lunedì 1 aprile 2019

MAROCCO-STORIA # 25 Inseguiti dai trafficanti di droga



Con questo post inizio a pubblicare la prima di tre STORIE(il volume ne compendia trentadue) che appartengono al mio libro"IL NOSTRO CANTO LIBERO".Voglio subito ringraziare la Casa Editrice EUROPA EDIZIONI che ha permesso tale operazione la quale avviene dunque nel pieno rispetto del copyright e,nella sua brevità e limitatezza, con il solo scopo di meglio presentare la mia opera e di farne conoscere la valenza narrativa e contenutistica al maggior numero di lettori.
Spero che queste STORIE siano di vostro gradimento.
Buona lettura a tutti .

Fabrizio Accorsi


Il Marocco è una paese secco e riarso. Per dare un’idea dell’aridità di quella terra, basti pensare che le capre, dal Marocco centrale in giù, incapaci di trovare un solo filo d’erba, si sono adattate ad arrampicarsi sulle fronde degli alberi. Questa informazione ci era stata data da un turista già sul traghetto, prima di arrivare a Ceuta, ma l’avevamo accolta con scetticismo. Una volta entrati in Marocco, nei negozi di souvenir, abbiamo trovato delle cartoline che “raffiguravano” delle capre sugli alberi e abbiamo pensato si trattasse di un montaggio; anche perché, negli stessi negozi erano in vendita  cartoline-montaggio di sirene, con la testa di pesce e  il corpo di donna dalla cintura in giù!! Poi la grande sorpresa quando, a lato della strada, abbiamo visto, increduli, il primo albero, come quello della foto, stracarico di capre. Di lí in avanti é diventata una vista consueta.


MAROCCO-STORIA  #  25    
"Inseguiti dai trafficanti di droga"
 
È solo una questione di tempo. Un viaggio ininterrotto in qualsiasi parte del pianeta, sia con mezzi pubblici sia propri, prima o poi è destinato a trasformarsi in un’emozionante avventura. Il livello della sua intensità emotiva è spesso direttamente proporzionale al coinvolgimento personale e, in casi estremi, alla disposizione a mettersi in gioco e tentare la sorte.


Lunghe distese di deserto grigio, piatte come una tavola, disseminate di pietruzze nere e ammoniti fossili, il nastro d'asfalto che attraversa un paesaggio così arido e privo d’erba da costringere le capre a pascolare sulle fronde dei rari alberi (ah, l’adattamento evolutivo!), sinuose dune aranciate sullo sfondo, soste ristoratrici in oasi ben distanziate o in pittoresche cittadine con labirintiche medine, castelli e moschee, morbide dorsali montuose e verdi colline ricoperte di campi di mariuana, aspre scogliere frastagliate sia sull'oceano a ovest che sul Mar Mediterraneo a nord: ecco, nella sintesi della memoria, le sequenze del paesaggio marocchino che avevamo visto correrci incontro dalla cabina di guida dell’ autocaravan.
Ma, viene un momento in cui, anche la bellezza suprema riesce a saturare gli occhi e la mente. E cosí, dopo cinque mesi in Marocco, nel corso del nostro viaggio intorno al mondo, io e Patrizia decidemmo di prenderci un mesetto di vacanza. Perfino il terzo passeggero, Andrea, un bell’incrocio tra un labrador e un weimarraner, votò a favore della nostra assennata decisione.

La nostra scelta cadde su Al Hoceima, una graziosa cittadina fuorimano, sulla costa nord orientale del Paese, bagnata dal sole e dal mare mediterraneo.
AL HOCEIMA

È pur vero che l’avventura a volte arriva senza preavviso, come un fulmine a ciel sereno; però, nella maggioranza dei casi, si ha già un’impressione o una sensazione di ciò che ci si deve aspettare. La nostra lunga deviazione dalle strade più battute non fu l’eccezione.

Prima di avviarci lungo la pittoresca catena montuosa del Rif, tra Ceuta e Al Hoceima, avremmo dovuto fiutare tempesta, perché non erano mancate pessimistiche previsioni del tempo. Un conoscente occasionale ci aveva informato che, prima e dopo Ketama, un villaggio che si trova a circa duemila metri sopra il livello del mare, avremmo dovuto aspettarci l’assalto di una pletora di venditori di droga, poco amichevoli e molto persistenti. Il nostro consigliere dubitava che avremmo potuto sbarazzarci facilmente di loro. Se avessimo consumato droga, diceva, non ci sarebbero stati problemi. Però, visto che le droghe non ci interessavano, qualche complicazione si sarebbe presentata di sicuro.

