LA POLIZIA TURCA - Canakkale, Turchia
“Manrico, vieni qui. Vuoi comprare una Beretta?”
“Nemmeno per sogno! Al prossimo posto di blocco la
polizia ti ferma, ti perquisisce ed è fatta. Ti mettono dentro e non esci più. Le
galere turche sono anche troppo famose... ”
Cosí Manrico aveva risposto al mio invito a comprare una
Beretta che gli avevo fatto sulla cima di un passo turco, in una fredda e buia
notte di neve e di gelo, quando, dopo essere stati costretti ad accodarci ad
una lunga fila di veicoli fermi per un incidente stradale, eravamo usciti per
renderci conto della situazione. In quella occasione, alcuni attimi prima di
rientrare nel veicolo, eravamo stati abbordati da due tipi, uno dei quali
teneva in mano una pistola, che, dopo i primi convenevoli ci offrí in vendita con la piùgrande disinvoltura. (Vedi la storia “Sulla strada” ne “Il nostro canto
libero”). Ed io, poco dopo, ne avevo diplomaticamente dirottato la vendita su
Manrico. Il commento di Manrico, presto dimenticato nel cassetto della memoria,
riaffiorò, guarda caso, proprio in Turchia, molti anni dopo il nostro ritorno
dall’Australia, quando, all’una di notte di una certa domenica, i poliziotti di
una pattuglia della polizia ci indussero a seguirli alla centrale di Cannakale.
Non avevamo nessuna idea del perché.
Canakkale è una città portuale turca, situata nel punto
più angusto del versante meridionale (asiatico) dello stretto dei Dardanelli (o
Ellesponto).
La stanza al secondo piano della stazione di polizia di
Canakkale era fresca e ventilata poco dopo le otto del mattino di una domenica
come tante altre. Salvo che, per me e Patrizia, non era affatto una domenica
qualunque. Seduti su due sedie davanti a una scrivania vuota, in una sala di
passaggio, eravamo in attesa di un interrogatorio.
Dalle porte laterali c’era un inquietante andirivieni di
gente, vestita in modo eterogeneo, tra cui alcuni poliziotti in uniforme.
Mentre ci passavano alle spalle si udiva un costante parlottare in turco, una
lingua della quale, durante quel nostro primo soggiorno nel Paese, avevamo
soltanto nozioni rudimentali. Ogni volta che le stesse persone rientravano
nella stanza, le loro facce assumevano un’espressione sempre meno cordiale,
anzi più scura e cattiva. Un malcelato disprezzo nei loro occhi sembrava
curiosamente seguire una curva ascendente di autoeccitazione, forse alimentata
dal reciproco rimuginare su ipotesi e speculazioni. Non c’era da meravigliarsi,
eravamo testimoni delle reazioni tipiche di una mentalità che si era modellata
sul codice napoleonico, al quale si era fermata: una persona è colpevole finché
non riesce a dimostrare la sua innocenza. Lo si deduceva dall’atteggiamento
autoritario del loro incedere, dai modi zotici, dai mezzi sguardi che ci
lanciavano senza vederci. Che nessuno ci avesse salutato con un “buongiorno”,
nemmeno in turco, era preoccupante.
Ma molto più preoccupante era il vuoto e
l’inconsapevolezza dei loro occhi. Sentivo che ciascuno di loro non avrebbe
esitato a condannarci su prove inesistenti. Barriera linguistica a parte,
figurarsi provare a convincere degli analfabeti che non avevo nessun interesse
ad acquistare dai locali delle antichità archeologiche, ma che volevo portare a
termine una ricerca linguistico-topografica su certi aspetti della geografia
della Troia omerica. Che? Topografico? Linguistico? Troia? Omerico? Geografia?
Dov’era, in tutto questo, l’incentivo economico?
