LE RONDINI, RIO DULCE, GUATEMALA
Viviamo
in un’epoca senza precedenti: il progresso della tecnologia ci consente
oggi di esplorare aspetti del mondo interiore degli animali che
sarebbero stati impensabili soltanto pochi anni fa. E cosí
apprendiamo non
solo quello che sapevamo già
e cioè che gli animali hanno sentimenti e umori mutevoli proprio come l’uomo,
ma che riescono a comunicare tra loro con un linguaggio a volte co
sí
complesso da farci restare a bocca aperta. Nel corso di anni di stretto
contatto con la natura, ci sono capitate cose singolari, a volte
incredibili, e non solo con i nostri animali. La storia seguente “Le
rondini”, ambientata nel Rio Dulce, vi trasporterà
non solo nel nostro mondo di barca ma, ancora più
importante, dentro il cervello ed il cuore di questi straordinari volatili.
Dopo essere entrati dal mare aperto nell’ampio
estuario del fiume Rio Dulce e averne risalito il canyon, con le sue due miglia
(circa tre chilometri) di spettacolari pareti rocciose a strapiombo, una fitta vegetazione
tropicale e una discreta popolazione di aironi bianchi e grigi, stavamo adesso
navigando a vela oltre i gazebo sulla punta dei moli e sparse case rustiche dai
tipici tetti ricoperti dalle fronde secche della manaca, una varietà di palma
locale. Bambine e bambini giocavano nudi nell’acqua poco profonda davanti alle
loro case o si rincorrevano intorno ai kayak di legno,
tirati a secco sulla
riva. Al nostro passaggio, si fermavano fino a vederci allontanare, salutandoci
con cenni della mano. Galline, maiali, tacchini e altri animali domestici,
correvano liberamente sul fango solidificato intorno alle basse costruzioni,
principalmente costruite su palafitte nella palude adiacente al fiume.
Di tanto in tanto, nei più bei terreni
sopraelevati, attraverso una vegetazione mista di palme, mandorli, manghi e
siepi di fiori, si intravvedevano le eleganti facciate in legno verniciato
delle case di gente benestante, o si stagliavano nette sopra verdi monticelli
d’erba ben rasata lussuose case a più piani, le cui scalinate scendevano al
fiume e terminavano tra suggestivi muretti di contenimento costruiti con
bianche pietre irregolari. Questi muretti hanno la funzione di proteggere le
proprietà dalla corrosione dilagante degli ultimi decenni, principalmente dovuta
alle grandi onde sollevate dagli yacht di passaggio.
Lasciandoci sulla destra
le fonti solforose, rasentammo sulla
sinistra una piccola baia coperta di ninfee galleggianti verde bottiglia, a
forma di teglia, disseminate di carnosi fiori bianchi e lilla, ed entrammo nel lago, il Golfete.
Quest’ampio specchio
d’acqua lungo otto miglia e largo tre (circa tredici chilometri per cinque),
che divide la parte superiore dalla parte inferiore del fiume, è quasi
interamente circondato da verdi colline. Mentre le rive lontane scivolavano
impercettibilmente nella direzione opposta, scorsi una piccola radura che,
sotto l’intensa luce tropicale, splendeva di un verde più chiaro dei boschi
circostanti.
Più a sud comparvero
intere colline disboscate. Forse l’opera di un vorace predatore che ignorava le
leggi di protezione delle aree fluviali? Purtroppo era così. Il predatore si
poteva identificare con il discendente della nobile civiltà maya, una cultura
che, nonostante le grandi conquiste astronomiche, non aveva mai inventato
l’aratro. Di conseguenza, il suolo, dopo una sola semina, diventa sterile e non
è più in grado di ricevere i semi del granoturco, l’alimento basilare da queste
parti, perché privo dei nutrienti e della quantità di lombrichi necessari alla
fertilità di qualsiasi suolo. L’ingegnosità dell’uomo non è qui riuscita ad
andare oltre l’usanza ancestrale di bruciare un pezzo di terra dopo l’altro,
per poter seminare il granturco: sempre più lontano dai villaggi. Pertanto, in
pochi anni, intere colline vengono spogliate di alberi per preparare il suolo
per la semina, consentendo alle piogge di tramutarsi in alluvioni devastatrici.
