tua proposta di farlo noi. Te ne sarò sempre grato. Questo cambia molte cose. Ti voglio tanto bene. Pensa soltanto al fatto di poter piangere, io e te, così, mano nella mano. Poterci abbracciare. Mai e poi mai lo potremmo fare senza reprimerci nell’ambulatorio di un veterinario, quando verrà il momento.”

“Quando verrà il momento… ” ripeté con uno sguardo pieno di tristezza. La sua voce incrinata esprimeva quello che io rifiutavo di riconoscere: “Guarda laggiù. Dai un’occhiata alla bocca... ”

La gengiva sinistra, immediatamente sotto uno dei molari, era ricoperta di una sostanza marrone e così il molare.

Il pus si era esteso a tutto il corpo. L’infezione era dappertutto, compresa la bocca.

“Aiutiamolo a morire… ”

Ma, ancora una volta, un istinto irrazionale mi spinse a rinviare la decisione fatale. Rimisi in moto. Non avevo abbastanza coraggio.

Ripartimmo, ma percorremmo pochi chilometri. Ci fermammo di nuovo. Tutta la gengiva sinistra e i denti superiori erano coperti dalla stessa sostanza putrescente, viscida e filosa. Toccai quella gengiva e la odorai: una sensazione orribile. Andrea respirava a fatica, gli occhi sofferenti, eppure lucidi.

“Adesso?” chiede Patrizia.

“Adesso” ma il cuore mi si lacerava nel petto.

C’erano sedici aspirine sul cruscotto. Mentre Patrizia cominciò a infilargli in gola la prima, io lottavo contro un groppo allo stomaco. Invano. È come se la tensione degli ultimi due mesi si fosse tutta concentrata in quell’attimo. Salì fino in gola una irrefrenabile voglia di urlare. E infatti fu quasi un urlo quello che riuscii a dirgli. Se non avessi urlato, i singhiozzi avrebbero soffocato le parole. Ma io volevo dire. Volevo dirgli tutto quello che sentivo. Era la mia ultima occasione.

“Sei stato un grande amico. Il più grande amico” gli dissi chinandomi, mentre gli sollevavo il bel musetto sofferente. Subito mi resi conto dell’inadeguatezza delle mie parole: senza volerlo, mi ero rivolto a lui come se… come se già… “Ma non si può andare avanti così. Perdonaci. Perdono. Sei il nostro più grande amico… ma non è possibile, perdio, che tu continui a soffrire tanto. Ti vogliamo tanto bene. Tanto bene.”

Gli rilasciai il musetto per permettere a Patrizia di infilargli in gola le altre pastiglie. Un compito ingrato. Ero già talmente fuori di me che non mi ero accorto di quante pastiglie gli aveva già dato.

“Quante sono?” le domandai.

“Tre, finora.”

Le scostai istintivamente la mano, in un gesto tanto irrazionale quanto inutile.

Poi mi calmai e lasciai che Patrizia andasse fino in fondo. Come le volevo bene!

Alla decima mi chiese: “Sono dieci, basta cosi?”

“Quante ne abbiamo ancora? Altre sei? Meglio dargliele tutte, soffrirà meno.” E Patrizia, con la consueta pazienza, gli infilò in bocca le ultime sei. Andrea non reagiva, ci guardava e basta.

Erano le 15:00. Non potevo chiedere a Patrizia che cosa provava. Era rimasta silenziosa, fino ad allora, senza piangere. Quando scoppierà, pensavo, sarà straziante.

“Ripartiamo?”

“Ripartiamo.”

Io, per conto mio, ero tranquillo, in pace con me stesso. Lo sfogo, le lacrime, le parole, avevano prodotto dentro un effetto balsamico. Avevano lavato molte ferite. Sapevo che per Patrizia non era ancora così. Per me, la fine di Andrea, in un certo senso, si era già compiuta: anche se, abbassando lo sguardo, mentre guidavo, lo vedevo ai miei piedi che respirava! Sarebbe sembrato normale, se non fosse stato per quel respiro affannoso e tutto quel pus. E per la estrema debolezza. Sollevò più volte la testa ma non aveva più controllo. Essa ricadeva un’istante dopo sul pavimento. Interpretammo che, forse, voleva fare pipì. Dovetti aspettare in uno dei pochi rettilinei, perché la strada continuava a salire a curve ravvicinate.

“Un ultimo atto di pietà, povero tesoro” le dissi.

E cosi, per l’ultima volta Patrizia lo sollevò da un lato, io dall’altro. Lo portammo fuori dalla cabina. In due lo sorreggemmo affinché non cadesse. Ma non uscì nulla da quel corpicino emaciato.

Ripartimmo per risalire ancora. Era passata un’ora da quando Patrizia gli aveva infilato in bocca le aspirine.

