Andrea: cronaca di una morte, una storia d'amore
Non ho mai tenuto diari, neppure un diario di bordo (che sarebbe stato obbligatorio) durante i ventitre anni di navigazione a vela. Eppure, di quei due mesi terribili ho buttato giù una cronaca dettagliata, proprio mentre accadeva l’inevitabile. Come allora sia riuscito a scrivere quello che ho scritto, ad arrivare fino all’ultima goccia d’inchiostro per trascrivere un resoconto obiettivo dei fatti, in quel mutevole
alternarsi giornaliero di oscuri pozzi di disperazione e sparsi germogli di ottimismo, di lacrime di dolore che rovinavano le parole del taccuino e di deboli braci di speranza, mi è difficile crederlo adesso, mentre mi accingo a rileggere quella cronaca dettagliata che è diventata, senza modifiche sostanziali, la storia seguente. Rileggere quella storia, a ventiquattro anni dalla morte di Andrea, ha riaperto purtroppo ferite che credevo rimarginate”.
Se la lettura di questa storia ha risvegliato in voi emozioni, ricordi e riflessioni legate alle vostre care bestiole, vi prego di condividerla.
Fabrizio Accorsi
Andrea ci ha lasciati. Il suo cuoricino generoso ha dato l’ultimo poderoso sussulto alle ore 15:30 di ieri, 4 luglio 1993, sulla strada che da Palenque conduce a Ococingo, in Mexico. In viaggio, come doveva accadere per colui che sia gli americani sia i locali avevano sempre chiamato “il cane viaggiatore”: un viaggiatore in cinque continenti. Sulla strada verso le montagne, come gli avevamo promesso. Ai piedi di Patrizia, nell’autocaravan, “ai posti di combattimento”, come gli dicevamo quasi sempre prima di ogni spostamento. Voglio ripercorrere adesso e condividere con chi legge il calvario che lo ha segnato, e ci ha segnato, negli ultimi due mesi.
Dopo il mio ritorno dall’Italia, l’8 di maggio, Andrea
ripresosi dal primo attacco del 26 di aprile, camminava in modo regolare, anche
se un po’ più lentamente del solito.
Il 13 maggio, giovedì, in una spiaggia vicino a Cancún,
si svegliò debole, con la temperatura a 40.7 (la febbre, nei cani, comincia a
38.6) e si reggeva a malapena sulle gambe. Il veterinario di un attrezzatissimo
ambulatorio di Cancún gli diagnosticò un’infiammazione ai reni, evidentemente
scambiando l’eccessivo grasso per gonfiore. Gli somministrò un analgesico e un
antibiotico, entrambi per endovena.
La mattina seguente lo riportammo dallo stesso medico per
un controllo. Camminava bene, anche se più lentamente del solito. La febbre era
scesa e il veterinario gli somministrò un antibiotico e un tonico per endovena,
oltre a un po’ di ipodermoclisi dato che si rifiutava di mangiare. Gli
prescrisse, poi, antibiotici e antiinfiammatori in pastiglie da dargli due/tre
volte al giorno per gli otto giorni successivi.
Riscontrammo un notevole miglioramento, tanto che
riprendemmo a farlo passeggiare quasi regolarmente in spiaggia (4 chilometri),
anche se adagio. Faceva di nuovo il bagno, all’apparenza senza problemi. Così,
moderatamente ottimisti, ci avviammo verso sud fino a raggiungere Tulum,
distante circa 130 chilometri da Cancún.
Sabato 22 maggio, verso le 16:00, si ripresentarono
improvvisamente sintomi di estrema debolezza, convulsioni e confusione mentale.
Si reggeva in piedi a fatica e ogni tanto sbandava come un ubriaco a causa
dell’instabilità delle gambe anteriori.
Alle 17:00 lo portammo dall’unico veterinario di Tulum,
il quale non aveva né un ambulatorio né le attrezzature basilari. Trovai
snervante la sua indecisione. Senza nemmeno visitarlo, gli prescrisse delle
pastiglie per i vermi (per quattro giorni, una al giorno) attribuendo a quelli
la debolezza, ed escludendo che potesse trattarsi di un problema ai reni. Detto
per inciso, avevamo dato ad Andrea un’aspirina, che gli aveva fatto subito
effetto, abbassandogli la febbre. Questo, in retrospettiva fu uno sbaglio,
perché il medico fu indotto in errore nel vederlo camminare normalmente: anzi,
Andrea aveva addirittura la velleità di correre dietro alla cagnetta del
dottore!
L’indomani stava bene, tanto che ci accompagnò durante la
nostra (prima) visita alle rovine di Tulum e volle persino fare il bagno nelle
acque sotto le mura. Glielo permettemmo, assicurandoci che non si affaticasse.
Lunedì 24 fummo costretti a ritornare verso nord, a Playa
del Carmen (70 km a sud di Cancún e 60 a nord di Tulum), per una riparazione a
una delle balestre.
La notte del 24, come già molte volte in precedenza, lo
facemmo dormire fuori, perché respirava con affanno a causa del calore molto
intenso.
La mattina seguente, il 25 di maggio, non stava bene
perciò ritornammo dal primo veterinario. Si profilava infatti all’orizzonte un
ulteriore problema: dovevamo assolutamente uscire dal Messico perché il visto
sarebbe scaduto entro una settimana. Ma questo era il male minore. Purtroppo,
il vaccino contro la rabbia era scaduto e le condizioni di salute di Andrea
consigliavano prudenza. Il veterinario lo visitò di nuovo. Nel frattempo, il
povero animale era visibilmente dimagrito per aver saltato molti pasti.
Scambiando il dimagrimento all’altezza dei reni per una recessione
dell’infezione, il veterinario si era ancora di più convinto che si fosse
trattato di infiammazione ai reni o, ancora peggio, di calcoli ai reni. Ci
consigliò di somministrargli gli stessi antibiotici per altri tre giorni, con
la speranza che la febbre diminuisse, per potergli inoculare il vaccino contro
la rabbia.
Per tre giorni gli somministrammo gli antibiotici, anche
se poco convinti della loro efficacia, in quanto si trattava dello stesso tipo
di antibiotici e delle stesse dosi. Come già detto, c’era stato un cedimento
momentaneo anche nelle gambe anteriori e questo ci aveva spinto a chiedere al
veterinario se fosse stato il caso di aiutare il cane con la somministrazione
di calcio, data l’età avanzata. Ma lui era convinto che si trattasse di
reumatismi. Rimanemmo d’accordo, comunque, che dopo un paio di giorni in Belize
saremmo ritornati da lui per gli esami dell’urina e le radiografie ai reni.
Finalmente percorremmo verso sud i 400 chilometri che ci
separavano dal confine. A Chetumal, la prima città che si incontra in Messico
dopo la dogana belizeana, arrivammo il 28 maggio. Avevamo solo quattro giorni
per fargli il vaccino.
Il 28, la febbre si ripresentò; siccome era risalita
oltre i 40 gradi, lo portammo da un veterinario, il quale escluse
tassativamente problemi ai reni e diagnosticò una deficienza di calcio
(malgrado noi ci fossimo guardati bene dal suggerirglielo, per non influenzare
la sua decisione).
Dovemmo renderci conto, con somma frustrazione, che
avevamo perduto quindici giorni cruciali, durante i quali Andrea era stato
curato per una diagnosi sbagliata. Si era così ulteriormente indebolito a causa
degli antibiotici, specifici per i reni. Il veterinario gli fece subito due
endovene, una di calcio e una di analgesico per il dolore e per tenere la
febbre sotto controllo. Lo informammo della nostra necessità di uscire dal
Messico e della vaccinazione. Gli prescrisse quindi pastiglie di calcio,
dicendoci di ritornare entro tre giorni. Nel caso la temperatura si fosse
normalizzata, gli avrebbe fatto la vaccinazione.
