giovedì 26 dicembre 2019

CITTADINI DEL MONDO N° 6 La polizia turca,Canakkale - Turchia


LA POLIZIA TURCA - Canakkale, Turchia

“Manrico, vieni qui. Vuoi comprare una Beretta?”

“Nemmeno per sogno! Al prossimo posto di blocco la polizia ti ferma, ti perquisisce ed è fatta. Ti mettono dentro e non esci più. Le galere turche sono anche troppo famose... ”

Cosí Manrico aveva risposto al mio invito a comprare una Beretta che gli avevo fatto sulla cima di un passo turco, in una fredda e buia notte di neve e di gelo, quando, dopo essere stati costretti ad accodarci ad una lunga fila di veicoli fermi per un incidente stradale, eravamo usciti per renderci conto della situazione. In quella occasione, alcuni attimi prima di rientrare nel veicolo, eravamo stati abbordati da due tipi, uno dei quali teneva in mano una pistola, che, dopo i primi convenevoli ci offrí in vendita con la piùgrande disinvoltura. (Vedi la storia “Sulla strada” ne “Il nostro canto libero”). Ed io, poco dopo, ne avevo diplomaticamente dirottato la vendita su Manrico. Il commento di Manrico, presto dimenticato nel cassetto della memoria, riaffiorò, guarda caso, proprio in Turchia, molti anni dopo il nostro ritorno dall’Australia, quando, all’una di notte di una certa domenica, i poliziotti di una pattuglia della polizia ci indussero a seguirli alla centrale di Cannakale. Non avevamo nessuna idea del perché.


Canakkale è una città portuale turca, situata nel punto più angusto del versante meridionale (asiatico) dello stretto dei Dardanelli (o Ellesponto).

La stanza al secondo piano della stazione di polizia di Canakkale era fresca e ventilata poco dopo le otto del mattino di una domenica come tante altre. Salvo che, per me e Patrizia, non era affatto una domenica qualunque. Seduti su due sedie davanti a una scrivania vuota, in una sala di passaggio, eravamo in attesa di un interrogatorio.

Dalle porte laterali c’era un inquietante andirivieni di gente, vestita in modo eterogeneo, tra cui alcuni poliziotti in uniforme. Mentre ci passavano alle spalle si udiva un costante parlottare in turco, una lingua della quale, durante quel nostro primo soggiorno nel Paese, avevamo soltanto nozioni rudimentali. Ogni volta che le stesse persone rientravano nella stanza, le loro facce assumevano un’espressione sempre meno cordiale, anzi più scura e cattiva. Un malcelato disprezzo nei loro occhi sembrava curiosamente seguire una curva ascendente di autoeccitazione, forse alimentata dal reciproco rimuginare su ipotesi e speculazioni. Non c’era da meravigliarsi, eravamo testimoni delle reazioni tipiche di una mentalità che si era modellata sul codice napoleonico, al quale si era fermata: una persona è colpevole finché non riesce a dimostrare la sua innocenza. Lo si deduceva dall’atteggiamento autoritario del loro incedere, dai modi zotici, dai mezzi sguardi che ci lanciavano senza vederci. Che nessuno ci avesse salutato con un “buongiorno”, nemmeno in turco, era preoccupante.
Ma molto più preoccupante era il vuoto e l’inconsapevolezza dei loro occhi. Sentivo che ciascuno di loro non avrebbe esitato a condannarci su prove inesistenti. Barriera linguistica a parte, figurarsi provare a convincere degli analfabeti che non avevo nessun interesse ad acquistare dai locali delle antichità archeologiche, ma che volevo portare a termine una ricerca linguistico-topografica su certi aspetti della geografia della Troia omerica. Che? Topografico? Linguistico? Troia? Omerico? Geografia? Dov’era, in tutto questo, l’incentivo economico?

