L’immaginazione
popolare ha trasformato in sirena il lamantino, simpatico e timidissimo mammifero, il
cui habitat si estende dai tropici al Mediterraneo. A parte la stazza, più simile
a quella di una mucca che a quella di una sirena, sia la coda, sia il
caratteristico verso molto simile ad un lamento (ricordiamo i lamenti
ammaliatori ascoltati da Ulisse e il suo equipaggio durante la traversata dello
Stretto di Messina) sia un’opportuna sostituzione del muso da mastino con un
viso di donna, hanno contribuito a formare la familiare immagine che tutti
conosciamo. La storia che segue è ambientata
nell’ancoraggio di Placencia, Belize.
A proposito di ospiti graditi, Placencia, Belize
L’alba di un
mattino di Natale di qualche anno fa ci
trovò ancorati a Placencia, un villaggio nel sud del Belize.
Per essere più
precisi, dovrei piuttosto dire che non mi risulta che questa particolare alba
del 25 di dicembre, né, per quanto ne so, nessun’altra, fosse dotata della
capacità, ancor meno dell’abilità di trovare
qualcosa o qualcuno. In realtà, eravamo noi a
trovarci ancorati esattamente nello stesso punto del giorno prima, all’alba
di un giorno di Natale di qualche anno fa.
Situata sulla punta meridionale di una lunga e
stretta penisola sabbiosa, da una parte circondata dal mare dei Caraibi e
dall’altra da una estesa laguna di acqua salata – i cui grovigli di mangrovie,
pozze d’acqua, paludi e letti d’alghe ospitano lamantini, delfini, razze e
numerose specie di uccelli – Placencia, all’epoca a cui mi riferisco, era un
sonnolento villaggio con le tipiche case di legno beliziane dai forti colori,
costruite su palafitte. Il turismo era piuttosto scarso.
Dopo che l’uragano
Iris rase al suolo il novantacinque percento dei suoi edifici nel 2001, uno
spettacolo molto triste che contemplammo un paio di mesi dopo il disastro e di
cui avremmo anche potuto fare a meno, Placencia fu ricostruita in fretta,
perdendo però per sempre l’originale insostituibile sapore caraibico.
Tra le scarse vestigia dell’epoca precedente
all’uragano, c’è una delle strade più strette al mondo, poco più di un metro di
larghezza, che si è salvata in parte dalla distruzione delle acque e che,
ristrutturata e ampliata di un paio di centimetri, taglia a metà la zona dei
nuovi edifici in cemento armato, hotel e resort che hanno sostituito le
distrutte abitazioni locali.
Una tappa obbligata per i velisti che provengono
dal Guatemala, o dal nord del Belize, Placencia ha un bell’ancoraggio situato
tra la sua sabbiosa lingua orientale e un’isola di mangrovie, protetta da tutti
i venti a eccezione di quelli meridionali. Tuttavia, il più delle volte, le
onde che girano intorno all’isola rendono l’ancoraggio piuttosto movimentato e
scomodo. Vanta le uniche spiagge naturali del Belize, bianche, di
buon’ampiezza, che si estendono per diversi chilometri e sono abbondantemente
ombreggiate da palme altissime e dall’aspetto florido.
Placencia è un’ottima base per escursioni in
kayak, snorkeling e immersioni intorno alle isole vicine, pesca in mare con la
mosca e spedizioni di avvistamento degli squali-balena durante le lune piene
tra aprile e luglio di ogni anno.
Agli ospiti che stavamo aspettando dall’Italia,
però, non interessava nessuna di queste attrazioni: il socio di mio
cognato e la sua ex moglie volevano fare l’esperienza di un paio di settimane
di navigazione a vela nelle acque del Belize per avere un’idea diretta della
vita di barca.
Fin dal mattino, l’acqua nell’ancoraggio era
eccezionalmente limpida: ciò era probabilmente dovuto al fatto che, nei giorni
precedenti al nostro arrivo, non erano soffiati venti dal sud e gli alisei nord
occidentali l’avevano mantenuta chiara. Nell’ancoraggio di Placencia l’acqua
non è mai torbida, ma la visibilità è spesso limitata a soli cinque-sei piedi.
Quel giorno, però, notai subito che superava abbondantemente i sei piedi della
nostra chiglia e mi rallegrai al pensiero che i nostri ospiti avrebbero
incominciato la loro avventura in condizioni ottimali.