Dopo due giorni, però, Andrea stava male.
A un certo punto Patrizia notò nelle feci un verme vivo,
che identificammo in uno dei nostri libri. Anticipammo pertanto di un giorno il
nostro appuntamento con il veterinario, portandogli il verme in un barattolo.
Lui gli diede due pastiglie, commentando che quelle che gli aveva somministrato
il veterinario di Tulum non erano sufficientemente forti per quel tipo di
vermi. La mattina seguente trovammo nelle feci altri due vermi e moltissime
uova. Siccome nel frattempo la febbre era scomparsa, il veterinario, ritenendo
che non ci fossero controindicazioni, gli inoculò il vaccino contro la rabbia.
C’è una piccola lezione di cui fare tesoro: mai giudicare un veterinario dalla
mancanza dell’attrezzatura tecnica, né dalla sua riluttanza a visitare il cane.
In realtà, fino a quel momento, quel modesto veterinario di campagna era stato
quello che si era avvicinato più di ogni altro alla risoluzione di almeno uno
dei problemi.
Attraversammo il confine, entrando in Belize il 2 giugno.
Dal giorno 2 al 14, la salute di Andrea non andava poi
così male. Patrizia continuava a somministrargli, una volta al giorno, 10 cm[1] di calcio con una grossa siringa infilata direttamente
nella gola. Lui accettava ogni cosa con pazienza e speranza, e dava segni di
progressiva ripresa.
Il giorno 6, incoraggiati dalla magnitudine del suo
miglioramento, lo portammo a fare una passeggiata di sei chilometri. Quando
oramai ci eravamo convinti che il problema fosse stato la deficienza di calcio,
il giorno 14 ci fu una ricaduta sulle colline di San Ignazio. Lo avevamo
portato in collina con la speranza che il clima più fresco gli facesse
acquisire una maggiore energia e anche perché un americano ci aveva detto che
lì vicino c’era una clinica veterinaria molto quotata.
Non appena entrammo nell’ambulatorio, ci rendemmo conto
della professionalità, intelligenza, disponibilità e sensibilità del medico, un
giovane di colore sui trentacinque anni. Per la prima volta ci sentimmo in
buone mani e il fatto che ascoltasse con attenzione e sincero interesse tutto
quello che gli dicevamo sul decorso della malattia, ebbe un effetto
tranquillizzante.
Alla fine del nostro racconto procedette a un prelievo di
sangue, che avrebbe dovuto accertare la condizione di fegato, reni, eventuali
vermi nel cuore (filaria – una malattia mortale). La visita fu prolungata e
accuratissima. Verificò perfino le condizioni della prostata, attraverso un
esame anale. Inserendo un ago in vari punti della schiena determinò che i
riflessi erano ottimi, anche se la sensibilità della pelle era un tantino
eccessiva. Andrea, che capiva benissimo l’intenzione del medico e la nostra, si
dimostrò paziente e docile.
Siccome la febbre era nel frattempo salita a 41.5, gli
fece un’endovenosa e ci pregò di ritornare il giorno seguente per i risultati
degli esami, che sarebbero arrivati da Belize City. Gli promettemmo di
controllare il decorso della febbre alcune volte al giorno e di tenerlo
aggiornato.
Da mercoledì 16 giugno al 4 di luglio misurammo la febbre
ben ottantadue volte, con una frequenza che andava da una a nove volte al
giorno, a seconda della necessità e/o della nostra preoccupazione. Durante i
periodi di febbre, respirava con affanno; quando ne era privo, ritornava a
respirare normalmente.
Il risultato degli esami fu sorprendente: tutti gli
organi erano in una condizione eccellente; però era stata rilevata anche
un’infezione in stato avanzato, che, nonostante tutto, non si riusciva a
localizzare. Non era nei reni, non era nel fegato né nei polmoni. Dove allora? Di
nuovo gli furono somministrati antibiotici contro la misteriosa infezione e
steroidi per tonificare i muscoli, disinfiammare e tenere bassa la temperatura
corporea.
Il 16 giugno la febbre si mantenne tutto il giorno fra
39.3 e 39.7, cifre nei limiti dell’accettabile secondo l’opinione generale
della medicina veterinaria, ma io non ne ero oramai troppo convinto.
Il 17, finalmente, scese a 38.5 con una punta di 38.8 la
sera. Ricominciammo a sperare. Andrea, dopo due giorni di digiuno e di quasi
immobilità, ricominciava a mangiare: era un buon segno. Tuttavia era molto
dimagrito. La sofferenza nei suoi occhi non prometteva niente di buono.
Il 18, al mattino presto mangiò biscotti e carne. La
temperatura risalì da 38.6 a 39.0 alle 19:00 e alle 21:00 era 38.9.
Sabato 19, al mattino, era di 38 gradi; alle 13:00, 38.3.
Gli comprammo una palla da tennis, che gli lanciavamo a
una distanza di soli tre/quattro metri affinché non si stancasse.
Che giorno meraviglioso il 19 giugno! Andrea, dopo
settimane interminabili, era ritornato praticamente normale. La vita tornava a
sorridere. Dopo la moderata attività fisica, la temperatura si mantenne
stabilmente nella norma. Che sensazione meravigliosa vederlo divorare il pollo
che gli avevamo messo davanti! Quella sera, per la prima volta in settimane di
sofferenza, riuscimmo ad addormentarci subito e a riposare tranquilli.
L’indomani, domenica 20, alle dieci del mattino, la
temperatura era di 38.3. Meraviglioso! 38.6 alle 16:00. Le nostre sofferenze e
preoccupazioni sembravano oramai archiviate nel passato. Anzi, non erano mai
esistite. E anche quelle di Andrea.
Campanello d’allarme alle 21:00. La temperatura era
risalita a 39. Non mi piacque.
Lunedì mattina alle 8:00 era scesa a 38.7, alle 15:00 a
38.4. Ci tranquillizzammo: si era trattato di un falso allarme?
Ma il termometro, nel pomeriggio, non ci diede buone
notizie. La temperatura risalì a 38.8 alle 19:00 e alle 22:00 toccò addirittura
i quaranta. Che cosa stava succedendo? Perché? Ricominciarono gli incubi. Gli
facemmo ingoiare un’aspirina. Andrea non stava bene. Di nuovo. Il nostro
ottimismo era ancora una volta minato.
Il mattino seguente lo riportammo dal veterinario, che
gli fece un ennesimo prelievo di sangue per monitorare il decorso
dell’infezione; per vedere, cioè, se i globuli bianchi, che secondo quanto
rivelato dal primo esame erano due volte e mezzo più alti del normale, erano
ancora a quel livello.
Martedì mattina, 22 giugno, alle 7:00 precise, il
termometro segnava 38.9. La temperatura, nel corso della giornata, salì
progressivamente fino a raggiungere i 40 gradi alle 18:30. Alle 22:15 era ferma
sui 40.
Ci aveva già colto la disperazione: da alcune ore, le
gambe posteriori di Andrea erano paralizzate. Quella notte incominciai a
massaggiargliele per un’ora, e poi per molte volte al giorno nei giorni
successivi, fino alla fine.
Telefonammo al dottore (la clinica era a dieci chilometri
dalla città). Non c’era. Verso sera, lo richiamai a casa: mi disse che l’esame
del sangue era risultato negativo. I globuli bianchi si erano normalizzati. Che
ironia. Adesso che tutto era regolare, Andrea era paralizzato! Gli massaggiai
le gambe la maggior parte della giornata, seduto sull’erba. Come sempre, la
cosa più penosa e allarmante rimaneva quella di non riuscire a mettere a fuoco
il problema.
Patrizia mi stava sempre vicino e quando non c’era
cercava una soluzione in quel poco di libri che avevamo nell’autocaravan.
