Storia # 5 Come un fiore nel deserto, - Bombay, India
Ecco la seconda storia, tratta
sempre dal mio libro "Il nostro canto libero". Come si era detto nel
primo racconto, pubblicherò tre storie (delle
trentadue che compongono il libro) per accompagnare il lettore nella conoscenza
dei miei scritti e della mia visione del mondo. Spero vi piaccia e vi inviti a
volerne leggere altre.
Ogni volta che mi capita sotto gli occhi la fotografia di una ragazzina indiana come questa, paffutella e sorridente, per contrasto, si affaccia alla memoria l’immagine inquietante di un’altra bambina, alla quale il sorriso era stato cancellato dagli occhi: una “sepolta viva” dentro la sabbia di Juhu, la bellissima spiaggia di Bombay.
Storia # 5 Come un fiore nel deserto, - Bombay, India
Vi
siete mai sentiti soli in mezzo alla folla, senza speranza di fronte a
un problema insoluto, il terreno che vi cede sotto i piedi, una stretta
allo stomaco che vi squarcia dentro e il cervello in totale confusione?
Ebbene, io sì. Feci questa esperienza nella stessa spiaggia di Bombay, Juhu, descritta sopra (nella storia #4).
A
una cinquantina di metri da dove il giorno prima la sabbia era stata
trasformata in raffinate sculture, erano state posate delle cassette
rovesciate. Su questi improvvisati tavolini, erano stati sistemati dei
premi e del denaro. Un cestino sulla sabbia, invece, conteneva dei
cerchietti di legno. Numerose persone ronzavano come api intorno a un
alveare, disposte a noleggiare i cerchietti per tentare la sorte. Si
vinceva il premio che si riusciva a centrare con un cerchietto lanciato
da un paio di metri di distanza: uno specchietto, un sapone, un pettine,
una banconota da dieci rupie e altre cose di scarso valore, ciascuna
sistemata sopra un basamento di legno di dimensione diversa.
L’organizzatore del gioco, di tanto in tanto, per rassicurare i clienti
che non c’erano trucchi, metteva un cerchietto intorno a ciascun premio,
mostrando che lo stesso era più grande del basamento dell’oggetto da
vincere.
Poco
più lontano, la manina e l’avambraccio di un bambino, emergendo in
verticale dalla sabbia, avvertivano i passanti che una sfortunata
creatura era stata sepolta viva. La mano era immobile. Fissai lo sguardo
in quella direzione alla ricerca di impercettibili vibrazioni. Quando
socchiusi gli occhi, in quel braccio scarno e stretto dalla morsa della
sabbia, vidi l’immagine di uno stelo malato che reggeva un piccolo fiore
accartocciato su se stesso. I suoi cinque petali sembravano presentire un destino di morte.
Avvicinandomi,
notai un fazzoletto coperto da un sottile strato di sabbia bagnata
sulla bocca della vittima, sistemato probabilmente per consentire un
minimo di respirazione. Poco lontano, spiccava un cartello enorme con
molte righe scritte nella lingua locale.
Dietro
mia sollecitazione, uno dei presenti ci spiegò che si trattava di una
richiesta di elemosine per sostenere una famiglia numerosa, alcuni
membri della quale erano malati. Provai una sensazione familiare di
pietà, che trapassò ben presto in repulsione.
Ricordo di aver pensato: Che
ironia, per tirar fuori dalla miseria e dalla malattia alcuni membri
della famiglia, qualcuno ha avuto la brillante idea di mettere un altro
membro della stessa famiglia nella condizione ideale per ammalarsi. Che
triste logica!
Ma, a volte, il coraggio della disperazione esistenziale arriva al di là di ogni logica...
Nessuno
dei presenti sembrava preoccuparsi della sorte di quella creaturina
sepolta viva. Chi si trovava là sotto? Era come se non esistesse. Che si
abusasse a tal punto di un bambino, costringendolo a rimanere in quella
posizione supina per molte ore al giorno, immobile, al buio, senza cibo
né acqua, benché difficile a credersi, doveva essere una cosa “normale”
in India, uno di quei condizionamenti culturali che passavano
inosservati.
Fu
allora che pensai che avrei potuto tentare qualcosa. Ne sarebbe valsa
la pena anche se fossi riuscito soltanto ad alleviare per un po’ le
sofferenze di quel povero esserino innocente.