Dopo più di tre ore di snervante attesa, durante la quale
non riuscivamo a capacitarci di essere finiti in una situazione simile,
incapaci di ipotizzare cosa sarebbe successo in seguito, verso le undici e
trenta entrò nella stanza un signore in borghese, sulla quarantina, alto, dalla
figura slanciata e dal portamento sicuro. Passandoci accanto, ci salutò e ci
rivolse perfino un sorriso: notevole per uno che era stato di sicuro buttato
giù dal letto nel suo giorno di riposo. Come ricordo il suo sorriso rilassato! Forse
aveva appena fatto una tarda colazione, o un brunch alla turca. Dopo aver
incontrato i suoi occhi, cominciammo anche noi a rilassarci: erano i soli occhi
intelligenti nella stanza! Era rassicurante pensare che da lui, e da lui solo,
sarebbe dipesa la nostra sorte.
Appena fu seduto alla scrivania si rivolse alla persona
più vicina a lui, un giovane interprete insieme al quale era entrato, che
rimase in piedi al suo fianco e si incaricò di darci la prima informazione: la
conversazione si sarebbe svolta in inglese. C’erano volute tre ore perché
riuscissero a organizzarsi. Forse non avevano osato svegliare il superiore, ma
ciò era comprensibile, considerando che era domenica.
Ma come eravamo finiti in una stazione di polizia?
La sera precedente avevamo parcheggiato l’autocaravan
nella zona residenziale di Canakkale, davanti alla casa dell’ex direttore del
museo archeologico, per onorare un suo invito a cena. Lo avevo conosciuto un
mese prima, quando il personale del museo mi aveva indirizzato da lui nell’edificio
comunale dove ora lavorava come funzionario pubblico. La difficoltà principale
era stata la comunicazione, perché lui aveva grossi problemi con l’inglese.
Però, sin dalla prima volta, aveva preso a cuore la mia ricerca sulla Troia
omerica, regalandomi tre fotocopie di un recente studio geologico in cui si
mostrava che il territorio identificato dagli archeologi e da altri studiosi
come la “piana di Troia”, la pianura cioè dove secondo Omero ebbero luogo i
combattimenti tra i Troiani e i Greci, in epoca romana si trovava sotto l’acqua
del mare; e, 1200-1300 anni prima di Cristo, al tempo della guerra di Troia,
sotto acque ancora più profonde. Questa era una prova solidissima che
corroborava le mie precedenti ricerche, che ubicavano altrove la pianura.
La magnifica cena fu solo una delle sorprese. L’altra fu
che la moglie del nostro uomo parlava e capiva sufficientemente l’inglese da
poter portare avanti una conversazione e tradurre per il marito. Fu una serata
memorabile, durante la quale, l’unica cosa che evitai di chiedergli fu perché
non lavorasse più come sovrintendente del piccolo ma interessantissimo museo
omerico della città. Non era diplomazia: era una cosa che non mi riguardava.
All’una del mattino, dopo una serata nella quale i nostri
ospiti ci invitavano a sederci ogni volta che accennavamo ad accomiatarci,
uscimmo contenti e meravigliati, ancora una volta, della grande ospitalità
turca.
Ma appena salimmo a bordo dell’autocaravan, che avevamo
lasciato sotto la luce di un lampione pubblico, arrivò un’auto della polizia
che parcheggiò accanto a noi. Abbassai il finestrino e, dietro richiesta di un
agente, presentai i passaporti. Questi li portò dentro l’auto. Mi sarei
aspettato una pronta restituzione, data l’ora. Invece non successe nulla.
Intanto il tempo passava e nessuno si preoccupava di darci una spiegazione.
Forse perché nessuno parlava un’altra lingua oltre il turco.
Dopo mezz’ora il silenzio della notte fu rotto da un
rumore improvviso, quando una pattuglia arrivò a tutta velocità e parcheggiò
accanto all’altra! Era evidente che non si trattasse di un controllo di
routine. I nuovi arrivati, dopo aver dato un’occhiata ai passaporti ce li
restituirono e poi ci fecero cenno di seguire la loro auto, dietro la quale
giungemmo alla stazione di polizia. Nessuno giustificò il motivo di questo
comportamento per lo meno insolito, e noi pensammo bene di astenerci dal
chiedere. Erano le due passate e, come potei, spiegai loro di lasciarci dormire
nel parcheggio e che l’indomani mattina ci saremmo presentati in centrale alle
otto, orario di apertura, per chiarire la nostra situazione. Il portone chiuso
della centrale era ben visibile a una trentina di metri dal parcheggio aperto.