Ogni tanto lo sollevavamo rimettendolo in piedi per
aiutarlo a urinare, ma abituato a farla lontano, a cercare lui il posto adatto,
la teneva fino all’ultimo momento. Caro
tesoro generoso, se tu me l’avessi fatta in mano o nei vestiti, in quel momento
sarebbe stato il più bel regalo. Ma tu non potevi saperlo.
Di defecare non se ne parlava; dopotutto non mangiava da
due giorni.
Le zampe posteriori erano diventate due stecchetti.
Quando lo spostavamo in due per accostarlo sull’altro lato e fargli così
riposare l’altra parte del corpo, avevamo paura di rompergli le ossa. Era la
fine? Oh speranza... oh speranza... che sei sempre l’ultima a... Quella era una parola che non riuscivo a
pronunciare.
Nel migliore dei casi, sarebbe rimasto paralizzato per
sempre. Dovevamo arrenderci? No! Dovevamo lottare insieme a lui... Forse non
tutto era perduto. Era vivo!
Il 23 di giugno fu una giornata d’inferno, non finiva più
e quando finì, non era ancora finita. Alle 10:00 del mattino seguente, la
febbre era a 40 gradi e così all’una. Alle 16:00 scese a 39.7 e alle 19:00 a
39.2. Andrea restava paralizzato. Dopo un giorno e mezzo in simili condizioni,
le speranze erano ridotte a un lumicino. Le sue condizioni fisiche erano
pietose. Eppure si manteneva lucido e, a tratti, il respiro era perfino
normale.
Adesso avevo cominciato anch’io a leggere sulla medicina
alternativa, tra un massaggio e l’altro, tra un pianto e l’altro.
Mi ricordai che da qualche parte, nell’autocaravan,
avevamo quattro libri che descrivevano brevemente tutti i metodi alternativi di
guarigione allora conosciuti al mondo. I quattro volumetti erano appunto
intitolati 100 modi per guarire, una
pubblicazione della Mondadori. Si trattava di metodi naturali, cure con il
sole, l’acqua, il fango, la terra, le erbe, lo yoga, i massaggi, e tantissime
altre.
Cominciai a palpare Andrea dappertutto, alla ricerca non
sapevo nemmeno io di cosa, ma consapevole che le carezze, i toccamenti, i
massaggi, tutto ciò che viene dato con amore può trasformarsi in un’ottima
medicina. Riflettevo costantemente che tutto questo ha prodotto, a volte,
modificazioni a livello cellulare, con guarigioni che si sarebbero potute
definire miracolose perché tanto repentine quanto inaspettate.
Incominciammo a fargli anche massaggi sulla schiena con
panni gelati, per stimolare il corpo a rivitalizzare le cellule con una
reazione di calore. Chissà, forse i massaggi alle cosce, le spugnature di acqua
gelata sulla schiena, le carezze, che lui per la prima volta nella sua vita
accettava senza lamentarsi, avrebbero attratto endorfine dove era necessario:
forse, non tutto era perduto.
Avevamo in programma di ritornare alla clinica il mattino
seguente, all’ora di apertura, per condividere col veterinario un’idea che mi
era stata suggerita da uno dei libri menzionati sopra. Si trattava di una
terapia fisica da eseguire nell’acqua, in questo caso nel fiume di Sant’Ignazio,
su una delle cui rive sopraelevate dormivamo nell’autocaravan.
“Patrizia, domani mattina andiamo alla clinica. Appena ne
usciamo, ritorniamo al fiume e mettiamo Andrea nell’acqua con il suo giubbotto
salvagente, cosicché potrà galleggiare senza affaticarsi: la corrente, agendo
sulle gambe, potrebbe avere un effetto rivitalizzante. È un tentativo
disperato, quasi contro la logica. Ma, anche quando le speranze sono ridotte a
una fiammella, come si può stare con le mani in mano? Nell’acqua potremo anche massaggiargli
meglio le gambe posteriori.”
“Sì, faremo così” disse calma Patrizia, “dobbiamo provare
tutto, anche se pensiamo che ci sia soltanto una possibilità su un milione!”
Per fortuna Patrizia era meno in crisi di me e mi faceva
coraggio. Come poteva. Io alternavo momenti di speranza con prospettive di
questo o quell’altro tipo di terapia, a momenti di sgomento.
Arrivammo alla sera, poi a notte inoltrata. Ero sfinito,
anche quella giornata era stata durissima, micidiale per il mio corpo e per il
mio sistema nervoso. Ma non riuscivo a prendere sonno. Poi vinse la fatica e mi
addormentai. Quando mi svegliai, nel bel mezzo della notte, maturai una
decisione: se Patrizia fosse stata d’accordo, non ci saremmo fermati dinanzi
alla paralisi. Avremmo comprato ad Andrea una di quelle seggioline di cuoio che
usano gli americani per portarci i bambini dietro la schiena. Lo avrei portato
io sulle spalle, e con un po’ di allenamento saremmo andati dappertutto, come
prima. Lo avremmo aiutato noi a urinare e a defecare. Dopo un po’, si sarebbe
abituato.
Adesso mi sentivo più rassicurato, forse sarei riuscito a
prendere di nuovo sonno. Invece non ce la facevo, perché Andrea faticava ad
addormentarsi. Gli presi la testa tra le mani, e lui sapeva già quello che gli
avrei detto. Mi fissava con quegli occhi! E quello sguardo mi dava coraggio,
contro una sorte avversa e crudele. Avrei fatto qualsiasi cosa perché quello
sguardo non ci abbandonasse... Perché quel contatto non si spezzasse...
“Andrea, guerriero valoroso, domani torneremo dal
dottore. Faremo qualcosa” quegli occhi si illuminarono di speranza.
“E poi faremo la terapia in acqua con il giubbotto
salvagente. Vedrai, sarà divertente, l’acqua è una buona medicina. Non mollare,
lotta guerriero. Ti vogliamo tanto bene, non ti abbandoneremo.”
Gli misurai la febbre: 39.2. Andrea aveva ripreso a
respirare normalmente. Gli misi le zampine morte da un lato, attento a non fare
movimenti dannosi. Se ci fosse stata anche una sola speranza! Ritornai a letto
e mi addormentai, vinto dalla fatica. Fu una lunga notte, piena di incubi. Ogni
volta che ci svegliavamo, lo palpavamo per controllare se era ancora vivo;
l’unica cosa che contava oramai. Nel frattempo, la stanchezza aveva preso il
sopravvento e si era addormentato.
“Dormi, riposa, che riposare fa bene” gli avevamo
ripetuto molte volte quando stava bene. Tanto più adesso che ne aveva bisogno.
“Riposa, guerriero stanco” gli dicevamo quando ritornava a casa sfinito dopo
aver fatto la corte a una cagnetta per ore e ore e combattuto con altri cani,
possessivo fino allo stremo delle forze: lui la sua cagnetta la voleva per sé,
non voleva dividerla con altri. A volte, dopo ore e ore di amore e vigilanza,
qualche altro pretendente all’amore finiva per menarlo. E noi a curare le
ferite.
Adesso dormiva e io gli sussurravo, per non svegliarlo:
“Dormi, riposa guerriero, che domani questo bravo dottore ti curerà di nuovo.
Lo sai che i dottori neri sono anche più bravi di quelli bianchi?”
Il mattino di giovedì 24, alle ore 7:00, la temperatura era
di 39.7. Prima che aprisse la clinica, eravamo già fuori dalla porta. Il
dottore lo visitò, verificando in primo luogo la condizione delle gambe: c’era
preoccupazione nei suoi occhi. Come già avevamo constatato noi, la destra era
totalmente insensibile, mentre la sinistra reagiva appena a un fortissimo
pizzicotto.
Gli fece un’iniezione di steroidi, nella speranza di
ripristinare il tono delle gambe, poi gli prescrisse steroidi in pastiglie in
dosi doppie alle precedenti da somministrargli – disse – probabilmente a vita.