Dopo più di tre ore di snervante attesa, durante la quale non riuscivamo a capacitarci di essere finiti in una situazione simile, incapaci di ipotizzare cosa sarebbe successo in seguito, verso le undici e trenta entrò nella stanza un signore in borghese, sulla quarantina, alto, dalla figura slanciata e dal portamento sicuro. Passandoci accanto, ci salutò e ci rivolse perfino un sorriso: notevole per uno che era stato di sicuro buttato giù dal letto nel suo giorno di riposo. Come ricordo il suo sorriso rilassato! Forse aveva appena fatto una tarda colazione, o un brunch alla turca. Dopo aver incontrato i suoi occhi, cominciammo anche noi a rilassarci: erano i soli occhi intelligenti nella stanza! Era rassicurante pensare che da lui, e da lui solo, sarebbe dipesa la nostra sorte.

Appena fu seduto alla scrivania si rivolse alla persona più vicina a lui, un giovane interprete insieme al quale era entrato, che rimase in piedi al suo fianco e si incaricò di darci la prima informazione: la conversazione si sarebbe svolta in inglese. C’erano volute tre ore perché riuscissero a organizzarsi. Forse non avevano osato svegliare il superiore, ma ciò era comprensibile, considerando che era domenica.

Ma come eravamo finiti in una stazione di polizia?

La sera precedente avevamo parcheggiato l’autocaravan nella zona residenziale di Canakkale, davanti alla casa dell’ex direttore del museo archeologico, per onorare un suo invito a cena. Lo avevo conosciuto un mese prima, quando il personale del museo mi aveva indirizzato da lui nell’edificio comunale dove ora lavorava come funzionario pubblico. La difficoltà principale era stata la comunicazione, perché lui aveva grossi problemi con l’inglese. Però, sin dalla prima volta, aveva preso a cuore la mia ricerca sulla Troia omerica, regalandomi tre fotocopie di un recente studio geologico in cui si mostrava che il territorio identificato dagli archeologi e da altri studiosi come la “piana di Troia”, la pianura cioè dove secondo Omero ebbero luogo i combattimenti tra i Troiani e i Greci, in epoca romana si trovava sotto l’acqua del mare; e, 1200-1300 anni prima di Cristo, al tempo della guerra di Troia, sotto acque ancora più profonde. Questa era una prova solidissima che corroborava le mie precedenti ricerche, che ubicavano altrove la pianura.

La magnifica cena fu solo una delle sorprese. L’altra fu che la moglie del nostro uomo parlava e capiva sufficientemente l’inglese da poter portare avanti una conversazione e tradurre per il marito. Fu una serata memorabile, durante la quale, l’unica cosa che evitai di chiedergli fu perché non lavorasse più come sovrintendente del piccolo ma interessantissimo museo omerico della città. Non era diplomazia: era una cosa che non mi riguardava.

All’una del mattino, dopo una serata nella quale i nostri ospiti ci invitavano a sederci ogni volta che accennavamo ad accomiatarci, uscimmo contenti e meravigliati, ancora una volta, della grande ospitalità turca.

Ma appena salimmo a bordo dell’autocaravan, che avevamo lasciato sotto la luce di un lampione pubblico, arrivò un’auto della polizia che parcheggiò accanto a noi. Abbassai il finestrino e, dietro richiesta di un agente, presentai i passaporti. Questi li portò dentro l’auto. Mi sarei aspettato una pronta restituzione, data l’ora. Invece non successe nulla. Intanto il tempo passava e nessuno si preoccupava di darci una spiegazione. Forse perché nessuno parlava un’altra lingua oltre il turco.