Ero sul punto di consegnare al capo pattuglia i passaporti come garanzia delle
mie parole, ma lui mi fece cenno col capo che andava bene così.
Dopo sei ore di sonno tranquillo e una buona colazione,
appena vedemmo aprirsi il grande portone della centrale, ci dirigemmo,
attraverso il cortile, verso una scalinata esterna di marmo bianco; un piantone
ci accompagnò all’interno, su per due rampe di scale fino a un grande salone e,
da lì, entrammo in una stanza di dimensioni minori.
Adesso non mancava molto a mezzogiorno e ci trovavamo
davanti al capo della polizia.
Ci tranquillizzammo ulteriormente quando, dopo aver
saputo che eravamo italiani, il capo ci informò di aver conseguito la
specializzazione in Italia, in una città marchigiana. Però, apparentemente, non
parlava italiano, tantomeno inglese!
Era comunque già al corrente del nostro prolungato
soggiorno e dei due mesi di spostamenti nell’area a ovest/sud-ovest di
Canakkale, corrispondente all’antica Troade omerica.
Innanzitutto, ci chiese se cercavamo qualcosa in
particolare.
Coadiuvato dall’interprete, gli feci sapere che la mia ricerca
consisteva nel rintracciare i nomi greci omerici di città, luoghi, fiumi,
colline, montagne, templi e altre caratteristiche topografiche. E che lo dovevo
fare attraverso i nomi turchi, dato che coloro che avrebbero potuto facilitare
il mio lavoro, gli emigrati greci, erano stati espulsi dal Paese nel 1923.
Lo informai che avevamo programmato tre mesi di
esplorazione dell’intera zona, un’area del diametro di circa dieci chilometri,
e che proprio in quell’area così ristretta avevamo usato come mezzo di
trasporto sia l’autocaravan sia le gambe, percorrendo, nei primi due mesi,
circa settecento chilometri per strada e duecento a piedi in luoghi
inaccessibili a veicoli.
Non gli nascosi il fatto che i contadini locali, convinti
che cercassimo reperti archeologici, si presentavano dovunque ci trovassimo –
in mezzo ai campi, in viottoli e strade sterrate fuori mano – esibendo
vasellame, pezzi di capitelli di templi, perfino monete romane: probabilmente
per venderceli.
Alla domanda se avessimo scattato delle fotografie, gli
risposi senza esitazione che ne avevamo fatte molte.
“Potrei vedere i rullini?” domandò.
“Certamente” replicai. Chiesi quindi il permesso di
andarli a prendere nell’autocaravan e ritornai poco dopo con cinque rullini.
“Posso chiederle che cosa ha fotografato?”
“Alcuni sono scatti degli scavi di Troia, altri della
piana di Troia, di rovine di antiche città qui intorno... Ignoravo che ce ne
fossero altre dieci in un raggio relativamente limitato... rovine greche...
romane... alcune di queste costruite sopra insediamenti del tempo della guerra
di Troia. Estremamente interessante... ” parlavo lentamente, pausando ogni due
frasi per facilitare il compito dell’interprete.
“Ho fotografato colonne, capitelli, statue e sarcofagi
che si trovano da duemila anni nei luoghi originali, alcuni a pochi metri dalla
strada asfaltata! Tutti li possono osservare, senza nemmeno arrestare la marcia
del loro veicolo. Ho fotografato il basamento di quello che ritengo fosse il
tempio della Sibilla nel suolo rosso di Marpesso, dopo averne rintracciato il
corso d’acqua, oramai secco, che lambiva il tempio. Risalii in autocaravan la
strada sterrata che conduce sulle colline orientali, per identificare quello
che credo fosse il monte sacro degli Dei, l’Ida... Interessante decifrare
l’origine di quel nome... Credo di aver anche capito cosa intende Omero quando
scrive che le mura di cinta di Ilio (Troia) furono costruite dai Troiani con
l’aiuto di Poseidone, il dio del mare. Ho fotografato quelle mura... Questo,
per darle un’idea. È un lavoro da dilettante che mi riempie, però, di orgoglio
e soddisfazione… ”
Feci una pausa più lunga del solito.