Gli accennai alla fisioterapia in acqua; anche lui
sembrava pensare che ci fosse una qualche possibilità di successo (con quale
convinzione, non riuscii a determinarlo).
Restava finora ignota la causa dell’infezione,
quell’elusiva infezione che, secondo gli ultimi esami era scomparsa nel nulla.
Il dottore ci informò che la paralisi alle gambe era
molto comune, anzi la norma, nei casi di vecchiaia. Io e Patrizia, invece,
credevamo che la combinazione di paralisi e febbre fosse indicazione di
qualcosa fuori della norma. Forse, qualcosa che la medicina veterinaria non
aveva ancora scoperto?
Facemmo notare al dottore che nel caso in questione
sembrava essere in gioco qualcosa di diverso, forse un problema alla spina
dorsale. Perché, quando riusciva ancora a stare in piedi, a volte si sedeva
toccandosi alcune delle vertebre. A questo punto, il dottore suggerì una
radiografia alla spina dorsale. Però ci disse anche che c’era un grosso
problema. Non esisteva in Belize, allora, una sola clinica per animali
attrezzata a questo scopo. Suggerì di fare un tentativo in un ospedale per
umani che si trovava a qualche chilometro di distanza.
“Fino a poco tempo fa, facevano radiografie anche ad
animali” disse il veterinario, “ma in seguito a lamentele da parte dei
pazienti, adesso si rifiutano di ricevere animali.”
Quando uscimmo dall’ambulatorio, con una nuova tenue
speranza, ci dirigemmo verso l’ospedale.
Il tecnico dei “raggi X” fu inflessibile: no, non c’era nessuna possibilità di fare
delle radiografie a un cane nel suo ospedale. Però, dopo che gli ebbi
spiegato la situazione in dettaglio, ebbe un momento di esitazione, rivolse uno
sguardo fuggevole ad Andrea (che io tenevo tra le braccia) e si diresse verso
un tavolino. Mentre Patrizia mi diede un’occhiata piena di speranza lui sollevò
la cornetta e telefonò all’ospedale di Belmopan, la capitale, che si trova a 36
km di distanza. Ne risultò un appuntamento per le 11:30.
Alle 11:15, con Andrea tra le braccia e Patrizia al mio
fianco, entrai nella sezione “raggi X” dell’ospedale. Mentre aiutavo Andrea a
sdraiarsi sul lettino, gli spiegai che doveva rimanere assolutamente immobile.
E Andrea rimase immobile per tutto il tempo necessario. Com’era comprensivo e
docile, pur devastato dal dolore! “Meglio di un paziente!” commenterà il
tecnico, alla fine.
Dopo una mezz’oretta, uscimmo di là con quattro
radiografie. Mentre guidavo verso San Ignacio, provai un piacevole senso di
soddisfazione.
Dato che il veterinario sarebbe stato disponibile solo il
giorno seguente, la cosa più importante era quella di cominciare la terapia
dell’acqua nel fiume che bagna San Ignacio.
Negli ultimi due giorni, Andrea aveva perso ulteriormente
peso e mangiava soltanto carne e biscotti, quando mangiava.
Parcheggiammo l’autocaravan sulla scarpata sopra la riva
del fiume, nello stesso punto preciso in cui avevamo dormito nelle ultime
settimane, e discendemmo lungo il pendio fino all’acqua.
Gli infilammo la giacchetta salvagente, quel giubbotto
rosso che avevamo comprato negli Stati Uniti appositamente per lui e che fino
ad allora aveva usato soltanto come cuscino nel kayak. Gli spiegammo per
l’ennesima volta che se c’era una speranza di camminare di nuovo, questa era
rappresentata dalla terapia dell’acqua, come oramai la chiamavamo. Andrea ci guardava
con i suoi begli occhi, che brillavano fiduciosi. Per un attimo mi attraversò
la mente il pensiero che avrebbe potuto farcela!
Lo mettemmo nell’acqua, dove non toccava il fondo. Ci
disponemmo accanto a lui, in piedi, con l’acqua alle cosce, io da un lato e
Patrizia dall’altro.
Durante i primi due/tre minuti, abituato com’era a
nuotare, continuò per riflesso condizionato a muovere le zampe anteriori. E
mentre io lo sorreggevo per la parte anteriore del giubbotto salvagente,
Patrizia controllava le gambe posteriori.
Ci accorgemmo subito che la corrente, piuttosto forte,
rendeva difficile determinare con certezza se le quasi impercettibili
vibrazioni dei muscoli delle gambe posteriori erano provocate dalla corrente
stessa o da una ripresa dell’attività muscolare. Passarono alcuni minuti.
“Fabi, si muovono! Si muovono!” gridò Patrizia, dopo aver
percepito una vibrazione più forte in entrambe le gambe posteriori.
Non riuscivo a crederci. “Sei sicura? Ho paura a
controllare” temevo che fosse tutto un sogno.
“Sì, si muovono, e non è la corrente!” confermò Patrizia
“Sì, è un movimento debole, ma si muovono!” Non ricordo di averla mai vista
così eccitata.
Nel frattempo, le zampe anteriori si muovevano
normalmente con il tipico moto rotatorio. Lo incoraggiammo ad alta voce.
Andrea, sospinto dalla nostra carica emotiva, si impegnò fino in fondo come
soleva fare, del resto, in ogni sua attività. Adesso le gambe si muovevano,
lentamente ma costantemente. Poi sempre più veloci. Non c’erano più dubbi:
Andrea stava recuperando l’uso delle gambe!
Era un miracolo, mi sgorgarono lacrime giù per le guance:
lacrime di gioia, finalmente, dopo tante altre. Adesso era tutto un coro di
“Bravo, ce l’hai fatta. Valoroso! Il nostro guerriero! Hai vinto!”
Dopo un quarto d’ora il movimento degli arti posteriori,
nell’acqua, appariva normale, Andrea scalciava come un neonato! Il giorno più
bello della nostra vita era appena cominciato! Ci sarebbero voluti giorni,
forse settimane di idroterapia, di massaggi, di steroidi, di vitamina E per una
riabilitazione completa: ma stavolta eravamo sulla strada giusta.
Dopo venti minuti, decidemmo di non affaticarlo
ulteriormente: per essere il primo giorno, era anche troppo. Lo mettemmo sulla
riva, coricato sull’erba, mentre noi ritornammo nell’acqua. Dopo tante
preoccupazioni, era venuto il momento di rilassarci, un verbo che negli ultimi
tempi era uscito dal nostro vocabolario.
Ma un paio di minuti dopo, ci fu difficile credere ai
nostri occhi: “Guarda!” esclamò Patrizia. Andrea si era alzato in piedi.
Barcollando paurosamente e rischiando di cadere, si spostò di un paio di metri
e, accosciato come una cagnetta, urinò da solo! E poi, come se ciò non fosse
bastato, si rimise in piedi, barcollò e poi cadde di schianto sull’erba
altissima. Per un istante rimanemmo dove eravamo, congelati dallo stupore. Poi,
mentre ci affrettavamo a uscire dall’acqua con l’intenzione di aiutarlo, si
rialzò. Ricadde. Si rialzò. Ancora una volta, rimanemmo impietriti a osservare.
Andrea era già riuscito a spostarsi di una decina di metri, gli ultimi cinque o
sei senza cadere, verso alcune piante sparse alte un metro. Quando le
raggiunse, si mise in posizione per defecare! Scrosciarono applausi da parte
nostra. Un attimo dopo, sentimmo altri applausi provenire da un posto un po’
più in alto sul pendio: due giovani locali appena arrivati si erano fermati a
guardare. Poi, uno di loro osservò: “Non è certo un perdente (a loser), è un gran lottatore.”
Dunque lo avevamo
soprannominato bene: “guerriero”, pensai con le lacrime agli occhi.
Alle 11:00 la temperatura era scesa a 39.4 e alle 19:00
era finalmente normale: 38.3.
