martedì 24 marzo 2020

PENSIERI-5: Bonaccia e conquista del tempo



In un post precedente ho accennato al problema dello spazio in una barca a vela. Adesso affronto il problema del tempo e benché mentre scrivo abbia in mente soprattutto la barca, il discorso può essere generalizzato a chi viaggia con ogni mezzo, compresi quelli pubblici. Il cruising in barca a vela offre ai veri appassionati di vela occasioni uniche per fare il punto non solo sulla navigazione, ma, cosa ben più importante, sulla vita.


 Per esempio, la mancanza assoluta di vento, quando la terraferma è già dietro l’orizzonte, mettendo a prova la pazienza, consente di imparare molto sui venti, le maree e le correnti, che sono poi l’essenza della navigazione. Questo, ovviamente, se si riesce a vincere la tentazione di rovinare tutto accendendo il motore. Non si tratta di essere dei puristi, si tratta di evitare di rompere l’armonia della pristina bellezza della navigazione a vela, di fare un utile esercizio di adattamento alle condizioni naturali e di avere l’umiltà di apprendere. Tutto lí. Forse l’esperienza di coloro che rimangono in casa durante la pandemia del covid-19 ha qualcosa in comune con la necessità di riformulare il concetto di “tempo”.

In generale, un modo di viaggiare attento e consapevole deve far fronte, a lungo andare, non solo alla gestione del tempo, ma anche alla sua integrazione nella personalità. Per fare questo è necessario far evolvere il concetto del tempo. Ma evoluzione in che senso? Basta riferirsi ai ritmi frenetici che caratterizzano le società industrializzate odierne, per renderci conto della rotta da percorrere per far evolvere questo concetto. Eppure, io e Patrizia abbiamo impiegato molti anni dal giorno della nostra partenza per l’India in furgone nel lontano 1975, per capire che era necessario un cambiamento radicale del nostro utilizzo del tempo. Fu in Germania, dopo giorni e giorni passati a spostarci da un castello all’altro, da un museo all’altro, praticamente dall’alba al tramonto, che il senso del bello cominciò ad essere sopraffatto da una sensazione quasi nauseabonda di assuefazione e da un senso di disagio che ci costrinse a fare il punto sulla situazione, fino a porci la classica domanda: “Ma cosa stiamo facendo.? È questo che volevamo quando siamo partiti? Credevamo di esserci liberati degli déi imperanti del denaro, dello status sociale e della routine, stretti alleati nello scempio e nell’uccisione del tempo, in un pianeta in cui la frase più alienante era “Scusa, ma non ho tempo”, e invece ci eravamo messi in una situazione simile. Cosí non si poteva andare avanti. Saremmo presto crollati. Seduti sul divano della dinette dell’autocaravan, cercammo di determinare che cosa aveva creato quella situazione incresciosa. Ma non c’era gente che girava il mondo in condizioni ancora più difficili delle nostre e che, con uno zaino sulle spalle, si era proposta di fare, in un paio d’anni, il giro del mondo? Noi, in confronto, anche allora, ci muovevamo a passo di lumaca! Cominciammo ad analizzare le loro motivazioni, perché, purtroppo, è molto più facile vedere la trave negli occhi degli altri, e criticare le loro azioni, che non la pagliuzza nel nostro. Poi, eventualmente, avremmo cercato di fare dei paragoni per rilevare che cosa avevamo in comune. Se ci fossero stati i social, sopra le fotografie “dei giramondo in due/tre anni” si sarebbe letto press’a poco cosí: “300esimo giorno, 57 paesi visitati”. E si sarebbe anche letto che il viaggio era molto duro, con spostamenti quasi sempre di notte, in treno o in autobus, per risparmiare i soldi dell’albergo. Ma quella era vita? Era “vita” solo se gratificata dall’applauso degli altri, che nei commenti da casa, avrebbero espresso la loro ammirazione e invidia. Era gratificata dunque da una fortissima componente di narcisismo. Ma, ironicamente, avevano lasciato un mondo in cui lavoravano 8 ore per entrare in un mondo in cui si erano autoimposti di lavorarne 24! Anche se, per un periodo di tempo liminato rispetto al nostro. Insomma non avevano fatto altro che raddoppiare le ore di “lavoro”! Non solo, ma il viaggio, dato il buio e il sonnecchiare e dormire notturno, era diventato un “saltare” da un posto turistico all’altro, senza una continuità di paesaggio, proprio come lo è lo spostarsi da un luogo all’altro in aereo. Noi almeno ci muovevamo di giorno, apprezzavamo il paesaggio, potevamo fermarci... E non avevamo la motivazione narcisistica di mostrare quante belle cose stavamo vedendo. Eppure... non eravamo soddisfatti. Perché? Come ho già sottolineato più volte altrove, non ci eravamo forse ancora accorti che c’è un sottilissimo spartiacque tra il successo e il fallimento, tra la salute e la malattia, e perfino tra la vita e la morte. In questo caso, nel caso del viaggio, da cosa veniva rappresentato questo sottile spartiacque che, passata la novità  delle prime esperienze, ci impediva di godere come prima del viaggio e della vita? Ci vollero un paio d’ore per trovare il colpevole. Il colpevole non era il tempo, ma la nostra gestione del tempo. Evidentemente anche noi facevamo un errore simile a quei viaggiatori menzionati sopra, cioè volevamo “vedere tutto” non tanto per show off come molti di loro, ma per un’esigenza quasi inconscia che potremmo definire tirchieria intellettuale. Espressa consciamente potrebbe essere formulata cosí: “Siamo qui, perché non vedere “tutto” quello che c’e’ da vedere? Si tratta di istruzione viva, sul posto, la migliore che possiamo darci. È un’occasione unica, sfruttiamola.” Ma perché? Forse per poter dire a noi stessi che eravamo più interessati o più informati degli altri? Qualunque ne fosse la motivazione, oltre l’aspetto positivo estetico, che cosa ci avremmo guadagnato? E, continuando nella stessa direzione, il rapporto con le culture che si attraversavano, dove sarebbe andato a finire? Infatti nei musei, nei castelli e in tutti gli altri edifici d’interesse avremmo incontrato solo turisti.