Dopo mezz’ora il silenzio della notte fu rotto da un rumore improvviso, quando una pattuglia arrivò a tutta velocità e parcheggiò accanto all’altra! Era evidente che non si trattasse di un controllo di routine. I nuovi arrivati, dopo aver dato un’occhiata ai passaporti ce li restituirono e poi ci fecero cenno di seguire la loro auto, dietro la quale giungemmo alla stazione di polizia. Nessuno giustificò il motivo di questo comportamento per lo meno insolito, e noi pensammo bene di astenerci dal chiedere. Erano le due passate e, come potei, spiegai loro di lasciarci dormire nel parcheggio e che l’indomani mattina ci saremmo presentati in centrale alle otto, orario di apertura, per chiarire la nostra situazione. Il portone chiuso della centrale era ben visibile a una trentina di metri dal parcheggio aperto. Ero sul punto di consegnare al capo pattuglia i passaporti come garanzia delle mie parole, ma lui mi fece cenno col capo che andava bene così.

Dopo sei ore di sonno tranquillo e una buona colazione, appena vedemmo aprirsi il grande portone della centrale, ci dirigemmo, attraverso il cortile, verso una scalinata esterna di marmo bianco; un piantone ci accompagnò all’interno, su per due rampe di scale fino a un grande salone e, da lì, entrammo in una stanza di dimensioni minori.

Adesso non mancava molto a mezzogiorno e ci trovavamo davanti al capo della polizia.

Ci tranquillizzammo ulteriormente quando, dopo aver saputo che eravamo italiani, il capo ci informò di aver conseguito la specializzazione in Italia, in una città marchigiana. Però, apparentemente, non parlava italiano, tantomeno inglese!

Era comunque già al corrente del nostro prolungato soggiorno e dei due mesi di spostamenti nell’area a ovest/sud-ovest di Canakkale, corrispondente all’antica Troade omerica.

Innanzitutto, ci chiese se cercavamo qualcosa in particolare.

Coadiuvato dall’interprete, gli feci sapere che la mia ricerca consisteva nel rintracciare i nomi greci omerici di città, luoghi, fiumi, colline, montagne, templi e altre caratteristiche topografiche. E che lo dovevo fare attraverso i nomi turchi, dato che coloro che avrebbero potuto facilitare il mio lavoro, gli emigrati greci, erano stati espulsi dal Paese nel 1923.

Lo informai che avevamo programmato tre mesi di esplorazione dell’intera zona, un’area del diametro di circa dieci chilometri, e che proprio in quell’area così ristretta avevamo usato come mezzo di trasporto sia l’autocaravan sia le gambe, percorrendo, nei primi due mesi, circa settecento chilometri per strada e duecento a piedi in luoghi inaccessibili a veicoli.

Non gli nascosi il fatto che i contadini locali, convinti che cercassimo reperti archeologici, si presentavano dovunque ci trovassimo – in mezzo ai campi, in viottoli e strade sterrate fuori mano – esibendo vasellame, pezzi di capitelli di templi, perfino monete romane: probabilmente per venderceli.

Alla domanda se avessimo scattato delle fotografie, gli risposi senza esitazione che ne avevamo fatte molte.

“Potrei vedere i rullini?” domandò.

“Certamente” replicai. Chiesi quindi il permesso di andarli a prendere nell’autocaravan e ritornai poco dopo con cinque rullini.

“Posso chiederle che cosa ha fotografato?”

“Alcuni sono scatti degli scavi di Troia, altri della piana di Troia, di rovine di antiche città qui intorno... Ignoravo che ce ne fossero altre dieci in un raggio relativamente limitato... rovine greche... romane... alcune di queste costruite sopra insediamenti del tempo della guerra di Troia. Estremamente interessante... ” parlavo lentamente, pausando ogni due frasi per facilitare il compito dell’interprete.

“Ho fotografato colonne, capitelli, statue e sarcofagi che si trovano da duemila anni nei luoghi originali, alcuni a pochi metri dalla strada asfaltata! Tutti li possono osservare, senza nemmeno arrestare la marcia del loro veicolo. Ho fotografato il basamento di quello che ritengo fosse il tempio della Sibilla nel suolo rosso di Marpesso, dopo averne rintracciato il corso d’acqua, oramai secco, che lambiva il tempio. Risalii in autocaravan la strada sterrata che conduce sulle colline orientali, per identificare quello che credo fosse il monte sacro degli Dei, l’Ida... Interessante decifrare l’origine di quel nome... Credo di aver anche capito cosa intende Omero quando scrive che le mura di cinta di Ilio (Troia) furono costruite dai Troiani con l’aiuto di Poseidone, il dio del mare. Ho fotografato quelle mura... Questo, per darle un’idea. È un lavoro da dilettante che mi riempie, però, di orgoglio e soddisfazione… ”

Feci una pausa più lunga del solito.