Il giorno seguente, venerdì 25, la temperatura si
mantenne nella norma: 38.5. Portammo la radiografia al dottore. Non c’erano
spostamenti di vertebre nella spina dorsale, ma semmai una ipercalcemia, cioè
più calcio del normale nelle ossa, come era confermato da un piccolo ponte
osseo tra due vertebre. Il dottore escluse che questo potesse essere la causa
di eventuali infiammazioni ai nervi sottostanti; di solito si trattava di
“soprossi innocui”.
Dalla radiografia risultava che il fegato, i reni e gli
altri organi non presentavano anomalie: la prostata era appena ingrossata,
condizione comune ai cani della sua età, e si notava giusto un po’ di gas
nell’intestino. Tutto sommato, la radiografia poteva appartenere a un cane
sano.
Il veterinario ci consigliò di continuare con la
somministrazione orale degli steroidi. Anche se cercò di mascherarlo, intuii
che era molto sorpreso degli effetti immediati dell’idroterapia. I riflessi
delle gambe, che controllò subito dopo, si erano regolarizzati. Però ci esortò
a valutare e a considerare, in un prossimo futuro, la qualità di vita di
Andrea. Era un tasto amaro: sapevamo bene che cosa significava. Patrizia mi
rivolse uno sguardo fuggevole. Come potevamo anche solo prendere in
considerazione di togliere la vita a un essere umano?
A questo punto era chiaro che il dottore aveva fatto
tutto il possibile. Il suo compito era finito. Avevamo passato quindici giorni
a San Ignacio per rimanere vicini alla clinica. Adesso, non c’era motivo di
indugiarvi più a lungo.
Avremmo proseguito i nostri spostamenti in Belize, in
funzione dei corsi d’acqua, lagune e cenotes per poter continuare l’idroterapia
due o tre volte al giorno.
Venerdì 25 eravamo al Cenote Blue, Andrea camminava senza
aiuto, pur con alcuni sbandamenti. La temperatura si mantenne regolare per
tutto il giorno.
Sabato 26, alle nove del mattino, in un campeggio
chiamato Oasis, su un affluente del fiume Belize, la temperatura era risalita a
39.2. Alle 3:30 era di 40.7, però le gambe restavano salde. Andrea continuava
non solo a camminare, ma a migliorare impercettibilmente. Il suo sistema stava,
forse, reagendo? Alle 20:20, la temperatura si normalizzò a 38.8.
Lunedì 28 lo trascorremmo all’Oasis, luogo ideale per
l’idroterapia. Andrea migliorava ancora. Era più saldo sulle gambe, non cadeva
più. Cominciò ad alzare una delle zampe posteriori per urinare, un buon segno.
Eravamo, forse, all’inizio della convalescenza?
Durante la notte, però, per l’ennesima volta, cominciò a
respirare affannosamente, vuoi per il calore estremo, vuoi per una leggera
febbre. Prendemmo una decisione drastica: avremmo rinunciato alle isole del
Belize. Non saremmo neppure ripassati per lo Stato di Quintana Roo per vedere
le bellissime spiagge che, per cause di forza maggiore, avevamo dovuto saltare.
Saremmo andati direttamente in Guatemala. Lo avremmo portato in montagna, in un
clima molto più fresco: nel caso avesse ancora i residui della fantomatica
infezione, come dimostrerebbe la febbricola che di tanto in tanto ricompariva,
il freddo avrebbe potuto aiutare il sistema immunitario nella lotta
antibatterica.
Avevamo, però, un problema: non potevamo andare in
Guatemala passando dal Belize, perché 70 km di strada non erano agibili per il
nostro autocaravan. Dovevamo percorrere dunque quasi mille chilometri, aggirare
il Guatemala ed entrare dalla frontiera della Mesilla, come la volta
precedente. Intanto, già prima del Guatemala, ad Agua Azul, dopo Palenque, Ocosingo
e San Cristobal, saremmo già stati in montagna.
Lunedì 28 partimmo alla volta del confine messicano. Ci
fermammo poco prima, a Corozal, dove proseguimmo la terapia nel mare. Andrea
migliorava impercettibilmente giorno dopo giorno. Ricordo che a un certo punto
adocchiò un grosso legno, di quelli che lui preferiva; lo guardò con voglia.
Generalmente li afferrava nel mezzo, li sollevava e bilanciandoli perfettamente
con le poderose mascelle li trasportava per chilometri, lungo buona parte della
passeggiata, malgrado le dimensioni e il peso.
“Sta meglio, si vede anche da questo” commentò Patrizia.
“Ma è troppo presto, dobbiamo convincerlo a limitarsi a giocare nell’acqua. I
tuffi per recuperare la palla e i pezzi di legno, saranno per quando sarà
guarito completamente.”
Andrea accennava perfino a qualche breve passo di corsa.
Rinasceva, per l’ennesima volta, una speranza accentuata dal fatto che
l’effetto delle massicce dosi di vitamina E si era fatto sentire dopo soli due
giorni. Che il sistema si stesse rivitalizzando era indubbio. Si stava
verificando qualcosa di molto positivo e in modo così pronunciato da apparire
tanto insperato quanto incredibile. Avevamo subito notato che i “duroni”
(callosità) neri alle giunture delle zampe (nei “gomiti”), tipici nei cani di
una certa età e che anche Andrea presentava da qualche anno, avevano assunto un
bel rosa acceso, la pelle si era ammorbidita e dopo quattro/cinque giorni
dall’inizio della terapia con la vitamina E, perfino il pelo dava segno di
ricrescervi!
Mi assillava un solo timore, che manifestai subito a
Patrizia. In Australia avevo studiato a fondo tutto ciò che esisteva fino ad
allora sul lavoro pionieristico sulle vitamine. In biblioteca avevo letto con
molta attenzione un volume di mille pagine che informava su esperimenti
ventennali condotti negli ospedali americani. Mi aveva colpito l’apparente,
straordinario effetto curativo delle maxidosi di vitamina E. Lo avevo “provato”
su Marina (storia # 18 TOTOCALCIO E
TATTSLOTTO, Il nostro canto libero, Libro I) che soffriva di anemia, dopo
una lunga ricerca sui diversi tipi conosciuti di anemia. I risultati erano
stati straordinari fin dalla prima somministrazione. Non riuscivo a crederci:
il palmo delle sue mani, il giorno prima di un brutto colore violaceo malaticcio,
si era mutato nel rosa naturale di un bambino. Gli effetti positivi promessi
dal libro in un tempo non inferiore a trenta giorni si erano verificati in un
giorno!
Esistevano soltanto due controindicazioni: UNO, per le
persone che soffrivano di pressione alta e/o avevano già subito un attacco di
cuore; DUE, in caso di tumore. Nel primo caso non c’era da temere: il cuore di
Andrea era stato giudicato in buone condizioni, per un cane della sua età, e
per quanto riguardava il suo sistema immunitario, riflettevo che doveva essere
ben forte per aver sopportato, per ben due mesi, gli effetti micidiali degli
antibiotici. La seconda controindicazione, invece, mi preoccupava. Da un lato
mi tranquillizzava il fatto che il veterinario non aveva riscontrato focolai di
tumore. Dall’altro ero indeciso perché sapevo che l’effetto della vitamina E è,
sì, quello di maggiorare l’apporto di ossigeno alle cellule, ma, in seguito a
esperimenti condotti negli USA, risultava che anche le eventuali cellule
cancerogene avrebbero beneficiato di questo incremento di ossigeno proliferando
a velocità molto maggiore (oggi, alcuni studi negli USA sembrerebbero indicare
invece che la somministrazione di ossigeno impedisca la proliferazione delle
cellule cancerogene!). Ciò che mi fece decidere a procedere con la
somministrazione fu il pensiero che, anche in presenza di tumore, avrei
alleviato le sofferenze di Andrea. Gli avrei, cioè, accelerato la morte.