“Cose
del genere mi mandano in bestia. Voglio proprio vedere le reazioni
della gente messa di fronte a quello che sto per fare. Sarà una sorpresa
anche per te, anche se capirai molto prima degli altri di che cosa si
tratta.”
Patrizia mi rivolse uno sguardo curioso.
“Pronta per una piccola avventura?”
“Pericolosa?”
“Affatto… Almeno... immagino di no” aggiunsi, ripensandoci.
Uno
dei presenti, al quale chiesi dove potevo farmi fare dei cerchietti di
legno simili a quelli che avevamo davanti, si offrì di accompagnarci dal
falegname. Ne ordinai una decina, che sarebbero stati pronti il giorno
seguente.
“Vuoi organizzare un gioco d’azzardo nella spiaggia? E gli altri come reagiranno?”
“Non
ti preoccupare, come hai visto non vengono sempre. Mi preoccuperò di
scegliere il giorno propizio. Inoltre, per quello che ho in mente, ho
bisogno di un paio d’ore soltanto, forse meno. E sarà sufficiente una
sola volta.”
“Non
capisco dove vuoi andare a parare con tutto questo. L’unica cosa di cui
sono sicura è che non ti interessano i soldi che guadagnerai.”
“Questo
mi dice che, dopo meno di sei mesi, mi conosci già abbastanza bene.
Adesso dobbiamo comprare della roba da mettere in palio e cambiare dei
soldi.”
Il
giorno seguente passai a ritirare i cerchietti e comprai delle tavole
di legno alte un centimetro da cui ricavare le basi dei premi; tagliai
delle forme quadrate di dimensione diversa secondo il valore della
ricompensa, appena più piccole dei cerchietti. Il sostegno su cui dovevo
concentrare la mia attenzione era quello su cui avrei posizionato il
premio di gran lunga più alto, in denaro.
Ma
come farsi un’idea statistica delle probabilità dei giocatori di far
centro? Purtroppo non c’era altro modo che armarsi di molta pazienza e
lanciare i cerchietti verso quella base fino a fare centro.
Impiegai
molte ore, in due giorni consecutivi, a completare mille lanci, senza
riuscire mai a infilare la base del premio in denaro! A volte mi
chiedevo se non avessi esagerato in mio favore, se fosse cioè onesto da
parte mia lasciare ai giocatori un margine di vincita così esiguo…
Il
giorno seguente, appena ebbi disposto sulla sabbia il “tavolo da gioco”
– ovvero delle cassette rovesciate – una piccola folla di curiosi
cominciò ad avvicinarsi, silenziosa come passi felpati sulla sabbia. Mi
accorsi subito che il premio in denaro aveva catturato l’attenzione
generale: in effetti, c’erano Paesi, come l’India, nei quali cento rupie
rappresentavano una piccola fortuna. Ed era una somma dieci volte
superiore a quella, già alta, offerta dagli altri organizzatori del
gioco. Percepii mormorii di meraviglia e incredulità.
Mentre
mostravo loro che il cerchietto entrava nella sua base, fui colto da un
senso di rimorso. Intanto ci fu un’esitazione generale che mi fece
temere che nessuno avrebbe tentato la sorte; invece, qualche istante
dopo, un signore di mezza età, con il denaro in mano, fece un timido
gesto come a dire che desiderava pagare il noleggio dei cerchietti.
Noncurante di tutti gli altri premi minori, più facili da centrare, mirò
direttamente alle cento rupie.
Primo lancio: centro!
Fui
colto alla sprovvista. Ma, mi ripresi subito, come sollevato da un
peso. Volsi lo sguardo verso Patrizia, che sgranò gli occhi per lo
stupore e, forse, anche per la preoccupazione. Sia per noi che per i
nostri clienti, era arrivato il momento della verità: e molto prima del
previsto! Un’evidente atmosfera d’attesa divenne subito palpabile
nell’aria. Forse si chiedevano se lo straniero avrebbe davvero onorato
la vincita.
Sollevai
il biglietto da cento, lo sventolai, toccai la mano al vincitore
congratulandomi per la sua abilità e glielo consegnai. Forse nessuno
capiva l’inglese, ma in questo caso le parole erano superflue.