“Percepisco il suo entusiasmo e me ne rallegro.” Poi,
mentre pronunciava le seguenti parole, che l’interprete tradusse subito, mi
rivolse uno sguardo fisso, come a voler soppesare la mia reazione. “Non avrebbe
niente in contrario se sviluppassimo i rullini?” chiese, in tono retorico.
“Affatto” risposi. “A una condizione, però... Che
paghiate voi lo sviluppo.”
Il capo della polizia mi lanciò un’occhiata
interrogativa.
“Vede, come lei ben sa, lo sviluppo delle fotografie qui
in Turchia non è... non è equivalente a quello in Europa. C’è da aspettarsi,
pertanto, che alcune di queste foto non siano... come dire... non siano
all’altezza di quello che io avevo programmato. Se proprio vuole vedere cosa
contengono, io non mi oppongo... Ma almeno, perderle per perderle, non ne avrò
pagato i costi.”
Ero curioso di sentire quale decisione avrebbe preso,
perché non era difficile indovinare che le disponibilità finanziarie della
polizia turca non contemplavano spese supplementari di questo tipo. D’altro
canto, io non avevo niente da temere.
Forse il gran capo rifletté che avrebbe fatto un buco
nell’acqua, perché disse infine:
“D’accordo” e mi restituì i rullini, che io misi in
tasca.
Poi venne all’attacco sul punto che gli stava più a
cuore. Dopo molte circonlocuzioni, condite con molta cautela, mi chiese se l’ex
sovrintendente del museo mi aveva offerto pezzi archeologici. Quando gli
risposi di no, assolutamente no, mi
sembrò di cogliere sul suo viso una fuggevole ombra di sollievo. Aggiunsi che
mi aveva aiutato con fotocopie di uno studio geologico sulla piana di Troia,
ben sapendo che non gliene importava un bel nulla. Tuttavia, questo particolare
avrebbe indirettamente confermato i miei veri interessi e scagionato
ulteriormente il nostro amico da sospetti.
Dopo una serie interminabile di domande – tutte poste, a
onor del vero, in un modo corretto e civile – me ne fece una, verso le tre del
pomeriggio, che mi fece pensare “cribbio,
credevo fosse tutto finito e invece siamo solo all’inizio!” La domanda
retorica fu:
“Le dispiace se diamo un’occhiata nell’autocaravan?”
“Affatto!” esclamai, quando dopo sette ore in quella
stanza, nonostante non avessi bevuto (né ovviamente mangiato), cominciavo a
sentire un urgente bisogno di urinare.
Dopo aver sceso le due rampe di scale interne,
accompagnati da due poliziotti, sostai brevemente vicino alla porta d’entrata,
prima della scalinata esterna, e rivolsi lo sguardo a Patrizia. Immaginando che
anche lei avesse la mia stessa urgenza, le sussurrai:
“Non possiamo permetterci di andare in bagno sul più
bello. Dobbiamo tenerli d’occhio in due. Sarebbe un disastro se infilassero
qualcosa nell’autocaravan. Sai che cosa intendo... ”
E così fu. Mentre uno dei poliziotti frugava nella cabina
di guida, io lo controllavo. Patrizia non staccava l’occhio dalle mani
dell’altro, che frugava nel vano cucina e nel bagno. Dopo una perquisizione
troppo breve e superficiale per potersi definire professionale, chiusi a chiave
un’altra volta il veicolo e ci avviammo di nuovo nella stanza di sopra, dove il
gran capo ci ricevette con un sorriso. Forse lui, in bagno, c’era andato.