Un’ipotesi terribile che richiedeva una decisione estremamente ponderata.
D’altro canto, la possibilità di una remissione della malattia, qualunque fosse
stata la sua origine, mi sembrava reale!
Dunque si era instaurato un clima di moderato ottimismo,
pur in un sottofondo di costante stanchezza fisica, incubi e levate notturne
ogni volta che Andrea si muoveva, respirava più forte del normale o dovevo
portarlo fuori a fare pipì durante la notte. Eppure facevamo tutto volentieri,
con quel rispetto per la vita dovuto a tutti gli esseri umani, che estendevamo
naturalmente ad Andrea, la nostra creatura
umana.
Martedì 29 tutto procedette bene, con terapia mattutina a
Corozal e, dopo l’entrata in Messico, a Laguna Milagros. La temperatura fu
normale per tutto il giorno. Arrivammo ad Agua Azul, una estesa serie di
cascatelle e laghetti in un paesaggio idillico, a qualche centinaio di metri di
altitudine sul livello del mare. Sette mesi prima vi avevamo trascorso una
settimana. Eravamo finalmente arrivati ai piedi delle grandi montagne.
Mercoledì 30 fu una giornata che promise bene fin dal
mattino: la temperatura, alle 6:00, era di 38 gradi.
Facemmo la solita terapia nel fiume. Alle 17:00, la
temperatura era di 38.3. Verso sera, tuttavia, Andrea vomitò la carne che aveva
mangiato a pranzo. Non sarebbe stato un fatto eccessivamente negativo se
l’odore del rigurgito non fosse stato terribilmente acido. Il rigetto dei cani
in circostanze normali è inodore, tanto che loro quasi sempre rimangiano il
cibo vomitato. Dovevamo preoccuparci? Non credo, considerando che la pelle,
soprattutto nella pancia, aveva assunto un bel colore rosa pallido, che non
vedevamo da anni. La vitamina E continuava il suo effetto straordinariamente
positivo.
Giovedì, primo luglio, Andrea incominciò di nuovo a stare
male. Aveva chiaramente la febbre: 40.2 alle 8:00, 40.5 alle 12:00; 39.7 alle
15:00; 39.7 alle 19:00; 40 alle 20:30.
Venerdì 2, alle 8:00, la febbre continuò: 39.6, scendendo
però quasi alla normalità a 38.8 alle 19:15. La terapia l’avevamo fatta anche
quel giorno per tre volte, ma molto più breve del solito.
Nel pomeriggio, la pelle rosata della giuntura della
gamba destra anteriore cominciò a emettere del pus, prima in un punto, poi in
tre o quattro. In un paio d’ore si gonfiò non solo il “gomito”, ma anche la
zampa. Un altro focolaio comparve sopra una spalla, facendola gonfiare in modo
preoccupante. Scambiai un’occhiata con Patrizia: oramai era chiaro che ci
trovavamo a una svolta: o il corpo reagiva, liberandosi una volta per tutte
dell’infezione, o soccombeva e sarebbe stata la fine.
Quando andammo a letto sapevamo di avere davanti una
notte tremenda, lunghissima. E che avremmo aspettato con ansia la luce del
giorno.
Alle 6:00 del mattino il “gomito”, la zampa e la spalla
si erano notevolmente sgonfiati ed era uscito moltissimo pus. Il respiro di
Andrea si era fatto lungo e lento. La temperatura, di 38.1, alle 10:00 sarebbe
scesa addirittura a 37.7.
Nel pomeriggio la zampa si gonfiò di nuovo e quel che era
peggio, Andrea si reggeva a malapena sulle gambe. Purtroppo, dopo tante
speranze, ricominciavano i segni della paralisi. Anche quella sera, come
sempre, lo coricammo nel nostro letto per i massaggi alle zampe posteriori.
Andrea vi si sottoponeva volentieri, sempre tre volte al giorno. Notevole per
un cane che era sempre stato refrattario alle carezze. Adesso ne aveva
particolarmente bisogno, sotto ogni aspetto. Gli tonificavano e, al tempo
stesso, rilassavano i muscoli e avevano un effetto benefico sul sistema, tant’è
che spesso si addormentava. Com’erano belli quei momenti, quei preziosi
intervalli conquistati al dolore. Ma non durava mai a lungo. Si risvegliava e
ricominciavano le sofferenze. Eppure mai un gemito, mai un ululato.
Quella sera soffriva più del solito. Tra una pausa e
l’altra, nei rari intervalli durante i quali non respirava affannosamente,
quando il dolore gli lasciava un po’ di tregua per poi ritornare atroce,
implacabile, lui si sforzava di sollevare la testa verso di noi, con quegli
occhi tanto penetranti che ci avevano sempre scavato dentro, ma che adesso ci
parlavano direttamente al cuore, senza bisogno di parole... Sì, in uno di quei
momenti ci siamo ritrovati… Ci siamo ritrovati, io, Patrizia e Andrea, mano
nella mano, una mia mano su una sua scarna zampina e la mano di Patrizia sulla
testina calda di febbre, a chiudere un circolo di amore, in una catena di
silenzio.
Poi, all’improvviso, siamo scoppiati in singhiozzi
sommessi e tutto quello che avevamo represso negli ultimi giorni venne fuori in
quel pianto liberatorio. Andrea ci guardava fisso, quasi stupito, con quegli
occhi. Con che occhi! Che dolcezza in quegli occhi, che comprensione in quegli
occhi, pur nella sofferenza estrema. Che consapevolezza di quello che stava
accadendo. Ecco, sì, a un certo punto, abbiamo sentito quegli occhi mutarsi da
sguardo in parola. Dicevano: “Lo so che
mi volete tanto bene, che potevo contare su di voi. Che avete fatto il
possibile. Sono stato felice. Non piangete.” Di fronte a quegli occhi, ci
siamo sforzati di non piangere. Mi dirà Patrizia, la sera dopo, tra i
singhiozzi: “Ieri sera eravamo in sintonia. Tutti e tre. Andrea ha capito
tutto.”
Che notte da incubo per Andrea, per noi. Tra una veglia e
l’altra, feci un sogno: il terzo da quando incominciò a star male (il primo fu
quello in Italia, descritto nella storia precedente). Lo vedevo camminare,
vacillando, in una specie di pianoro, una di quelle terrazze tipiche della
costa ligure, ma tutto erboso. Vacillava e mi aspettavo che cadesse da un
momento all’altro. E infatti cadde in un pianoro sottostante. Più in là, più in
basso, c'era un precipizio, e si intravvedeva una strada a tornanti. Andrea
barcollò un’altra volta. Se fosse caduto di sotto, pensavo, sarebbe stata la
fine. Cadde. Cadde di sotto. È la fine, stavolta era la fine. Lo vidi
precipitare giù a rallentatore, in piedi, e lo seguii in un volo interminabile,
i miei occhi lo vedevano sempre vicino, lo seguivano come fossero stati lo zoom
di una cinepresa. Incredibilmente, speravo ancora. Anche se temevo che si
sfracellasse contro le rocce. Contro ogni speranza razionale, pregavo che
incontrasse qualcosa di morbido per ammortizzare il colpo. E qualcosa incontrò,
alla fine della caduta. La mia mente creò convenientemente una fronda d’albero,
un albero isolato che sporgeva all’infuori da quella scarpata arida. Forse era
un ulivo. Ma la velocità era adesso diventata normale e, sotto la tremenda
accelerazione, il ramo si spezzò all’impatto. Più sotto incontrò una rete
metallica, che segnò la fine del volo. Fu la zampa malata, quella gonfia, la
destra, che arrestò la corsa. Era vivo, si sarebbe salvato. Mi svegliai.
Domenica 4 luglio. La realtà risultò diversa dal sogno.