La soluzione:

Dopo un lunga conversazione, come soluzione provvisoria e sperimentale, decidemmo di viaggiare dalle 7/8 del mattino alle 12:00/13:00 ora in cui ci saremmo fermati dovunque ci trovassimo. Ancor prima di metterla in pratica, percepimmo che questa decisione avrebbe fatto tutta la differenza. Oltre al fatto di consumare molto meno energie e di goderci di più un viaggio “diluito” avevamo aggiunto un piacevole elemento di imprevedibilità al viaggio stesso. E cosí incominciammo a visitare villaggi, paesi, città e a conoscere gente che, altrimenti non avremmo né visitato né conosciuto. A vedere non solo le solite attrazioni turistiche, ma luoghi e gente nelle sue loro reali attività giornaliere, l’unica esperienza di viaggio che conta veramente. Questo nuovo modo di viaggiare ebbe come effetto collaterale un notevole rilassamento e ci diede la possibilità di acquisire preziose informazioni supplementari sulle cose che avremmo visitato il giorno seguente, senza dover correre. Il nuovo motto: mai più correre!

Da allora, il nostro rapporto personale con il tempo sembra aver seguito, sempre di più, leggi particolari, quasi avesse cominciato a scorrere in una realtà parallela: se il tempo non viene mai osteggiato, compresso o trascurato, ma lasciato libero di fluire, verrà facilmente integrato nella personalità e percepito come parte di questa. Diventerà allora sinonimo di disponibilità, di relazioni sociali, opportunità di apprendimento, apertura al nuovo e sete d’imprevisto. Si maturerà per gradi l’impressione che sia diventato un amico silenzioso con il quale è necessario integrarsi, armonizzarsi, sperimentare.