Come sapevamo oramai per esperienza, era proprio
in quel punto, a metà del lago, che arrivava la prima rondine, subito seguita
da altre che, con voli radenti, picchiate e pigolii eccitati, si metteva a
volare intorno alla barca che procedeva sotto la spinta della brezza.
Questi simpatici uccellini arrivavano da lontano,
dalle rive del lago, e dopo essere atterrati acrobaticamente sui cavi
orizzontali vicino alla prua, si disponevano in fila come soldatini in uniforme
bianca e nera. Mantenendosi in piedi contro i sussulti della barca e le folate
di vento che di tanto in tanto gli arruffavano le piume, non mostravano alcun
timore dei cani, che del resto li ignoravano, dando l’impressione di godersi
tranquillamente il passaggio, per molti chilometri, fino a destinazione.
Durante l’ancoraggio a
vela e le susseguenti manovre in una baia protetta adiacente al villaggio di
Rio Dulce, costellata da numerosi Marina e in piena vista dello spettacolare
ponte a una campata sopra il fiume, si ripeteva il gioco consueto: si
allontanavano, sfrecciavano verso terra, a non più di duecento metri di
distanza e si perdevano per un po’ nel fogliame degli alberi, ma prima o poi
ritornavano ad atterrare con strilli festosi sulla corda d’ancora e sulle
draglie, incuranti dei cani, i quali continuavano a ignorarle.
Eravamo ancorati da
qualche giorno, quando notai un insolito andirivieni. La mia attenzione fu
attratta da due rondini, particolarmente attive, che arrivavano trasportando
qualcosa nel becco.
Approfittando della loro assenza, andai in prua
per controllare se c’erano novità. E là vidi proprio quello che mi aspettavo di
vedere: degli stecchetti dentro il
tamburo dell’avvolgifiocco, non troppo
ordinati, ma sparsi, apparentemente a casaccio. Mi domandavo se avessero scelto
questo posto molto particolare per costruire il loro nido, e sperai che fosse
proprio così. In tal caso non ci sarebbe stato nessun problema: infatti avevamo
programmato di restare ancorati nella stessa insenatura abbastanza a lungo e
pertanto l’avvolgifiocco, cioè il tamburo, sarebbe rimasto immobile, assolvendo
così, per un po’, la sua nuova funzione di ospitare l’eventuale nido.
Da quel momento in poi prestammo più attenzione,
anche dal pozzetto. Non c’era alcun dubbio: stavano cercando di costruire la
loro casetta per passarci la luna di miele. Cominciò così l’aspettativa
gratificante di una nuova esperienza da osservare da vicino.
Dopo un paio di giorni in cui avevano lavorato
con impegno, ritornai a controllare sul posto come procedevano i lavori. Le
rondini avevano portato altri stecchi e anche alcune foglie secche, ma, per
qualche ragione, il loro lavoro non dava i frutti che mi sarei aspettato. Poi
ne compresi il perché: la barca all’ancora, sospinta dal vento, si spostava ora
su un lato, ora sull’altro, durante quel tipico movimento denominato
tecnicamente “navigare all’ancora” (sailing
at anchor) esponendo al vento l’apertura del tamburo. In tal modo, il vento
distruggeva implacabilmente il lavoro che le rondini avevano fatto nella
bonaccia del primo mattino. Inoltre, il tempo che impiegavano a terra per
cercare i rametti adatti era troppo lungo e loro non riuscivano a compensare il
numero di stecchi che il vento faceva volare via. Di questi alcuni cadevano sul
ponte, ma la maggior parte nell’acqua.
Dovevo escogitare una strategia per aiutarle? Il
pensiero era allettante e mi faceva sentir bene. Prima però dovevo determinare
che genere di stecchi, erba e foglie utilizzavano. Patrizia venne in prua per
aiutarmi a capire se la loro scelta seguiva uno schema preordinato. Alcuni
stecchi erano lunghi, altri corti, alcuni spessi e altri sottili e l’erba
secca; se c’era un qualche criterio di scelta, come sembrerebbe intuitivo,
purtroppo non riuscimmo a determinarlo.
Approfittammo del momento in cui portammo a terra
i cani, in un vicino boschetto, per raccogliere rametti e stecchi di tutte le
dimensioni e forme, delle pagliuzze, dell’erba secca e qualche foglia.