“Soffrirà quando faranno effetto? Perché ci mettono tanto?”

“Credo che si addormenterà senza soffrire” asserì Patrizia con la voce velata di pianto. E poi, finalmente scoppiando in singhiozzi, si rivolse ad Andrea: “Vedi, anche stavolta abbiamo mantenuto la promessa. Ti abbiamo portato in montagna.” Era straziante e fu anche l’ultima frase che Andrea poté udire.

Alle 15:25, dopo un sobbalzo tremendo del corpo, finì col muso contro il mio zoccolo destro, pigiato sull’acceleratore.

“Cosa succede? Guarda un po’” dissi a Patrizia.

“Ci siamo, credo.”

Mi fermai immediatamente: feci appena in tempo a vedere l’ultima contrazione del capo e del corpo. La lingua uscì di lato dalla mascella semichiusa.

“Devono essere le contrazioni dopo la morte... ”

“Sì, è morto, non respira più” si assicurò Patrizia, chinandosi su di lui. “Non deve aver sofferto. Sembrava un attacco di cuore.”

Gli chiusi gli occhi. Non per seguire la prassi. No. Solo perché non riuscivo a sopportare di rivedere quegli occhi, adesso del tutto privi di quella penetrazione, gioia di vivere e umanità che erano parte della sua personalità.

Ripartimmo, in cerca di un luogo adatto per lasciarlo.

“Uno qualunque, dove ci si può fermare” disse Patrizia, “oramai non ha più importanza.”

La strada saliva e saliva, implacabile, priva di rettilinei e di spazi a lato. Attraversammo un paese: lì non volevamo lasciarlo. Troppa gente. Troppe domande. Proseguimmo.

Qualche chilometro oltre il paese, attraversai la corsia in senso contrario e fermai il veicolo nel primo spiazzo sulla sinistra. Spensi il motore.

Portammo fuori Andrea. Poi lo presi in braccio da solo, tutto duro e stecchito. Quante volte, nelle ultime settimane lo avevo preso in braccio, nei giorni della terapia e dei massaggi, per risparmiargli sforzi inutili quando vedevo che era stanco, per farlo risalire nel camper. Ma allora c’era ancora speranza…

Patrizia, vedendo il cadaverino che si allontanava, tra le mie braccia, dalla strada soprastante scoppiò in un pianto incontrollato. Urla spezzate, altissime che contenevano parole umane, attraversarono il fogliame del bosco. A mano a mano che discendevo, la natura, muta nei fusti e nelle fronde, dava l’impressione di ritrarsi atterrita, squarciata in due da quei singhiozzi disincarnati.

Scesi altri passi nella scarpata erbosa: era un bel paesaggio, quasi idillico, se non fosse stato che… se non fosse stato per… I pensieri si attorcigliarono in un groppo nella gola.

Mi fermai ai piedi di un grande albero, con un fusto straordinariamente attraente. La ruvida corteccia sembrava respirare. Le robuste radici centenarie si innalzavano come scialli inamidati a formare un incavo naturale sopra il manto erboso, coperto di foglie secche. Là, adagiai il corpo.

“Sì, lì va bene” singhiozzava Patrizia da sopra la scarpata, “a fertilizzare la terra per quel gigante buono.” Il suono di quelle parole mi fece correre i brividi lungo la spina dorsale.

“Non voglio più vederle!” piangeva Patrizia sconsolata, lanciando le due ciotole nella scarpata. “Non potrei sopportare di vederle nell’autocaravan.”

Io capivo e rispettavo. Ah, se capisco tanto dolore... Era anche il mio. Raccolsi la ciotola beige, quella grande, del cibo. Sollevai anche quella verde, più piccola, dell’acqua. Le disposi una dentro l’altra, come avevamo fatto tante volte prima di partire, e le deposi vicino al capo di Andrea. “Ciao piccolino. Ciao, guerriero valoroso.”

E mentre risalivo la scarpata, mi volsi per l’ultima volta, per non dimenticare mai più. Mai più. Arrivarono per ultimi, volando sopra la mia testa, i flaconcini delle medicine che Patrizia gettava giù uno dopo l’altro, arrestando il loro moto vicino al corpo che riposava su un fianco. Io vidi una pioggia di fiori.

Risalimmo nel camper. Il tachimetro segnava il km 91. Novantuno chilometri da Palenque. Patrizia lo annotò nel taccuino.

Gialla, sul cruscotto, c’era l’ultima sua palla da tennis. Quasi nuova. Patrizia le diede un’occhiata indecisa.

“Questa no” dissi, prima di accendere il motore. “Dovrà restare qui, per chi verrà dopo: quando sarà tempo.”








[1] Unità di misura comunemente impiegata in Messico e Centro America per misurare la lunghezza visiva.

Nessun commento:

Posta un commento