Non ricordo chi disse: «Chi forza il tempo viene spinto indietro dal tempo; chi cede al tempo trova il tempo dalla sua parte». C’è molta verità in questo detto.

Quando si cede al tempo, avviene un cambiamento radicale: con il cambiamento del ritmo del tempo, cioè con la sua dilatazione, ciò che cambia è la percezione della vita. Non solo diventa normale fermarsi a esplorare senza sensi di colpa l’interno di un’orchidea sul tronco di una palma, magari chiedendosi come mai ci abbiamo messo tanto a scoprire questa macchiolina magistrale dell’opera della natura, ma ci si può anche permettere di fare un pisolino senza sensi di colpa ogni qual volta lo si ritenga necessario, nel pomeriggio o perfino di mattina. Il tempo diventerà un balsamo amico e rivitalizzante per curare fatica mentale e fisica. Si può indugiare a esaminare la sorprendente varietà delle forme delle foglie lungo un sentiero o le articolazioni di rami belli come il più bel frattale. Si può fare una pausa per ammirare la spettacolare abilità di uccelli preistorici, quali sono i pellicani, in picchiata sull’acqua da altezze vertiginose per afferrare un pesce o si può rimanere a bocca aperta nell’osservare una fregata, nera come l’ebano, planare sulle termocline ed esibire alle femmine in amore, appollaiate sugli alberi sottostanti, la sacca rossa gonfiata sotto il collo come un palloncino-regalo. Come può essere appagante la fuggevole emozione che sprigiona dall’osservare una gigantesca farfalla blu attraversare il sentiero prima di scomparire nella giungla! Ma, ancora più straordinario, vedere una grande foglia marrone, apparentemente secca, cadere da un albero e accorgersi allibiti che si tratta invece di una farfalla di dimensioni enormi che sta imitando, lasciandosi cadere senza sbattere le ali, proprio una foglia! Godersi l’apocalisse del cielo, prima e dopo il tramonto. Ma anche meravigliarsi di un tramonto incolore. Nutrire la speranza di fissare nella mente l’enigmatico lampo verde. Osservare le stelle cadenti o la luna rossa. Vedere Venere che indugia sopra l’orizzonte occidentale con la luminosità di una luce d’ancora di una barca a vela. Chiudere un occhio su un ragno non invitato, che si impegna a tessere la sua ragnatela dal tendalino alla mastra del pozzetto. Ricambiare il sorriso dei pescatori di granchi, che pescano dai loro tipici kayak di legno intorno alla barca. Continuare a meravigliarsi della loro abilità, acquisita da bambini, di stare in piedi su una imbarcazione così instabile. Smettere subito tutto quello che si sta facendo per rispondere all’allusivo sguardo birichino del nostro partner. Accarezzare il muso del nostro cane o gatto quando si avvicinano, mentre si è occupati a fare qualcos’altro. Osservare i delfini intorno alla barca ancorata o in navigazione. Accettare con disponibilità l’interruzione da un lavoro in cui si è impegnati, quando qualcuno si accosta alla fiancata della barca solo per “ammazzare il tempo”. Assumersi l’incarico eccitante di resuscitare quel tempo.

Poi ci sono le notti nelle quali ci si corica sulla tolda, a prua, con un cuscino sotto la testa, e si scruta il firmamento buio soffuso di luce stellare. Ci si immerge a considerare, col fiato sospeso, gli immensi spazi, le impensabili distanze, il numero inconcepibile dei corpi celesti