Le condizioni di Andrea stavano toccando il fondo. Era
paralizzato. Si manteneva in piedi a fatica solo se noi gli sistemavamo le
zampe. Era completamente privo di forze. Quel corpicino di pelle e ossa era il
fantasma del cane sano, forte, grassoccio ma robusto che era sempre stato. Sul
pavimento della cabina di guida, accanto al sedile di Patrizia, il suo
intestino cominciò a perdere ogni controllo volontario.
Decidemmo di ritornare a Palenque (63 km) per fare la
spesa e cercare un veterinario. Ci scambiammo una rapida occhiata, colma di
tristezza, di rassegnazione. Ma non c’era oramai nient’altro da fare. Bisognava
porre fine alla sua sofferenza. Eutanasia, la chiamano, con un termine preso a
prestito dal greco, forse per mascherare il suo vero significato. Significa
“bella morte, o morte indolore” inflitta per pietà a chi non è in grado o più
in grado di provocarsela da solo. Quando la soglia del dolore diventa
insopportabile, quando la malattia irreversibile ha raggiunto uno stato
devastante per il paziente, quando la qualità della vita è ridotta a un puro
stato vegetativo, quando ogni speranza è... morta…
dare la morte diventa un segno di
umanità.
Frequentemente abbiamo incontrato proprietari di cani che
li hanno “messi a dormire” attraverso l’iniezione indolore di un veterinario,
al primo segno di paralisi alle gambe posteriori. Abbiamo spesso sospettato che
lo avessero fatto più per se stessi che per evitare sofferenze ai loro cani. “Per
noi non sarà cosi, se ci trovassimo in questa terribile situazione” ci eravamo
chiaramente detti l’uno all’altra. “Non è possibile uccidere quando si ama, noi
andremo fino alla fine, faremo il possibile e l’impossibile per salvarlo.” Sono
belle parole, piene di eroismo. Ma la realtà ti plasma in modo differente, ti
costringe a porti problemi che sono sempre più complessi della teoria. La
realtà è al di là delle teorie. La realtà è al di là dei principi, pur nobili
che siano.
Andare fino alla fine. Adesso eravamo alla fine. Il
possibile per salvarlo lo avevamo fatto, con tutti i limiti delle nostre
conoscenze. Gli “esperti” avevano fallito, come avevamo fallito noi.
L’impossibile non si può fare.
Eppure, anche con questi pensieri così presenti nella
nostra mente, a mezzogiorno di domenica 4 luglio, dopo aver constatato che il
pus usciva anche dalla giuntura della gamba anteriore destra, da sopra la
spalla e che si stava gonfiando anche la parte destra della gola, consapevoli
di quanto era dimagrito in un solo giorno (nella parte laterale del cranio si
era reso spaventosamente visibile l’ennesimo “buco” tra le ossa), gli avevamo
comprato del siero da dargli per bocca! È proprio vero che l’amore è cieco, che
non si arrende neppure di fronte all’evidenza.
A Palenque, Patrizia andò a cercare un veterinario.
Eravamo esitanti, entrambi, a portarlo da uno sconosciuto qualunque, il quale,
impersonalmente e freddamente gli avrebbe fatto l’iniezione fatale. Andrea
meritava ben altro. Ma, d’altra parte, che alternative avevamo?
Al suo ritorno, Patrizia mi disse: “Ho girato in lungo e
in largo per il paese. È difficile trovare un veterinario di domenica mattina.
Alla fine ne ho trovato uno disponibile. Ma era ubriaco, con gli occhi vuoti e
stupidi. Non mi sembrava il caso, no? Io non voglio che questo incubo turbi i
miei ricordi futuri.”
“No, per carità, hai ragione.” È incredibile come a volte
ci si senta sollevati anche col solo rimandare una decisione dolorosa, seppure
necessaria.
“Andiamo verso le montagne, fra tre ore saremo a San
Cristobal, a 2300 metri. Cercheremo là un veterinario.”
Ci mettemmo in cammino. La strada cominciò a inerpicarsi
verso Ocosingo. Non c’era traffico. Regnava un silenzio insolito nella cabina
di guida, un silenzio più forte del rumore del motore. Poi Patrizia, a un
tratto ruppe quel silenzio, proponendomi una cosa per la quale le sarò grato
fino alla fine dei miei giorni: “Quando arriverà il momento… perché non lo
facciamo noi? Non ti sembra più appropriato?”
“Sì, sono d’accordo. Sarà confortante rimanere soli nel
nostro dolore. Non riusciremmo mai a dar sfogo alle nostre emozioni nella
clinica di un estraneo. Ma come lo faremo?”
“Gli daremo una forte dose di aspirine, l’unica cosa che
abbiamo. Non soffrirà. Probabilmente morirà nel sonno.”
Andrea intanto, ai piedi di Patrizia, respirava
affannosamente. Ogni tanto sollevava il capo, che poi ricadeva di peso sul
pavimento della cabina. Forse voleva dirci qualcosa, forse voleva uscire, forse
aveva bisogno di urinare. Generoso com’era sempre stato, lo fu fino all’ultimo:
anche in quelle condizioni, non la voleva fare dentro. La notte precedente
aveva fatto la popò dentro, forse aveva cercato di chiamarci ma noi eravamo
troppo sfiniti per svegliarci, o forse non aveva avuto nemmeno la forza di
chiamarci. Dopo averlo portato fuori di peso, come oramai eravamo abituati a
fare, lo mettemmo in piedi in uno spiazzo d’erba sul ciglio della strada.
Patrizia lo sorresse ma lui cadde. Non riusciva proprio a urinare. Pregai
Patrizia di sorreggerlo per il tempo necessario a fargli due fotografie. Sapevo
che sarebbero state le ultime.
Ripartimmo, ma dopo alcuni chilometri, dopo l’ennesima
volta che Andrea alzò la testa e la rilasciò cadere pesantemente sul pavimento,
prostrato, impotente, non riuscii più a trattenermi. Gli occhi mi si riempirono
di lacrime, tutto divenne sfocato. Non riuscivo più a vedere la strada. Dovetti
fermarmi.
“Voglio dirti, Patrizia, quanto ti sono grato per la tua
proposta di farlo noi. Te ne sarò sempre grato. Questo cambia molte cose. Ti voglio
tanto bene. Pensa soltanto al fatto di poter piangere, io e te, così, mano
nella mano. Poterci abbracciare. Mai e poi mai lo potremmo fare senza
reprimerci nell’ambulatorio di un veterinario, quando verrà il momento.”
“Quando verrà il momento… ” ripeté con uno sguardo pieno
di tristezza. La sua voce incrinata esprimeva quello che io rifiutavo di
riconoscere: “Guarda laggiù. Dai un’occhiata alla bocca... ”
La gengiva sinistra, immediatamente sotto uno dei molari,
era ricoperta di una sostanza marrone e così il molare.
Il pus si era esteso a tutto il corpo. L’infezione era
dappertutto, compresa la bocca.
“Aiutiamolo a morire… ”
Ma, ancora una volta, un istinto irrazionale mi spinse a
rinviare la decisione fatale. Rimisi in moto. Non avevo abbastanza coraggio.
Ripartimmo, ma percorremmo pochi chilometri. Ci fermammo
di nuovo. Tutta la gengiva sinistra e i denti superiori erano coperti dalla
stessa sostanza putrescente, viscida e filosa. Toccai quella gengiva e la
odorai: una sensazione orribile. Andrea respirava a fatica, gli occhi
sofferenti, eppure lucidi.
“Adesso?” chiede Patrizia.
“Adesso” ma il cuore mi si lacerava nel petto.
C’erano sedici aspirine sul cruscotto. Mentre Patrizia
cominciò a infilargli in gola la prima, io lottavo contro un groppo allo
stomaco. Invano. È come se la tensione degli ultimi due mesi si fosse tutta
concentrata in quell’attimo. Salì fino in gola una irrefrenabile voglia di
urlare. E infatti fu quasi un urlo quello che riuscii a dirgli. Se non avessi
urlato, i singhiozzi avrebbero soffocato le parole. Ma io volevo dire. Volevo
dirgli tutto quello che sentivo. Era la mia ultima occasione.