KETAMA
Io non ci feci caso più di tanto, anche perché l’esperienza passata mi faceva propendere a pensare che si trattasse della tipica esagerazione di uno dei soliti «turisti della domenica»: con questa espressione, io e Patrizia avevamo battezzato i turisti con scarsa esperienza di viaggio, i quali hanno la tendenza a ingigantire ogni situazione e a vedere pericoli ovunque.

In ogni caso, verificare i fatti per nostro conto non avrebbe che aggiunto condimento ed esperienza al viaggio.

Mentre il nostro motore diesel a quattro cilindri arrancava per la serpeggiante strada di montagna, il traffico diventava sempre più scarso, nell’ultima ora quasi inesistente. Durante questo lasso di tempo, mi ero domandato se saremmo stati in grado di identificare la zona in questione.

Patrizia pose fine ai miei dubbi, quando, rompendo il silenzio, disse: «Forse stiamo entrando nella zona di Ketama.» L’osservazione le fu suggerita dalla vista di alcune persone a lato della strada, le quali tenevano in mano qualcosa, agitandolo nella nostra direzione. D’improvviso, dietro una curva, apparvero alcune case sparse; poi, sulla sinistra, il villaggio dall’inconfondibile forma a otto, con le sue abitazioni bianche che discendono lungo il pendio fino alla verde vallata sottostante.

«Patrizia, guarda. C’è molta gente sul ciglio della strada, la maggior parte sono bambini… Hanno tutti in mano quella che sembra la replica dello stesso pacchetto. Be’, non possono infastidirci, vero?».
PIANTAGIONI DI CANNABIS

«Quelli là no. Ma questa qui sì!» affermò mentre una Mercedes con due persone a bordo, che ci aveva appena sorpassato, cominciava a rallentare progressivamente. Quando mi resi conto delle loro intenzioni, era già troppo tardi. Non potei fare altro che fermarmi dietro il loro paraurti posteriore. Era un fatto imprevisto, perché il nostro consigliere non ci aveva messo in guardia contro questo genere di aggressioni. Incominciai a pensare che, dopotutto, non avesse esagerato.

«Siamo nei guai, con questo coso qui» dissi, riferendomi alla nostra autocaravan. «Non abbiamo nessuna possibilità contro la loro macchina. Anche ammesso che potessimo uscire da questo imbottigliamento. Siamo troppo pesanti e lenti.»

Due tipi uscirono baldanzosi dalla macchina, sbattendo le portiere dietro di loro; uno si avvicinò a passi lunghi e decisi, per poi fermarsi accanto al mio finestrino.

«Volete comprare un po’ di questa?» domandò, mostrando un pacchettino chiuso.

«Di che cosa si tratta…?» chiesi, fingendo di non capire, per mostrargli che non eravamo consumatori.

«Hash» rispose, aprendo il pacchetto. «Ottima qualità. Non è caro.»


Esitai, riflettendo che un drastico rifiuto ci avrebbe procurato solo problemi.

«Be’» tentennai, «non so… Andiamo ad Al Hoceima. Dateci un po’ di tempo per pensarci su… non siamo abituati ma… forse, per cambiare… in ogni modo dobbiamo ripassare di qui, non c’è altra strada…».

«Va bene» disse il tipo, «ma quando ripassate di qui, cercate di me. Non rivolgetevi a nessun altro.»

«Certo!» risposi. E per rendere la cosa più credibile aggiunsi: «Scrivi qui il tuo nome e indirizzo, ci sarà più facile rintracciarti.» Sembrò contento di ricevere il foglietto che gli porsi e di scriverci quello che gli avevo chiesto.

Si avviarono verso la macchina: «Ma ricordate di venirmi a cercare!» ribadì, voltandosi indietro. Poi, salì in macchina con l’amico.

Riprendemmo fiato. «Non è stato così difficile» osservò Patrizia. «Fra un mese, quando ripasseremo di qui, vedremo il da farsi.»

Avevamo percorso pochi chilometri quando la stessa Mercedes ci sorpassò di nuovo. Guardai nello specchietto retrovisore e vidi con costernazione un’altra Mercedes che si avvicinava sempre più. Anche Patrizia vide la seconda automobile e diede segni di nervosismo.

Siamo intrappolati, pensai mentre rallentavo per fermarmi. Però, come se mi fossi trovato al volante di un’auto da corsa con qualche possibilità di farla franca, decisi di non fermarmi troppo vicino al paraurti posteriore della macchina davanti. E lasciai il motore al minimo, in neutro. Sicuramente due inutili precauzioni che, per giunta, avrebbero potuto irritare i nostri postulanti. Intanto l’altra Mercedes si era fermata dietro di noi, incollata al paraurti.