Dovevamo prelevarli alla piccola pista di
atterraggio di Placencia prima di mezzogiorno. Mancava ancora molto. Nel
frattempo, scendemmo a terra con il dinghy per fare gli ultimi
approvvigionamenti per il viaggio e per riempire di ghiaccio i due frigoriferi
portatili nella fabbrica di ghiaccio sulla spiaggia, adiacente alla cooperativa
delle aragoste. Quando ritornammo in barca ci sedemmo fuori nel pozzetto, come
facciamo di solito dopo aver terminato le incombenze del mattino.
“Guarda laggiù! C’è
un lamantino qualche metro dietro al dinghy. Spettacolare!” esclamò Patrizia,
con una certa sorpresa nella voce. Guardai in quella direzione, aspettandomi di
vedere il solito testone sopra la superficie. Invece, circa dieci piedi (tre
metri) sotto il pelo dell’acqua, era visibile il corpo intero del mammifero,
fermo, a “mezz’acqua”.
Era una visione
tanto stupenda quanto rara, perché questo simpatico, timidissimo mammifero vive
di solito in acque che non lasciano mai scorgere tutto il corpo.
Non mi accorsi
che si fosse mosso, ma a un certo punto notai che si trovava più vicino al dinghy,
che avevamo legato, come sempre, a una galloccia di poppa.
Quando risaliva
in superficie, si muoveva lentamente – si potrebbe dire al rallentatore – con il muso di un mastino gigante e le grosse
narici ben visibili fuori dall’acqua. Anche lui, come noi, sembrava trattenere
il respiro, perché quando metteva fuori il testone non si udiva il normale,
caratteristico rumore di sfiato, simile a quello dei delfini, anche se più
sommesso. Era promettente il fatto che indugiasse sulla superficie ogni volta più
a lungo della precedente.
Ripeté più volte
il suo esercizio yoga, a distanza di minuti, mantenendosi infine appena sotto
il pelo dell’acqua, da dove gli era meno dispendioso riemergere per respirare.
Mi misi a osservarlo, affascinato.
Il colore castano predominante della sua
spessa pelle, interrotto in vaste
aree dal beige delle incrostazioni di
cirripedi, era temperato dal velo trasparente dell’acqua verde-azzurro in
primo piano, mentre nella curvatura del suo possente dorso appariva e
scompariva un’imprevedibile artistica ragnatela luminosa, che si contorceva, si
spezzava e si ricomponeva, diminuendo o aumentando lo spessore dei suoi
guizzanti filamenti di luce. Una grande coda
di sirena completava il quadro.
Un lieve disorientamento mi fece pensare, per un
istante, all’eventualità che il tempo
si fosse fermato. Forse però, questo non aveva niente a
che vedere con il tempo, semmai con la nozione del tempo. O con il fatto che il
lamantino galleggiasse completamente immobile.
Era uno
spettacolo troppo bello perché rimanessi con le mani in mano: “Patrizia, scendo
nel dinghy, se sono fortunato riuscirò a fargli una foto da vicino” le
sussurrai.
Presi la piccola
macchina usa e getta che avevamo comprato quel mattino e, con movimenti lenti e
badando a non far rumore, mi mossi verso poppa. Adesso, dall’alto della mastra
di poppa, riuscivo a contemplare il mammifero come da un aereo a bassa quota.
Che bestione! Mentre tiravo la corda del dinghy verso di me, pensavo che
sarebbe stata una questione di secondi e poi si sarebbe dileguato. Invece, non
fu affatto così. Con mia grande sorpresa si avvicinò ancora di più alla poppa
del dinghy, nel quale ero nel frattempo entrato, col fiato sospeso. Mi sporsi
dal tubo laterale e immersi una mano nell’acqua, cercando di farlo avvicinare
con parole suadenti pronunciate in un tono di voce appena percettibile:
“Avvicinati,
fatti accarezzare” gli dicevo in italiano, avvalendomi della preziosa
conoscenza che questi animali sono poliglotti. Il mammifero si avvicinò: che
avesse capito? Mi spostai con cautela nella parte posteriore del dinghy, mi
sdraiai sul tubo, con il corpo disteso, la mano destra nell’acqua, appena sotto
la superficie.