“Sei stato un grande amico. Il più grande amico” gli
dissi chinandomi, mentre gli sollevavo il bel musetto sofferente. Subito mi
resi conto dell’inadeguatezza delle mie parole: senza volerlo, mi ero rivolto a
lui come se… come se già… “Ma non si può andare avanti così. Perdonaci.
Perdono. Sei il nostro più grande amico… ma non è possibile, perdio, che tu
continui a soffrire tanto. Ti vogliamo tanto bene. Tanto bene.”
Gli rilasciai il musetto per permettere a Patrizia di
infilargli in gola le altre pastiglie. Un compito ingrato. Ero già talmente
fuori di me che non mi ero accorto di quante pastiglie gli aveva già dato.
“Quante sono?” le domandai.
“Tre, finora.”
Le scostai istintivamente la mano, in un gesto tanto
irrazionale quanto inutile.
Poi mi calmai e lasciai che Patrizia andasse fino in
fondo. Come le volevo bene!
Alla decima mi chiese: “Sono dieci, basta cosi?”
“Quante ne abbiamo ancora? Altre sei? Meglio dargliele
tutte, soffrirà meno.” E Patrizia, con la consueta pazienza, gli infilò in
bocca le ultime sei. Andrea non reagiva, ci guardava e basta.
Erano le 15:00. Non potevo chiedere a Patrizia che cosa
provava. Era rimasta silenziosa, fino ad allora, senza piangere. Quando scoppierà, pensavo, sarà straziante.
“Ripartiamo?”
“Ripartiamo.”
Io, per conto mio, ero tranquillo, in pace con me stesso.
Lo sfogo, le lacrime, le parole, avevano prodotto dentro un effetto balsamico.
Avevano lavato molte ferite. Sapevo che per Patrizia non era ancora così. Per
me, la fine di Andrea, in un certo senso, si era già compiuta: anche se,
abbassando lo sguardo, mentre guidavo, lo vedevo ai miei piedi che respirava!
Sarebbe sembrato normale, se non fosse stato per quel respiro affannoso e tutto
quel pus. E per la estrema debolezza. Sollevò più volte la testa ma non aveva
più controllo. Essa ricadeva un’istante dopo sul pavimento. Interpretammo che,
forse, voleva fare pipì. Dovetti aspettare in uno dei pochi rettilinei, perché
la strada continuava a salire a curve ravvicinate.
“Un ultimo atto di pietà, povero tesoro” le dissi.
E cosi, per l’ultima volta Patrizia lo sollevò da un
lato, io dall’altro. Lo portammo fuori dalla cabina. In due lo sorreggemmo
affinché non cadesse. Ma non uscì nulla da quel corpicino emaciato.
Ripartimmo per risalire ancora. Era passata un’ora da
quando Patrizia gli aveva infilato in bocca le aspirine.
“Soffrirà quando faranno effetto? Perché ci mettono
tanto?”
“Credo che si addormenterà senza soffrire” asserì
Patrizia con la voce velata di pianto. E poi, finalmente scoppiando in
singhiozzi, si rivolse ad Andrea: “Vedi, anche stavolta abbiamo mantenuto la
promessa. Ti abbiamo portato in montagna.” Era straziante e fu anche l’ultima
frase che Andrea poté udire.
Alle 15:25, dopo un sobbalzo tremendo del corpo, finì col
muso contro il mio zoccolo destro, pigiato sull’acceleratore.
“Cosa succede? Guarda un po’” dissi a Patrizia.
“Ci siamo, credo.”
Mi fermai immediatamente: feci appena in tempo a vedere
l’ultima contrazione del capo e del corpo. La lingua uscì di lato dalla
mascella semichiusa.
“Devono essere le contrazioni dopo la morte... ”
“Sì, è morto, non respira più” si assicurò Patrizia,
chinandosi su di lui. “Non deve aver sofferto. Sembrava un attacco di cuore.”
Gli chiusi gli occhi. Non per seguire la prassi. No. Solo
perché non riuscivo a sopportare di rivedere quegli occhi, adesso del tutto
privi di quella penetrazione, gioia di vivere e umanità che erano parte della
sua personalità.
Ripartimmo, in cerca di un luogo adatto per lasciarlo.
“Uno qualunque, dove ci si può fermare” disse Patrizia,
“oramai non ha più importanza.”
La strada saliva e saliva, implacabile, priva di
rettilinei e di spazi a lato. Attraversammo un paese: lì non volevamo
lasciarlo. Troppa gente. Troppe domande. Proseguimmo.
Qualche chilometro oltre il paese, attraversai la corsia
in senso contrario e fermai il veicolo nel primo spiazzo sulla sinistra. Spensi
il motore.
Portammo fuori Andrea. Poi lo presi in braccio da solo,
tutto duro e stecchito. Quante volte, nelle ultime settimane lo avevo preso in
braccio, nei giorni della terapia e dei massaggi, per risparmiargli sforzi
inutili quando vedevo che era stanco, per farlo risalire nel camper. Ma allora
c’era ancora speranza…
Patrizia, vedendo il cadaverino che si allontanava, tra
le mie braccia, dalla strada soprastante scoppiò in un pianto incontrollato.
Urla spezzate, altissime che contenevano parole umane, attraversarono il
fogliame del bosco. A mano a mano che discendevo, la natura, muta nei fusti e
nelle fronde, dava l’impressione di ritrarsi atterrita, squarciata in due da
quei singhiozzi disincarnati.
Scesi altri passi nella scarpata erbosa: era un bel
paesaggio, quasi idillico, se non fosse stato che… se non fosse stato per… I
pensieri si attorcigliarono in un groppo nella gola.
Mi fermai ai piedi di un grande albero, con un fusto
straordinariamente attraente. La ruvida corteccia sembrava respirare. Le
robuste radici centenarie si innalzavano come scialli inamidati a formare un
incavo naturale sopra il manto erboso, coperto di foglie secche. Là, adagiai il
corpo.
“Sì, lì va bene” singhiozzava Patrizia da sopra la
scarpata, “a fertilizzare la terra per quel gigante buono.” Il suono di quelle
parole mi fece correre i brividi lungo la spina dorsale.
“Non voglio più vederle!” piangeva Patrizia sconsolata,
lanciando le due ciotole nella scarpata. “Non potrei sopportare di vederle
nell’autocaravan.”
Io capivo e rispettavo. Ah, se capisco tanto dolore...
Era anche il mio. Raccolsi la ciotola beige, quella grande, del cibo. Sollevai
anche quella verde, più piccola, dell’acqua. Le disposi una dentro l’altra,
come avevamo fatto tante volte prima di partire, e le deposi vicino al capo di
Andrea. “Ciao piccolino. Ciao, guerriero valoroso.”
E mentre risalivo la scarpata, mi volsi per l’ultima
volta, per non dimenticare mai più. Mai più. Arrivarono per ultimi, volando
sopra la mia testa, i flaconcini delle medicine che Patrizia gettava giù uno
dopo l’altro, arrestando il loro moto vicino al corpo che riposava su un
fianco. Io vidi una pioggia di fiori.
Risalimmo nel camper. Il tachimetro segnava il km 91.
Novantuno chilometri da Palenque. Patrizia lo annotò nel taccuino.
Gialla, sul cruscotto, c’era l’ultima sua palla da tennis.
Quasi nuova. Patrizia le diede un’occhiata indecisa.
“Questa no” dissi, prima di accendere il motore. “Dovrà
restare qui, per chi verrà dopo: quando sarà tempo.”
[1] Unità di misura comunemente impiegata in Messico e Centro America per
misurare la lunghezza visiva.
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