Lassù/laggiù, tutto è ingigantito. E quelle dimensioni interstellari facilitano domande di grande dimensione. Da dove proviene l’umanità, dov’è diretta? I nostri pronipoti saranno in grado di contemplare le stelle? Qual è il significato della vita? Ma anche, che cos’è la luce? Cammina o sta ferma? Ossia, è solo l’onda che si muove mentre il fotone surplassa sul posto eccitando il fotone vicino? L’universo, a causa dell’entropia, è destinato alla morte termica oppure esiste a qualche livello una forza neghentropica che compensi questa tendenza verso l’estinzione e mantenga l’universo in perpetuo equilibrio? La teoria gravitazionale e le relatività einsteiniane sono davvero razionali o, come diceva il grande Tesla, sono solo un altro sogno mistico? Non ci sono alternative che spieghino meglio le scoperte trasmesse dalle sonde spaziali in esplorazione nel sistema solare? Esiste una qualche relazione fra l’esistenza di un eventuale dio e il Dio della Bibbia? Ma, prima ancora di porci queste domande, sarà bene prendere consapevolezza del fatto che la loro formulazione e le risposte che ne conseguono, sono sempre fortemente condizionate dall’educazione, dall’istruzione, dall’ambiente, dai mass media, dalla pubblicità, ecc. Insomma, noi valutiamo le cose da dentro una gabbia. Solo dopo esserci domandati cosa significhi vivere in uno stato di condizionamento, come è sorto questo stesso condizionamento che ci impedisce di valutare la realtà con obiettività, e come si può superare, sarà possibile porci le altre grandi domande.  

Sì, la disponibilità di tempo ci consente di fermarci, per porci le grandi domande. Ma come non disperare quando vediamo che la gente, in qualsiasi nazione industrializzata ripete lo stesso, allarmante, ritornello “Scusa, non ho tempo”?

Ciò significa: non ho tempo per attività, come per esempio lo scambio di informazioni, che non producono denaro. Ma ci rendiamo conto che quando compriamo qualcosa, in senso stretto, non lo compriamo con il denaro? Lo compriamo con il tempo di vita che abbiamo perduto a mettere insieme quel denaro. E, quel tempo di vita, è l’unico bene che non si può comprare. Né recuperare!

Il mio consiglio è dunque di rallentare. Questo consentirà di vedere il mondo con occhi diversi perché si arriverà a un’integrazione del tempo nella propria personalità. Insieme con il possesso di se stessi, si arriverà anche a possedere il tempo. E possedere il tempo significherà essere in grado di governarlo e, quindi, di regalarlo agli altri: è un regalo unico, inestimabile, che conferisce una sensazione di inesauribile pienezza. Ma c’è un altro aspetto importante da valutare. Gli errori personali e i mali sociali possono essere rettificati soltanto da chi “ha tempo”. In primo luogo, perché solo il tempo libero consente di prendere consapevolezza di questi errori; e poi perché solo il tempo libero, ben utilizzato, consente di progettare una strategia di azione.

La nostra gestione del tempo ci ha permesso di lavorare, in media, due mesi all’anno. Ovvio, sarebbe ingenuo da parte mia proporre questo stile di vita su larga scala. Questa esperienza ci ha insegnato, però, che quello che fu proposto dai movimenti popolari, almeno in Europa (e in Australia) negli anni Sessanta-Settanta, vale a dire una settimana lavorativa di trentacinque ore, sarebbe facilmente realizzabile nelle attuali condizioni economiche dei paesi industrializzati. Vorrei essere anche più ottimista: la nostra esperienza dimostra la possibilità, per niente inverosimile, di un periodo lavorativo limitato a sei mesi l’anno, (o venti ore settimanali): una proposta che, tra l’altro, sarebbe osteggiata da moltissimi datori di lavoro e da parte di tutti quei lavoratori per i quali “il denaro non è mai abbastanza”; oltre che da tutti coloro che, istintivamente, percepiscono che il tempo libero è pericoloso, pericoloso come tutto quello che induce la gente a fermarsi a pensare.

In una settimana lavorativa molto più ridotta, è difficile non immaginare una ridistribuzione globale del denaro, che a breve scadenza risolverebbe anche il persistente problema della fame nel mondo. La denutrizione, che è la vergogna di una società globale che ha la presunzione di definirsi civilizzata, verrà trattata a fondo in una delle storie incluse nel libro Contro la corrente, insieme con l’analisi della sua origine e le possibili soluzioni.

Fabrizio Accorsi

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