Al ritorno a bordo, sistemai tutto sul ponte,
sotto il tamburo avvolgifiocco. Naturalmente c’era sempre il rischio che il
vento avesse spazzato via una buona parte dei rametti e soprattutto le foglie
secche.
Vidi con piacere che le rondini si adattarono
alla nuova situazione e si misero subito al lavoro con impegno, utilizzando
parte di quel materiale “edilizio”.
Un particolare mi sorprese: che non lasciassero
sul ponte un solo escremento. Per ovviare a questo inconveniente, alcuni proprietari
di barche ormeggiate ai moli dei Marina circostanti usavano dei CD appesi a
corde, affinché impedissero, con le loro oscillazioni e gli imprevedibili
riflessi, l’avvicinarsi degli uccelli.
Nel frattempo rimasi solo per un mese, perché
Patrizia era andata in Italia per far visita alla famiglia. Ci tenevamo
comunque in contatto e ci potevamo non solo parlare, ma anche vedere, un paio
di volte al giorno grazie a Skype. Che sensazione di benessere mi dava il lusso
di potermi collegare a Internet da una barca ancorata lontano da un Marina! Tra
le altre cose, la tenevo anche informata sul progresso delle rondini.
“Male!” risposi un giorno alla sua domanda: “Come
procede la costruzione del nido?”
“Sembra che non riescano a costruirlo. Forse il
pavimento interno del tamburo è troppo liscio, il che significa scivoloso. E,
ciò che è peggio, è inclinato verso l’apertura. Se poi aggiungiamo il vento,
che in questi giorni soffia costantemente a venti nodi quasi tutto il
pomeriggio, il loro compito non ne risulta certo facilitato. Hanno lavorato
sodo, ma con pochi risultati pratici. Soffro per loro!”
Nei giorni successivi, il movimento intorno
all’avvolgifiocco sembrò scemare a poco a poco, per poi cessare del tutto. Era
un brutto segno. Probabilmente avevano rinunciato, anche se c’era sempre una
mezza dozzina di rondini posate sulle draglie di prua.
Una mattina, mentre facevo colazione nel
pozzetto, mi voltai verso l’esterno per gettare nell’acqua alcune bucce di
papaya. Mentre osservavo il solito sciame di pesci lottare per i bocconi più
succulenti, con la coda dell’occhio notai uno stecchetto, oltre la mastra,
appena al di là del pozzetto. Strano, avrei giurato che la sera prima non ci
fosse; non ci diedi troppa importanza e me ne dimenticai, per quel giorno.
Il mattino seguente, vidi
dei rametti nello stesso posto, sul pavimento del ponte al di là della mastra
del pozzetto. Che le avessero portate le rondini? No, di sicuro stavo sognando! Che idea folle! Dopotutto, però, dovevo
esserne sicuro. Così, rimossi tutti gli stecchi dalla parte anteriore della
barca.
Gli stecchi continuavano ad arrivare un mattino
dopo l’altro! Probabilmente li “consegnavano” nel periodo di calma, appena dopo
l’alba. In meno di una settimana avevano portato, DA TERRA, un considerevole numero
di stecchi, che, se non era uguale a quello che avevo procurato loro, era
almeno la metà.
Ma perché, se non ne avevano più bisogno per
costruire il nido? C’era soltanto una spiegazione possibile, per quanto
incredibile: escludendo il fatto che mi invitassero a costruire il nido in loro
vece, le rondini stavano restituendomi il regalo che avevano ricevuto!
L’ondata di emozione mi colse di sorpresa. Per un
attimo cercai di frenare le lacrime, poi, lasciai che mi velassero gli occhi
e scorressero liberamente giù per le guance.
Il giorno dopo l’arrivo di Patrizia dall’Italia, ce ne
stavamo tranquillamente godendo la colazione nel pozzetto, come facevamo
sempre, seduti l’uno di fronte all’altra davanti al tavolinetto, quando,
all’improvviso, nel silenzio, un violento batter d’ali, insolitamente vicino,
ci fece trasalire. Che diavolo succ... Un attimo dopo, vidi una rondine in
picchiata verso le spalle di Patrizia e la udii emettere una serie di brevi
strilli acutissimi. Sembrava impazzita di gioia. Fece un paio di rapidissime
acrobazie sfiorandole i capelli, poi scomparve per sempre. Difficile credere a
una coincidenza. Che fosse un saluto di ben
tornata?
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