“Percepisco il suo entusiasmo e me ne rallegro.” Poi, mentre pronunciava le seguenti parole, che l’interprete tradusse subito, mi rivolse uno sguardo fisso, come a voler soppesare la mia reazione. “Non avrebbe niente in contrario se sviluppassimo i rullini?” chiese, in tono retorico.

“Affatto” risposi. “A una condizione, però... Che paghiate voi lo sviluppo.”

Il capo della polizia mi lanciò un’occhiata interrogativa.

“Vede, come lei ben sa, lo sviluppo delle fotografie qui in Turchia non è... non è equivalente a quello in Europa. C’è da aspettarsi, pertanto, che alcune di queste foto non siano... come dire... non siano all’altezza di quello che io avevo programmato. Se proprio vuole vedere cosa contengono, io non mi oppongo... Ma almeno, perderle per perderle, non ne avrò pagato i costi.”

Ero curioso di sentire quale decisione avrebbe preso, perché non era difficile indovinare che le disponibilità finanziarie della polizia turca non contemplavano spese supplementari di questo tipo. D’altro canto, io non avevo niente da temere.

Forse il gran capo rifletté che avrebbe fatto un buco nell’acqua, perché disse infine:

“D’accordo” e mi restituì i rullini, che io misi in tasca.

Poi venne all’attacco sul punto che gli stava più a cuore. Dopo molte circonlocuzioni, condite con molta cautela, mi chiese se l’ex sovrintendente del museo mi aveva offerto pezzi archeologici. Quando gli risposi di no, assolutamente no, mi sembrò di cogliere sul suo viso una fuggevole ombra di sollievo. Aggiunsi che mi aveva aiutato con fotocopie di uno studio geologico sulla piana di Troia, ben sapendo che non gliene importava un bel nulla. Tuttavia, questo particolare avrebbe indirettamente confermato i miei veri interessi e scagionato ulteriormente il nostro amico da sospetti.

Dopo una serie interminabile di domande – tutte poste, a onor del vero, in un modo corretto e civile – me ne fece una, verso le tre del pomeriggio, che mi fece pensare “cribbio, credevo fosse tutto finito e invece siamo solo all’inizio!” La domanda retorica fu:

“Le dispiace se diamo un’occhiata nell’autocaravan?”

“Affatto!” esclamai, quando dopo sette ore in quella stanza, nonostante non avessi bevuto (né ovviamente mangiato), cominciavo a sentire un urgente bisogno di urinare.

Dopo aver sceso le due rampe di scale interne, accompagnati da due poliziotti, sostai brevemente vicino alla porta d’entrata, prima della scalinata esterna, e rivolsi lo sguardo a Patrizia. Immaginando che anche lei avesse la mia stessa urgenza, le sussurrai:

“Non possiamo permetterci di andare in bagno sul più bello. Dobbiamo tenerli d’occhio in due. Sarebbe un disastro se infilassero qualcosa nell’autocaravan. Sai che cosa intendo... ”

E così fu. Mentre uno dei poliziotti frugava nella cabina di guida, io lo controllavo. Patrizia non staccava l’occhio dalle mani dell’altro, che frugava nel vano cucina e nel bagno. Dopo una perquisizione troppo breve e superficiale per potersi definire professionale, chiusi a chiave un’altra volta il veicolo e ci avviammo di nuovo nella stanza di sopra, dove il gran capo ci ricevette con un sorriso. Forse lui, in bagno, c’era andato.