Mentre
mi accingevo a mettere un’altra banconota da cento sopra la stessa base
di legno, si verificò una di quelle cose così divertenti che non si
possono più dimenticare per il resto della vita. Almeno dieci persone
cominciarono a sventolare in aria le loro rupie nella mia direzione,
facendosi largo a spallate e alzando la voce per noleggiare per prime i
cerchietti. Sembrava così facile!
“Non
c’è da preoccuparsi” dissi, rivolgendomi a Patrizia. “Anzi, sono
contento che qualcuno abbia vinto così presto, benché la cosa mi lasci
ancora perplesso. Se la matematica non è un’opinione, questa è una
circostanza molto vantaggiosa per noi. Come vedi, non ci mancheranno i
clienti!”
Il
denaro che avevo perso corrispondeva a cinquantaquattro pasti in un
ristorante locale! Eppure, furono sufficienti venti minuti per
recuperarlo. In meno di un’ora guadagnai l’equivalente netto di
cinquanta pasti.
Sul
più bello, un diffuso, quasi impercettibile mormorio di voci, si levò
dalla folla, che si divise in due come per lasciar passare qualcuno.
Davanti a noi, apparvero due poliziotti che, gesticolando, ci ordinarono
di smettere. Mi aspettavo qualche problema, magari anche solo un
sequestro del materiale, invece, appena tolsi di mezzo tutto senza
discutere, se ne andarono come se niente fosse.
“Non
è permesso perché è considerato gioco d’azzardo” disse una voce alle
mie spalle. Volsi lo sguardo, con una certa meraviglia nel sentir
parlare inglese. Alle parole gioco d’azzardo, mi vennero alla
mente i baracconi delle fiere italiane dove, probabilmente, chi
organizzava quegli stessi giochi d’azzardo doveva possedere un permesso
speciale. Forse, anche qui, gli organizzatori dei giorni precedenti
avevano un permesso speciale?
Come se mi avesse letto nel pensiero, il tipo proseguì dicendo:
“Però, se volete, posso indicarvi come è possibile, anche per voi, continuare il vostro business.”
Francamente,
per ciò che avevo in mente di fare, il denaro che avevo guadagnato era
più che sufficiente. Ma la curiosità di sapere come funzionavano le cose
in quella parte del pianeta era irresistibile.
“Dimmi come fare.”
“Laggiù
c’è una garitta di polizia” disse, indicandola col dito. “Con il
piccolo regalo di una rupia al guardiano diurno e una rupia al guardiano
notturno, non vi molesterà più nessuno.”
“Una
rupia ciascuno?” dissi a Patrizia. “Due rupie al giorno? Non è nemmeno
il prezzo di un pasto! Non ho nessuna intenzione di proseguire, ma
andiamo a controllare lo stesso se è vero, tanto per divertirci un po’ e
imparare qualcosa.”
Il
nostro accompagnatore entrò con noi nella garitta, cinquanta metri più
lontano. La guardia di turno confermò ogni cosa e io le dissi che ci
avrei pensato su.
Ci
incamminammo verso il posto in cui avevamo organizzato il gioco, per
recuperare le cassette. Da lontano, scorsi di nuovo la manina che usciva
dalla sabbia, così mi avvicinai e mi fermai a pochi passi dalla tomba a
riflettere sul da farsi.
“È una bambina” mi sussurrò all’orecchio il giovane che ci aveva accompagnati alla garitta.
Nessun diritto per le donne in questi Paesi,
fu il primo pensiero che mi attraversò la mente. Ma mi sbagliavo: il
sesso, in questo caso, non c’entrava. Come appresi in seguito, in India
ci sono famiglie che mutilano sia i bambini sia le bambine, rendendoli
zoppi o deformi, perché, fin dalla più tenera età e in seguito per tutta
la vita, possano supportare la famiglia col chiedere l’elemosina.
Questo è il dramma di una miseria che si crede un’irreversibile
conseguenza del Karma. Era paradossale che, il giorno prima, durante le
tre ore che avevo passato a osservare sia gli sviluppi del gioco
d’azzardo sia la risposta alla sollecitazione di denaro per la famiglia
della bambina, nessuno di coloro che avevano gettato via un sacco di
soldi nel gioco dei cerchietti, aveva avuto la decenza di gettare un
solo centesimo dentro il cestino accanto alla mano della bambina. Mi era
stato difficile digerire un boccone così amaro. Ma era stata proprio
questa presa di coscienza a suggerirmi l’idea di organizzare il gioco.