Immerse il
testone: riuscivo a vederlo ancora perfettamente, nonostante avessi gli occhi rasenti
al pelo dell’acqua. Quando riemerse, ebbi l’impressione che non avesse particolare
timore. Quanto era vicino, adesso! Certo,
molto oltre le mie più rosee aspettative.
Allungai la mano
sotto il dinghy e ne strappai dal fondo un’alga, nella speranza di farlo
avvicinare di più. L’animale si trovava, adesso, con il muso tra il motore e la
parte terminale del tubo: a non più di quarantacinque centimetri dalla mia
mano! Non riuscivo a crederci! Avrei voluto gridare; invece allungai il braccio
all’indietro, mantenendomi sdraiato nella stessa posizione, per cercare a
tentoni la macchina fotografica sul fondo del dinghy. Dovevo continuare a
guardare in avanti, verso di lui, ma sapevo che alle mie spalle Patrizia si
godeva in silenzio tutto lo spettacolo. Alla fine trovai la macchina e, con
estrema cautela, scattai un paio di fotografie. Non si mosse nemmeno allora.
La speranza di poterlo accarezzare aumentava.
Rimisi la mano nell’acqua, strappando un’alga fresca. Sorridevo tra me e me al
pensiero che l’aver trascurato di pulire il fondo del dinghy per un tempo
superiore al dovuto mi stava, forse, procurando l’esperienza che si ha una
volta sola nella vita: a patto di essere davvero fortunati. Non era da
escludere che il lamantino fosse attratto proprio dalle alghe che erano
cresciute sotto il dinghy, perché è completamente erbivoro. Ma c’era un
particolare che mi fece sorridere ancora di più. Fu il ricordo di una frase di
un certo Alberto, meglio conosciuto col nome di Einstein: «Follia è fare sempre
la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi.» Pulitori metodici di fondi di
dinghy, prendetene atto! Per conto mio, di tanto in tanto, continuerò a
dimenticare di pulire il fondo del mio dinghy.
Insomma, ogni
tanto bisognerebbe rompere gli schemi, per sentirsi vivi, perché accada
l’imprevedibile: quell’imprevedibile che aggiunge sempre sapore alla vita.
“Non aver paura.
Avvicinati. Non voglio farti del male. Ti voglio accarezzare, provare la
sensazione della tua pelle” dicevo a quella meraviglia della natura. Ci fu un
momento in cui le nostre teste erano molto vicine. Patrizia, dal pozzetto, mi
sussurrò parole che non capii. Dal tono, sembrava affascinata.
Ma sul più
bello, proprio un attimo prima che allungassi la mano verso il mammifero, lui si
mosse nella direzione opposta. Ce l’aveva messa tutta. Avvicinarsi di più,
proprio non poteva. Io, però, non ero deluso. Se non contento come una Pasqua,
lo ero almeno come un Natale! Un Natale memorabile. Mi sentivo davvero bene!
“Quindici
minuti! È rimasto vicino al dinghy una quindicina di minuti, da quando sei
sceso” mi disse una euforica Patrizia, subito dopo che il lamantino si fu
allontanato con un tuffo nel profondo. Non lo scorgemmo più riemergere.
“Sai perché non sei riuscito ad accarezzarlo?”
domandò Patrizia quando salii a bordo.
“Perché? Pensi che abbia commesso qualche
errore?”
“Errori? Anzi! Solo che non abbiamo calcolato la
possibilità che non fosse una femmina!”
“Hai ragione, non ci avevo pensato. Adesso sì che
posso tirare un sospiro di sollievo! Posso ancora illudermi che, se fosse stata
una femmina, si sarebbe fatta toccare. Ma allora abbiamo sbagliato tutto! È
chiaro che dovevi scendere tu nel dinghy, da te il bel maschione si sarebbe
fatto baciare di sicuro, almeno sul naso!”
Dovevamo, adesso, prepararci per una nuova
esperienza che sarebbe cominciata poco dopo nella pista di atterraggio locale
con il benvenuto ai nostri altri ospiti, i quali, a causa di un fortuito errore
di programmazione del loro viaggio, per il rotto della cuffia si erano persi
l’esperienza di una vita. Meno male che Patrizia e Fabrizio erano più che
disposti a raccontargliela!
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