Parlottò brevemente con i suoi subalterni. Poi, da
qualche parte, uscì un verbale in turco, scritto a mano, che l’interprete mi
pose davanti perché lo firmassi. Diedi un’occhiata a Patrizia, che avendo già
indovinato che cosa avrei risposto, scosse impercettibilmente il capo e
arricciò le labbra.
“Scusate, non si tratta di mancanza di fiducia... ma io,
per principio.... non firmo un verbale in una lingua che non conosco.”
L’interprete tradusse, stavolta con un certo imbarazzo.
Il gran capo, anche lui colto da un improvviso disagio, non sapeva che pesci
pigliare.
“Siccome io firmerò soltanto un verbale che capisco, non
ci resta altro da fare che tradurlo in inglese” osservai, prendendo atto che si
trattava soltanto di una pagina. Ma per loro doveva essere l’equivalente della
Divina Commedia.
“Va bene” disse, infine, il gran capo.
L’interprete cominciò a tradurre la prima frase in
inglese, in modo traballante, a voler essere indulgenti. La corressi oralmente
in alcuni punti e lui cominciò a sprizzare gioia da tutti i pori: era evidente
che non era abituato a un compito così impegnativo e si accorgeva con piacere
che poteva contare sul mio aiuto. Scrisse la prima frase. Arrivati alla
seconda, tradusse due parole poi mi guardò per l’imbeccata. Alla fine mi passò
il foglio affinché scrivessi io, dopo che lui mi aveva dato l’idea del
contenuto. Modificai alcuni punti che non erano chiari concettualmente, e lui
continuò per tutto il tempo ad accompagnare la mia traduzione con molti
“ottimo”, “molto bene” e un sorriso tanto soddisfatto da risultare comico.
Dopo tre quarti d’ora, avevamo la minuta.
“La scriviamo a macchina?” domandai.
Ci fu un momento di imbarazzo generale. Ma quello più in
difficoltà era il capo. Si guardarono l’un l’altro, indecisi. Che non avessero
una macchina da scrivere?
“Non abbiamo una macchina da scrivere” dichiarò
l’interprete. Non capii se stesse traducendo le parole del capo o se l’avesse
detto di sua iniziativa.
“Non si preoccupi, ne ho una portatile dentro
l’autocaravan. La batterò io per voi, non ci vorrà molto.”
Stavolta percepii una vena di umiliazione nei loro volti.
Ma che cosa potevano fare di fronte a una tale combinazione di gentilezza e
disponibilità?
Andai a prendere la macchina da scrivere, evitando la
tentazione di aprire la porta del bagno, per solidarietà con Patrizia, che mi
aspettava di sopra.
Quando ebbi finito con il verbale, lo rilessi
all’interprete e poi lo firmai. Adesso sorridevano tutti.
Prima di andarcene, chiesi al gran capo:
“La mia ricerca non è terminata. Abbiamo il suo permesso
di muoverci liberamente sul campo come prima, senza problemi?”
“Certo, avete il mio permesso.”
“Grazie per la comprensione” dissi, “per me è molto
importante.”
Forse esagerai un po’ quando aggiunsi, sempre però con
rispetto e gentilezza:
“Un’ultima cosa. Una volta arrivati in Italia, vorrei
inviarle una cartolina. Non sono le Marche, ma il posto è ugualmente bello. A
che indirizzo la invio?”
Esitò un istante. Non doveva essergli sfuggito che volevo
sapere le sue generalità. Poi, con un certo disagio scrisse un indirizzo. Mi
accorsi in seguito che non era l’indirizzo di casa, come avevo pensato, ma
della centrale di polizia. Però qualcosa avevo ottenuto: il suo nome e cognome.
Non era poco!
Scendemmo in fretta le scale e aprii la porta laterale
dell’autocaravan ancora più in fretta.
“Prima tu, ma sbrigati” esortai Patrizia, spingendola nel
bagno. Poi fu il mio turno. Credo di interpretare bene anche il pensiero di
Patrizia affermando che fu la pisciata più liberante e meritata che ricordo.
Dopo più di otto ore e... un pizzico di stress!
Nessun commento:
Posta un commento