Due tipi uscirono dalla Mercedes che ci precedeva e si avviarono verso l’autocaravan con un’andatura tronfia, che non lasciava presagire niente di buono.

«Che cosa ti ho detto cinque minuti fa?» dissi allo stesso tipo, che appariva adesso più insistente e aggressivo. Usai un tono di voce leggermente alterato, fingendo di essere contrariato. «Perché tanta insistenza? Non eravamo già d’accordo?».

«È meglio che ne compriate un po’ adesso.»

I due tipi si trovavano in piedi accanto al mio finestrino e altre due sentinelle, che erano scese dalla macchina dietro la nostra e che adesso erano così vicine alla portiera di Patrizia da poterne sentire il fiato, si erano appostate dall’altra parte.

«Meglio per te o per me?» chiesi, con una certa dose di sarcasmo.

«Per tutti e due» rispose, in tono vagamente minaccioso.

«Va bene, allora» dissi, alzando le mani sopra la testa in atto di resa. «Sai che cosa ti dico?… Patrizia, per favore mi passeresti il portafogli?» scandii in francese, perché capissero e si rassicurassero. Diedi un’occhiata allo specchietto retrovisore. Non c’era nessuno al volante della macchina parcheggiata dietro: erano scesi tutti.

Mentre Patrizia cercava il portafogli nel cruscotto, le sussurrai: «Attenta! Tieniti forte. Andiamo a fare un giro. Adesso!».

Ingranai la prima il più rapidamente possibile e partii premendo l’acceleratore a tavoletta. Il motore ruggì selvaggiamente, facendomi temere per un istante che non reggesse la pressione.

Il tipo che aveva parlato, nonostante la corpulenza, fece un gran balzo laterale per evitare di essere investito e lanciò un urlo brutale che mi fece accapponare la pelle.

Seguì un momento di totale confusione: anche gli altri gridarono mentre si rigiravano e finivano l’uno addosso all’altro, per evitare di venire travolti. Sorpassai la macchina di fronte, rimasta senza passeggeri. Sentii attraversarmi la mente un’ombra di fuggevole sgomento quando mi resi conto che, dalla spavalderia della mia manovra, sarebbe potuto scaturire qualcosa di orrendo, perfino di irreparabile.

«Sei matto?» gridò Patrizia «Ci uccideranno!».

«Solo se li lascio sorpassare! Vedrai che non gli sarà tanto facile sorpassarci in una strada di montagna così angusta.»

«Ma se hai appena detto che il nostro autocaravan è lento e pesante… Sono molto più veloci di noi» osservò Patrizia, preoccupata.

«Questo è vero, ma non sono altrettanto pesanti. Qui sta il nostro vantaggio e la nostra unica possibilità di salvezza. La cosa che mi preoccupa è che siano armati. Ma è improbabile… Ecco che vengono sotto, con uno spiegamento totale di luci in pieno giorno. Suonano il clacson all’impazzata. Questa si chiama intimidazione!».

«Posso sbagliare, ma non hanno gradito lo scherzetto che gli hai fatto.»

La strada era tagliata, a destra, sul ripido pendio roccioso della montagna. Sull’altro lato, il burrone scendeva parecchie centinaia di metri.

«Ecco, una sta cercando di sorpassare. Tieniti forte, Patrizia. ADESSO

Sterzai bruscamente verso sinistra, sbarrando la strada alla Mercedes che aveva già iniziato il sorpasso. La macchina, come avevo supposto, si fermò di colpo, rischiando di andare fuori strada. Seguì un sinistro stridore dei freni sull’asfalto, già di per sé motivo di preoccupazione.

«Che dolce musica» ebbi la spavalderia di commentare. Mi risuonò all’orecchio dell’immaginazione una sfilza di improperi indirizzati al «bastardo straniero.»

«Spettacolare! Devono aver consumato metà delle gomme» commentò Patrizia, esagerando intenzionalmente. Per un momento, la sua trepidazione fu inghiottita dal brivido dell’inseguimento.

«Scommetto che ti stai entusiasmando. Questa musica la udiremo ancora, anche se in chiave minore, adesso che sanno ciò che li aspetta» osservai.

Quando la macchina venne all’attacco la seconda volta, misi in atto la stessa strategia. Il messaggio era chiaro: se sorpassate, finite nel burrone.»

Mentre cresceva l’intensità dell’eccitazione, cercavo di visualizzare la frustrazione dei nostri inseguitori. Ma c’era poco da fare: ero riuscito a metterli in chiaro svantaggio tecnico. E psicologico.