Parlottò brevemente con i suoi subalterni. Poi, da qualche parte, uscì un verbale in turco, scritto a mano, che l’interprete mi pose davanti perché lo firmassi. Diedi un’occhiata a Patrizia, che avendo già indovinato che cosa avrei risposto, scosse impercettibilmente il capo e arricciò le labbra.

“Scusate, non si tratta di mancanza di fiducia... ma io, per principio.... non firmo un verbale in una lingua che non conosco.”

L’interprete tradusse, stavolta con un certo imbarazzo. Il gran capo, anche lui colto da un improvviso disagio, non sapeva che pesci pigliare.

“Siccome io firmerò soltanto un verbale che capisco, non ci resta altro da fare che tradurlo in inglese” osservai, prendendo atto che si trattava soltanto di una pagina. Ma per loro doveva essere l’equivalente della Divina Commedia.

“Va bene” disse, infine, il gran capo.

L’interprete cominciò a tradurre la prima frase in inglese, in modo traballante, a voler essere indulgenti. La corressi oralmente in alcuni punti e lui cominciò a sprizzare gioia da tutti i pori: era evidente che non era abituato a un compito così impegnativo e si accorgeva con piacere che poteva contare sul mio aiuto. Scrisse la prima frase. Arrivati alla seconda, tradusse due parole poi mi guardò per l’imbeccata. Alla fine mi passò il foglio affinché scrivessi io, dopo che lui mi aveva dato l’idea del contenuto. Modificai alcuni punti che non erano chiari concettualmente, e lui continuò per tutto il tempo ad accompagnare la mia traduzione con molti “ottimo”, “molto bene” e un sorriso tanto soddisfatto da risultare comico.

Dopo tre quarti d’ora, avevamo la minuta.

“La scriviamo a macchina?” domandai.

Ci fu un momento di imbarazzo generale. Ma quello più in difficoltà era il capo. Si guardarono l’un l’altro, indecisi. Che non avessero una macchina da scrivere?

“Non abbiamo una macchina da scrivere” dichiarò l’interprete. Non capii se stesse traducendo le parole del capo o se l’avesse detto di sua iniziativa.

“Non si preoccupi, ne ho una portatile dentro l’autocaravan. La batterò io per voi, non ci vorrà molto.”

Stavolta percepii una vena di umiliazione nei loro volti. Ma che cosa potevano fare di fronte a una tale combinazione di gentilezza e disponibilità?

Andai a prendere la macchina da scrivere, evitando la tentazione di aprire la porta del bagno, per solidarietà con Patrizia, che mi aspettava di sopra.

Quando ebbi finito con il verbale, lo rilessi all’interprete e poi lo firmai. Adesso sorridevano tutti.

Prima di andarcene, chiesi al gran capo:

“La mia ricerca non è terminata. Abbiamo il suo permesso di muoverci liberamente sul campo come prima, senza problemi?”

“Certo, avete il mio permesso.”

“Grazie per la comprensione” dissi, “per me è molto importante.”

Forse esagerai un po’ quando aggiunsi, sempre però con rispetto e gentilezza:

“Un’ultima cosa. Una volta arrivati in Italia, vorrei inviarle una cartolina. Non sono le Marche, ma il posto è ugualmente bello. A che indirizzo la invio?”

Esitò un istante. Non doveva essergli sfuggito che volevo sapere le sue generalità. Poi, con un certo disagio scrisse un indirizzo. Mi accorsi in seguito che non era l’indirizzo di casa, come avevo pensato, ma della centrale di polizia. Però qualcosa avevo ottenuto: il suo nome e cognome. Non era poco!

Scendemmo in fretta le scale e aprii la porta laterale dell’autocaravan ancora più in fretta.

“Prima tu, ma sbrigati” esortai Patrizia, spingendola nel bagno. Poi fu il mio turno. Credo di interpretare bene anche il pensiero di Patrizia affermando che fu la pisciata più liberante e meritata che ricordo. Dopo più di otto ore e... un pizzico di stress!

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