Adesso avevo i soldi e tutti erano testimoni di come li avevo guadagnati.
“Qualcuno potrebbe, per favore, chiamare un membro della famiglia?” dissi, rivolgendomi a chi aveva parlato.
Comparve
quasi subito un signore anziano, emaciato, col viso infossato e duro
simile a una maschera priva di espressione. Adesso, stava in piedi
davanti a me. Mentre riflettevo sul fatto che poteva essere il padre,
uno zio, o il nonno, abbassai lo sguardo verso il contenitore delle
elemosine: era vuoto.
“Quanto porta a casa la bambina ogni giorno?” chiesi. Il nostro accompagnatore tradusse il mio inglese nella lingua locale.
“A
volte una rupia, a volte alcuni centesimi... A volte niente” aggiunse,
dando un’occhiata al cestino. Non potevo essere sicuro che dicesse la
verità.
“Gli dica, per favore, di tirar fuori la bambina dalla sabbia.”
L’anziano non sembrava disposto a farlo.
“Gli dica che se la tira fuori gli darò molti soldi.”
L’anziano rimase riluttante.
Parlottarono.
L’anziano
si mosse finalmente verso la piccola mano. Fu estratta dalla sabbia una
bambina in uno stato avanzato di denutrizione. Dopo ore di immobilità,
stentava a reggersi in piedi. Aveva, anche lei, l’espressione assente di
uno zombie.
“Ha
bisogno di cibo e medicine” affermai. “Gli dica che gli darò
l’equivalente di circa tre mesi del guadagno della bambina, cioè cento
rupie. Ma deve promettermi di non farla lavorare per almeno dieci
giorni.”
Appena
ebbi pronunciato il numero di giorni, mi balenò alla mente che, quasi
sicuramente, l’uomo non sapeva contare: era frustrante. Mi avvicinai
alla bambina e le tolsi qualche granello di sabbia umida da una guancia.
Non ci fu nessuna reazione. Continuava a guardare fisso dinanzi a sé,
con lo stesso sguardo: non c’era né interesse né preoccupazione nel suo
visino. Né un barlume di sollievo, tanto meno di speranza. Anzi,
sembrava purtroppo già al di là della soglia del dolore fisico e
dell’angoscia. La precoce rassegnazione ancestrale di fronte a
sofferenze più grandi di lei, aveva scatenato le difese protettive del
suo sistema. Forse non aveva mai percepito le sue sofferenze come
soprusi e io potevo illudermi che, almeno la parte mentale, non dovesse
aver sofferto. Ma il risultato era una totale insensibilità sia al mondo
interiore sia esterno. Non mi stupii che sembrasse non accorgersi della
mia presenza.
Mentre
davo al vecchio il denaro, udii mormorare alle mie spalle.
Improvvisamente, mi sentii un intruso: troppo fragile e pietoso per una
realtà così mostruosamente cristallizzata. Ed ero incapace di aiutare.
Angosciato, non potevo rimanere lì un minuto di più. Mentre mi
allontanavo, sentii una mano amica prendermi sottobraccio. Era il
giovane che mi aveva aiutato con la polizia e la traduzione. Disse, con
voce tranquilla:
“Forse
capisco perché hai organizzato il gioco. Se era per mandare un
messaggio ai giocatori... ebbene... nessuno, tranne me, ha capito perché
l’hai fatto. La vita andrà avanti come sempre: nessuno le lascerà un
centesimo. Inoltre è la figlia di un intoccabile, la più bassa delle
caste indiane. Tu l’hai toccata e, adesso, sei impuro anche tu. Pochi
dei presenti comprendono che i tuoi costumi, dalle tue parti, sono
diversi dai nostri. In quanto agli altri... non sono così aperti
mentalmente… ”
“Credevo che Gandhi avesse abolito il sistema delle caste… tanto tempo fa… ” osservai demoralizzato.
“Solo in teoria. In pratica… Be’… Così è la vita, da queste parti.”
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