«Patrizia, ho sempre pensato che i film riflettano la vita reale soltanto in modo parziale. E, sicuramente, meno emotivo. Sono solo surrogati della realtà. Questa è la realtà! A meno che i nostri amici non escogitino qualcosa di più creativo che cercare di insistere a sorpassare, perderanno la partita.»

«A questo punto possiamo essere sicuri che non sono armati, altrimenti saremmo finiti noi giù per il burrone.»

«Con la rassicurazione di non trovarci in pericolo mortale, a meno che non riescano a sorpassare, dovremmo essere in grado di goderci il thriller fino in fondo.»

Poi, accadde qualcosa di inconsueto. Una fitta coltre di nebbia salì dalla valle, avvolgendo rapidamente il paesaggio. L’imprevisto non mi piacque, ma evitai di palesare a Patrizia la mia preoccupazione. Infatti, non c’era dubbio che il cambiamento climatico avrebbe beneficiato i nostri inseguitori. Perché? Perché dal momento che, a causa della nebbia, riuscivo a vedere nello specchietto retrovisore un tratto di soli cinquanta metri, le Mercedes sarebbero potute fuoruscire pericolosamente dalla nebbia dietro di noi a grande velocità. Non faceva alcuna differenza nelle curve, dove un potenziale incidente con un veicolo in transito nel senso contrario li dissuadeva a sorpassare, ma nei rettilinei dovevo prestare la massima attenzione e tenere l’occhio incollato al retrovisore.

«Patrizia, aiutami a guardare nello specchietto. In continuazione, intendo. Urla quando vengono fuori dalla nebbia. Dobbiamo essere prudenti, anche se l’ultima volta che ho intravvisto il fantasma della loro macchina quando la nebbia si era diradata per un attimo, essa si trovava a più di cento metri. Che abbiano desistito? Pare proprio di sì.»

«Per niente! Eccoli che vengono all’attacco, fai attenzione» disse Patrizia, in un rettilineo.

Ma neppure stavolta riuscirono nell’intento. Era vero che l’unica possibilità di successo l’avevano in un rettilineo, ma in quei tratti di strada non solo facevo più attenzione, ma riducevo le loro possibilità di successo al minimo aumentando la velocità quanto più possibile.

«Eccitante!» esclamò Patrizia.

«Finalmente mi sento fare un complimento!».

Ci fu un altro vano tentativo che mi fece concentrare di nuovo sul retrovisore. Poi, più nulla. Mentre continuavo a guidare con attenzione e a guardare a intermittenza nello specchietto, avevo visioni di Mercedes fuoruscire dai miasmi infernali con la furia di mostri mitici, fendere la spessa coltre di nebbia con i raggi perforanti delle loro pupille infuocate e trapassare la barriera d’aria con il tuono dei loro corni.

Intanto, la nebbia si era diradata. Il retrovisore rifletteva adesso un rettilineo deserto di trecento metri. Non osavo sperare che avessero desistito. A meno che… «Sai cosa sto pensando? Questo teleromanzo è andato avanti per quasi un’ora. Una lunga ora. Adesso che la strada sta diventando più ampia e avrebbero molte più possibilità di sorpassarci, sono scomparsi. Non ha molto senso. L’unica spiegazione è che stiamo entrando in una giurisdizione diversa, nella quale non si sentono altrettanto protetti.»

«Eccola là!».

«Dannazione, ancora la Mercedes. Non vedo niente nello specchietto.»

«No, laggiù, davanti… sulla destra… quella macchina parcheggiata. Forse avevi ragione. Dev’essere un’altra giurisdizione.»

Patrizia aveva appena notato una pattuglia della polizia parcheggiata a lato della strada, vicino a un incrocio. Sembrava un posto di blocco. Rallentai. Ci fecero cenno di proseguire. Invece, arrestai la marcia.

Con mia soddisfazione, constatai che capivano il francese. Gli raccontai quello che, quasi sicuramente, già sapevano. Inoltre, precisai che non mi importava un fico secco se quelli vendevano droga per la strada, ma quando questo si trasformava in una coercizione a comprare, allora non ero più d’accordo. Non mi parvero molto interessati al mio problema. Infine, quando gli dissi che il loro atteggiamento nel mio paese era denominato «chiudere gli occhi», alzarono le spalle e dissero che non potevano fare nulla in una giurisdizione che non era di loro competenza (sic!).

Però, dopo aver parlato con alcuni turisti nei giorni successivi, tutti sembravano d’accordo nel sostenere che, se avessimo acquistato la droga, la polizia al posto di blocco ci avrebbe perquisiti e arrestati per possesso. O chiesto un bel po’ di soldi per evitare la prigione. Dopotutto giocavano sul sicuro, sapevano quando la droga era stata venduta.

Ripartimmo per Al Hoceima.

Adesso, mentre guidavo senza dovermi preoccupare degli spacciatori di droga, almeno fino a quando avremmo riattraversato quella zona, riflettevo che c’era una linea sottile tra avventura e disastro, realtà e finzione, mito e realtà. Perfino tra vita e morte.

La vita è talvolta strana… Le cose di solito accadono… E tuttavia… altre volte, non si ha altra alternativa se non quella di farle accadere. Avremmo potuto comprare la droga e gettarla fuori dal finestrino, come qualcuno ci avrebbe suggerito in seguito. Era economica, non avrebbe inciso sul nostro bilancio… ma… che vigliaccheria cedere a un abuso! Nessuno di noi due lo prese in considerazione come opzione. Era una questione di principio. Si trattava di difendere la nostra libertà di pensiero e di decisione: un punto non negoziabile.

Come se Patrizia mi avesse letto nel pensiero, disse: «Hai fatto bene a informare la polizia. Nessuno ha il diritto di minacciare il prossimo e costringerlo ad agire contro la sua volontà o filosofia di vita. A proposito di intimidazione… Attento! Ecco che vengono di nuovo!».

«Cooome?!».

«Ci sei cascato, eh?».

Ad Al Hoceima evitammo, come d’abitudine, i grandi complessi turistici e le spiagge affollate. Parcheggiammo, invece, appena fuori città, nella parte orientale, a pochi passi dalla battigia di una caletta a fiordo, scavata dagli elementi fra due pareti rocciose scoscese, digradanti in una spettacolare spiaggia bianca.

Fu un mese riposante e istruttivo, libero da preoccupazioni, a contatto con la natura, il mare e i pescatori che ogni pomeriggio tiravano a riva le reti.

Due giorni prima della partenza, decidemmo che era venuto il momento di pensare seriamente a come attraversare senza rischi quella zona conflittuale: una partenza alle due del mattino ci avrebbe consentito di trovarci sul passo fatidico alle 4:30/5:00, un orario in cui era estremamente improbabile che ci fosse in giro gente a vendere droga o inseguire autocaravan!

Purtroppo, a volte, anche i migliori progetti finiscono in una bolla di sapone. La sera precedente avevamo fatto baldoria fino a notte inoltrata con alcuni amici che volevano accomiatarsi alla grande, e alle due del mattino eravamo ancora nel primo sonno. Ma non avremmo potuto fare altrimenti. Era un giorno speciale e la nostra filosofia di vita, che richiedeva di vivere il momento presente fino in fondo, aveva prevalso, ancora una volta, sui nostri progetti. D’altra parte, non avremmo potuto posticipare la partenza nemmeno di un giorno perché la scadenza del visto non lo consentiva.

Partimmo alle otto, aspettandoci il peggio ma anche fiduciosi di inventare una via d’uscita. Verso le undici, qualche chilometro prima di Ketama, molto prima della zona in cui avevamo notato la processione di ragazzini a lato della strada e proprio dove le Mercedes ci avevano costretto a fermarci la seconda volta, d’improvviso qualcosa attrasse la mia attenzione. Non nella strada, però, ma sul parabrezza. Poi, ne vidi altre. Quelle cose lanuginose non potevano essere escrementi di uccelli. E neppure goccioloni di pioggia. Erano fiocchi di neve!

Più procedevamo, più nevicava. Un sottile manto bianco coprì ben presto l’asfalto. Mancavano ancora alcuni chilometri prima di raggiungere la nostra area.

«È troppo bello! Se continua a nevicare così, Patrizia, non ci sarà nessuno nella strada!».

Stavamo ora attraversando la zona a rischio. Tutto era deserto. L’impressione era quella di attraversare un villaggio abbandonato. Non c’era nessuno in giro, men che meno veicoli. Tutto era dipinto di bianco. Quanto era bello il colore del silenzio!

Quando l’asfalto bagnato ricomparve, eravamo ormai lontani. Difficile credere che fosse l’undici di maggio! Il giorno prima avevamo celebrato il mio compleanno fin dopo la mezzanotte e adesso, un giorno più tardi, ricevevo dalla natura questo impagabile regalo!

da "IL NOSTRO CANTO LIBERO" Fabrizio Accorsi


2 commenti:

  1. Ma che bello questo racconto di vita vissuta ....certo un po' d erba non andava male ...ahahaha

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  2. "Grazie Tiziana, sono contento che ti sia piaciuto."
    Grazie mille!
    Fabrizio

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